• Sport
  • Mercoledì 14 febbraio 2024

Pantani non era come gli altri ciclisti

Fu uno dei più grandi e più amati, nonostante una carriera breve, con molti incidenti e molte polemiche legate al doping: il 14 febbraio 2004 morì per overdose nella stanza di un residence di Rimini

Marco Pantani nel luglio del 1997 (Mike Powell /Allsport)
Marco Pantani nel luglio del 1997 (Mike Powell /Allsport)
Caricamento player

Il 14 febbraio del 2004, vent’anni fa, il ciclista italiano Marco Pantani fu trovato morto nella sua stanza del residence Le Rose di Rimini. L’autopsia stabilì che morì per un edema polmonare e cerebrale, causato da un’overdose di cocaina e psicofarmaci. Aveva 34 anni, non si era ancora ufficialmente ritirato dalle corse ciclistiche, ma da alcuni anni soffriva di depressione e si era progressivamente isolato: la sua fine solitaria fu oggetto di speculazioni, libri, inchieste e teorie più o meno complottiste.

Tutto questo contribuì ad alimentare la figura tragica e “da romanzo” di Pantani, che però era diventato un personaggio molto prima, grazie a uno straordinario talento in bicicletta e a un modo di interpretare il ciclismo molto diverso dai suoi contemporanei, più simile a quello dei cosiddetti pionieri.

Pantani era – ed è ancora a vent’anni dalla sua morte – uno degli sportivi più amati in Italia. Fu probabilmente l’ultimo ciclista capace di “muovere le masse” ed essere oggetto di un tifo trasversale, che negli anni migliori lo rese un personaggio popolare anche ai non appassionati del suo sport. Esistono pochi dati oggettivi per quantificare l’interesse e la passione che seppe raccogliere, ma le tappe più importanti delle grandi corse di cui era protagonista sono ancora quelle in cui sono stati registrati ascolti record per il ciclismo in televisione: anche 7 milioni di telespettatori, di pomeriggio su Rai 3. E la madre Tonina Belletti ha recentemente raccontato a Sportweek: «Quando vado a trovarlo al cimitero non riesco a stare sola con lui perché c’è un via vai di ciclisti. È una cosa incredibile: con gli anni questo amore è aumentato».

Pantani fu l’ultimo a vincere le due maggiori corse a tappe, Giro d’Italia e Tour de France, nello stesso anno, il 1998. Nella storia ci sono riusciti in sette, Fausto Coppi è l’unico altro italiano. Ma è difficile dare una dimensione del ciclista Pantani basandosi solo sui risultati: non vinse tantissimo, dal punto di vista quantitativo. La sua carriera è stata caratterizzata da grandi imprese e molte cadute, in senso non solo figurato. Si infortunò una volta perché un gatto gli attraversò la strada e due volte scontrandosi con auto che non dovevano essere sul percorso. La sua storia sportiva fu cinematografica, negli alti e nei bassi: quando un anno dopo i trionfi nei grandi giri fu fermato per un livello di ematocrito superiore al consentito (comunemente segno di un ricorso a sostanze dopanti, e in particolare all’eritropoietina, anche detta EPO) la sua carriera di fatto finì e i suoi problemi personali cominciarono.

Marco Pantani al Tour del 1998 (Graham Chadwick /Allsport)

Era “da film” anche il suo modo di correre: era alto poco più di un metro e 70 centimetri e pesava poco più di 50 chili, portava una bandana (il casco non era ancora obbligatorio) e spesso vistosi occhiali da sole. In salita faceva frequenti e potenti attacchi, alzandosi sui pedali e tenendo le mani basse sul manubrio, come nessun altro prima di lui. Faceva pochi calcoli ed era molto istintivo. Chi ha corso con lui racconta che non prestava nemmeno troppa attenzione alle ricognizioni dei percorsi che i ciclisti abitualmente svolgono nei giorni e nelle settimane precedenti. Diceva: «Una salita è una salita, se hai le gambe attacchi».

Tutto nel suo stile e nella sua figura era differente dai campioni più vincenti di quegli anni, da Miguel Indurain a Jan Ullrich, più regolari, più compassati, più attenti a gestire forze e ritmo. Pantani invece viveva di grandi imprese, e di accelerazioni incredibili in salita, spesso dopo essersi tolto la bandana, che gli era valsa il celebre soprannome di Pirata.

Secondo gli addetti ai lavori fu uno dei migliori – se non il migliore – scalatore puro della storia del ciclismo, in riferimento a quei ciclisti in grado di dare il meglio nelle tappe di montagna, quelle in cui le salite sono più dure, più lunghe e quindi decisive. Pantani detiene ancora il record non superato nel tempo di ascesa all’Alpe d’Huez, una delle salite storiche del Tour de France, e costruì gran parte della sua fama su altre montagne fra le più dure d’Europa: il Mortirolo, il Mont Ventoux, il Galibier.

Cresciuto a Cesenatico, la prima volta che Pantani mostrò il suo enorme potenziale al grande pubblico fu proprio in due tappe di montagna. Era il 1994, aveva 24 anni ed era alla sua seconda partecipazione al Giro d’Italia: correva in bici da corsa da poco più di dieci anni, da quando il nonno gliene aveva regalata una. Era considerato un talento, ma già nelle categorie juniores aveva avuto alcuni incidenti che ne avevano rallentato la crescita.

In quell’edizione il capitano della sua squadra era Claudio Chiappucci, uno dei migliori ciclisti italiani dell’epoca: la 14esima tappa arrivava a Merano, Alto Adige, dopo cinque passi montani. Pantani scattò sull’ultimo, fece il vuoto dietro di sé in salita e poi incrementò il vantaggio, mostrando un’altra dote speciale, quella di gettarsi a grande velocità in discesa, rischiando molto ma trovando traiettorie precise e vincenti. Negli ultimi venti chilometri in pianura difese il vantaggio e vinse una tappa spettacolare. Il giorno dopo era previsto un altro “tappone” dolomitico, Merano-Aprica, con le salite dello Stelvio, del Mortirolo e di Santa Cristina: Pantani staccò i migliori sul secondo, raggiunse un gruppo di avversari in fuga, li superò e distanziò sulla successiva salita.

Quello fu l’anno in cui il mondo del ciclismo scoprì definitivamente Pantani: chiuse secondo al Giro e terzo al Tour de France, un risultato considerevole per chi aveva iniziato la stagione per fare “gioco di squadra” per Chiappucci. Le ascese sul Mont Ventoux e sull’Alpe d’Huez esaltarono anche i francesi. Gianni Mura, celebre giornalista di Repubblica che seguì molte edizioni del Tour, raccontò in seguito: «Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: “Perché vai così forte in salita?”. E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: “Per abbreviare la mia agonia”».

Marco Pantani nel 1995 sull’Alpe d’Huez (Pascal Rondeau/ALLSPORT)

La stagione successiva iniziò con una caduta che ne condizionò la preparazione e si chiuse, dopo risultati non paragonabili a quelli dell’anno precedente, con lo scontro con un fuoristrada entrato sul percorso della Milano-Torino: Pantani riportò una doppia frattura alla gamba che rischiò di mettere fine alla sua carriera. Ritornò dopo meno di un anno, cadde ancora, stavolta per un gatto che aveva attraversato la strada al passaggio del gruppo di corridori, chiuse terzo il Tour del 1997, la prima corsa a tappe in cui tornò a poter gareggiare senza problemi fisici (ma con una bronchite).

Il 1998 fu l’anno della consacrazione: al Giro d’Italia batté gli altri favoriti Alex Zülle e Pavel Tonkov, centrando la prima grande vittoria in carriera. Erano anni in cui il ciclismo era molto seguito, ma anche molto discusso, per frequenti casi di doping che caratterizzarono anche l’edizione di quell’anno del Tour de France. Pantani inizialmente non doveva parteciparvi, poi cambiò idea: aveva interrotto gli allenamenti, ma recuperò presto una buona forma e alla quindicesima tappa sul Col du Galibier, in una frazione resa ancora più complessa dal freddo e dalla pioggia, staccò di nove minuti il favorito Ullrich, prendendosi la maglia gialla (che viene indossata dal primo in classifica generale). La conservò fino alla fine, vincendo la gara a tappe. Quella vittoria fu la prima di un ciclista italiano al Tour de France in 33 anni: l’ultima era stata quella di Felice Gimondi nel 1965, dopo ci sarebbe riuscito Vincenzo Nibali nel 2014.

Sul podio del Tour nel 1998 (AP Photo/Peter Dejong, File)

Nel 2004, una commissione parlamentare del Senato francese dispose analisi antidoping retroattive condotte a campione sui partecipanti a quattro tappe del Tour 1998: con le nuove tecniche emersero positività all’EPO di buona parte dei corridori migliori, compreso Pantani.

– Leggi anche: Il Tour de France di Marco Pantani

Nel 1999 dominò il Giro d’Italia: nella tappa di Oropa si fermò all’inizio della salita per un problema alla catena della bici: restò in fondo al gruppo, ma poi superò 49 avversari per arrivare primo, da solo. I suoi primi allenatori raccontarono che da ragazzino lo facesse apposta: si faceva superare da tutti per poi rimontarli uno a uno. Non ci sono certezze sull’autenticità del racconto, ma allora ci vollero credere tutti.

Pantani era all’apice, ma nella penultima tappa venne fermato per valori superiori alla norma dell’ematocrito nel sangue (la densità dei globuli rossi): non risultò positivo all’antidoping, ma le regole imposero la sua sospensione dalle attività sportive per 15 giorni per “ragioni di salute”. Anche su questo episodio sono nate negli anni molte teorie e discussioni: di fatto comunque la carriera di Pantani quasi finì lì. Rinunciò al Tour successivo, iniziò a isolarsi e – si sarebbe scoperto poi – a fare uso di cocaina per combattere la depressione.

Tornò alle corse nel 2000, anno in cui vinse due tappe memorabili del Tour staccando lo statunitense Lance Armstrong, dominatore di quegli anni a cui poi vennero revocati tutti i titoli per doping. Ma furono le ultime vittorie della carriera: negli anni successivi venne coinvolto in varie questioni giudiziarie, non riuscì mai a tornare ai livelli di prima e fu sempre più dipendente da alcol, cocaina e psicofarmaci. Nonostante una parte dei tifosi continuasse a seguirlo con affetto, si isolò e si allontanò dal mondo del ciclismo da cui si sentiva tradito. Nei giorni di febbraio del 2004 disse di voler andare in vacanza in montagna, partì da solo per Milano ma poi rientrò a Rimini, prendendo una stanza nel residence in cui venne trovato morto.

Sulla morte di Pantani sono state aperte negli anni tre diverse inchieste: tutte le indagini si sono concentrate sulla possibilità che la morte non sia stata accidentale, ma che il ciclista sia stato ucciso da qualcuno che lo avrebbe raggiunto nel residence. Le prime due inchieste non portarono a nulla e anche la terza, aperta circa due anni fa, sembra essere vicina all’archiviazione. La famiglia di Pantani, e in particolare la madre Tonina, non ha mai voluto credere all’overdose e ha sottolineato attraverso i propri legali presunte incongruenze nella stanza in cui è stato ritrovato, nello stato del corpo e nelle testimonianze delle ultime persone che lo videro.

Chi crede nell’omicidio di Pantani ritiene che questo sia collegato a questioni di scommesse clandestine gestite dalla criminalità organizzata relative al Giro del 1999. L’ipotesi, mai confermata da riscontri effettivi ma riferita da alcuni detenuti sulla base di confidenze ascoltate in carcere, è che furono contraffatti dalla criminalità organizzata gli esami del sangue del 1999, quando Pantani fu fermato mentre stava per vincere il Giro d’Italia. Secondo questa teoria a organizzare tutto sarebbe stata la camorra, che aveva investito molti soldi nel giro delle scommesse clandestine sull’ipotesi, assai improbabile, che Pantani perdesse il Giro.

Oppure, secondo un’altra versione, la camorra sarebbe stata spaventata dall’enorme numero di scommesse che davano Pantani vincente e, temendo di dover sborsare capitali ingenti, sarebbe corsa ai ripari. Non è mai stato indicato chiaramente perché, anche dando per buona questa tesi, cinque anni dopo la camorra avrebbe dovuto decidere di uccidere Pantani. Ma la fine solitaria e probabilmente la reticenza di alcune persone che lo avevano visto nelle ultime ore (si parla di una persona che gli avrebbe portato la cocaina e forse due donne che lavoravano come escort) hanno alimentato dubbi che resistono tuttora, a vent’anni di distanza.

Il Tour de France renderà omaggio a Pantani nell’edizione 2024: la seconda tappa, il 30 giugno, partirà da Cesenatico. Sempre a Cesenatico c’è anche lo Spazio Pantani, un museo che ripercorre la sua carriera, mentre in Romagna e sull’arco alpino sono numerosi i monumenti e le targhe a lui dedicate.