Cosa furono le foibe

Il 10 febbraio è il “Giorno del ricordo”, con cui si commemorano i massacri di civili e soldati italiani avvenuti alla fine della Seconda guerra mondiale sul confine orientale, da sempre oggetto di polemiche politiche

La scoperta di una fossa comune in Friuli Venezia Giulia
La scoperta di una fossa comune in Friuli Venezia Giulia (ARCHIVIO/ANSA)
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In Italia da vent’anni il 10 febbraio si celebra il “Giorno del ricordo”, in cui si commemorano i morti sul confine orientale italiano alla fine della Seconda guerra mondiale, tra il 1943 e il 1945, e la successiva emigrazione forzata delle persone di nazionalità e lingua italiana da quelle zone, che comprendevano l’Istria, la Dalmazia e la Venezia Giulia (regione storica che non coincide con l’attuale Friuli Venezia Giulia e comprende anche territori oggi non italiani).

A quel periodo e a quegli avvenimenti ci si riferisce spesso come “le foibe”, anche se letteralmente le foibe di cui si parla sono cavità naturali molto profonde tipiche dei territori al confine tra Italia, Slovenia e Croazia: queste specie di fosse sono però diventate il simbolo dei massacri di quel periodo, compiuti in larga parte dai partigiani jugoslavi ai danni di persone spesso legate al fascismo, perché al loro interno furono gettati indistintamente i corpi di molte delle persone uccise.

Il termine “foiba” deriva dal friulano, derivato a sua volta dal latino fovea, che significa fossa: si usa per indicare delle grandi conche nel terreno, al cui fondo di solito si forma quello che viene definito inghiottitoio, cioè una voragine nel terreno attraverso la quale defluiscono le acque che si accumulano nella conca. Nel linguaggio corrente in ogni caso con “foibe” ci si riferisce quasi esclusivamente agli avvenimenti storici, più che alle foibe in sé.

Sulle foibe ci sono ciclicamente polemiche, di natura assai più politica che storica: se da una parte la ricostruzione dei fatti è infatti in massima parte condivisa, dall’altra ci sono spesso discussioni sul giusto valore storico da attribuire alle foibe, sulle responsabilità morali di quegli avvenimenti e sull’opportunità di paragonarli ad altri eccidi del Novecento. In sostanza sulle foibe i politici di destra accusano frequentemente quelli di sinistra di non dare la giusta importanza alla commemorazione, di minimizzare quello che accadde o addirittura di volerlo censurare perché coinvolse persone legate alla destra e non alla sinistra.

Negli ultimi anni la discussione sulle foibe si è nuovamente polarizzata per via dei maggiori consensi acquisiti dalla destra radicale rispetto al passato, ma le polemiche sono ormai da tempo perlopiù strumentali. Spesso peraltro contribuiscono ad alimentare una certa confusione sul contesto storico e sociale in cui avvennero i fatti delle foibe, su come fossero quelle zone, le persone che ci abitavano all’epoca e che ci avevano abitato nei decenni precedenti.

Il cosiddetto confine orientale, chiamato anche regione dell’Alto Adriatico, è un territorio in cui per secoli si sono incrociate e sovrapposte culture diverse, principalmente quella germanica, quella slava e quella italiana. Le identità culturali delle persone che abitavano in queste regioni erano (e in parte sono ancora) complesse, legate all’appartenenza locale e non nazionale. Era così soprattutto in passato, quando le nazioni ancora non esistevano nella forma in cui siamo abituati a intenderle oggi.

Dopo essere stati sotto il dominio dell’Impero romano, della Repubblica di Venezia e dell’Impero austro-ungarico, nel 1918 una parte consistente di questi territori – l’Istria e una parte di quella che oggi è la Slovenia – passò sotto il dominio italiano, in conseguenza del trattato di pace della Prima guerra mondiale. Nei territori annessi, i governi italiani e in particolare il regime fascista iniziarono un’estesa opera di assimilazione culturale, spesso usando la forza e la violenza per italianizzare i popoli e negare la loro appartenenza a culture diverse da quella italiana. Per questo motivo molte persone del Nord-Est italiano ancora oggi hanno il cognome italianizzato che termina in “ich”  al posto dello slavo “ić”, e alcune città slovene sono conosciute da noi con il loro nome in italiano (per esempio San Pietro del Carso).

Questa italianizzazione forzata e in generale l’occupazione italiana crearono una tensione che poi si acuì durante la Seconda guerra mondiale, in particolare a partire dal 1941, quando l’esercito nazista tedesco invase la Jugoslavia. A seguito dell’occupazione, una parte ancora più ampia di territorio sul fronte orientale passò sotto il controllo dell’Italia fascista. Nel frattempo, già dal 1941, aveva cominciato a formarsi la Resistenza jugoslava guidata dai comunisti del maresciallo Josip Broz, soprannominato Tito, che puntava a riconquistare i territori controllati dagli italiani e a riunire i popoli slavi in un’unica federazione. Tra il 1941 e il 1943 la tensione che si era accumulata negli anni precedenti sfociò in una lunga serie di violenze tra i partigiani slavi e gli occupanti italiani.

Era un periodo in cui le violenze efferate erano continue, in cui omicidi, esecuzioni sommarie e deportazioni erano il risultato della guerra in corso. L’occupazione fascista cercò di reprimere la Resistenza jugoslava con ogni mezzo, seguendo uno schema codificato da una nota del generale Mario Roatta, comandante delle truppe stanziate nei territori occupati. I villaggi venivano distrutti, le donne, gli anziani e i bambini internati nei campi di prigionia, e gli uomini partigiani fucilati.

È in questo contesto di prolungata violenza che sul confine orientale si venne a conoscenza della firma della resa italiana, annunciata l’8 settembre 1943. La Resistenza jugoslava prese coraggio e si rafforzò grazie a nuove adesioni. Nelle settimane successive all’armistizio si crearono un clima di rabbia e un desiderio di vendetta che portarono a continue violenze e regolamenti di conti. I partigiani slavi in Istria decisero di ordinare l’arresto di centinaia di rappresentanti o collaboratori dell’ex regime, che vennero processati sommariamente e fucilati. I loro corpi furono poi gettati nelle foibe intorno a Pisino, in Istria.

Il recupero di 84 persone uccise dalla fossa dei Colombi da parte dei vigili del fuoco nel 1943

È stato calcolato che le persone uccise in questa circostanza furono circa duecento. Se a questo numero si aggiungono tutti gli scomparsi e i morti in circostanze a oggi sconosciute ma attribuibili a quelle ritorsioni, si arriva a circa 400-500 morti, una stima condivisa da quasi tutti gli storici che si sono occupati di questo tema.

Nel 1945 ci furono poi altre uccisioni commemorate a loro volta nel “Giorno del ricordo”, in una fase della guerra e in un contesto però assai diversi: a fine aprile la Germania nazista era ormai quasi del tutto sconfitta e il clima da resa dei conti era ancora più intenso rispetto all’autunno del 1943. Nell’Alto Adriatico i partigiani slavi capirono che bisognava muoversi il più velocemente possibile verso ovest per poter avanzare più pretese sui territori al momento delle trattative, e quindi l’esercito jugoslavo arrivò a Trieste già il primo maggio.

In questa fase Tito non era più a capo di una Resistenza in difficoltà, ma di uno stato vero e proprio, con un governo e un esercito (sarebbe poi rimasto presidente della Repubblica jugoslava fino alla sua morte nel 1980). Per consolidare il governo e il regime comunista che sarebbe nato di lì a poco, quindi, decise di procedere con una serie di arresti tra collaborazionisti del nazismo, ex fascisti e oppositori politici, o presunti tali: circa 10mila in tutto. Di questi, circa un migliaio fu ucciso dall’esercito comunista jugoslavo e gettato nelle cosiddette “foibe giuliane”, nella Venezia Giulia.

Secondo una stima per eccesso, anche questa condivisa dalla maggior parte degli storici, in quest’altra fase gli italiani uccisi furono tra i tremila e i quattromila. Molti di questi non morirono nelle foibe, ma nei campi di prigionia dove le condizioni di vita erano ai limiti della sopravvivenza. Vennero uccise o imprigionate anche persone che non erano esplicitamente legate al regime fascista, ma che erano sospettate di essere potenziali oppositori politici del regime di Tito.

Negli stessi mesi praticamente in tutta Europa erano in corso violenze e ritorsioni simili a quelle dell’Alto Adriatico, sospinte dalla sconfitta della Germania nazista e dal desiderio di vendetta. Le stragi jugoslave del 1943 e del 1945 non ebbero come movente principale un accanimento specifico nei confronti degli italiani in quanto tali, e gli storici ritengono che non sia il caso di parlare di “pulizia etnica”. Molte delle persone uccise avevano un’identità mista o non erano italiane (erano per esempio tedeschi o collaborazionisti sloveni), e gli ordini delle autorità slave erano chiari: «epurare non sulla base della nazionalità, ma del fascismo».

La connotazione di queste violenze era quindi soprattutto politica e ideologica, risultato di anni di occupazione straniera da parte dei regimi italiano e tedesco, entrambi con un’ispirazione politica diametralmente opposta rispetto a quella della nascente Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.

Per alcuni decenni dopo la guerra ci fu una grande ritrosia degli ambienti politici e culturali di sinistra a raccontare pubblicamente le vicende del confine orientale, per un’indulgenza in parte storica e in parte ideologica nei confronti di atrocità che erano ritenute il risultato di quelle che le avevano precedute, cioè quelle del fascismo. La destra invece accusava la sinistra di dare un’importanza minore ai massacri delle foibe perché coinvolsero in gran parte persone legate al fascismo (ma non solo, come si è detto).

Dopo la fine della Guerra fredda e la scomparsa del Partito Comunista Italiano, cioè a partire dal 1991, questa ritrosia diminuì, e nei decenni più recenti sostanzialmente non c’è più stata: nonostante questo, nelle discussioni contemporanee sono ancora frequenti le accuse agli ambienti della sinistra di voler attenuare o addirittura negare la gravità di quello che accadde. È tendenzialmente la posizione di chi, da destra o da estrema destra, sostiene che le foibe non siano abbastanza ricordate. Da anni avanzano accuse simili partiti come Fratelli d’Italia e la Lega, ma anche movimenti più estremisti come Forza Nuova e CasaPound, che in queste occasioni organizzano con frequenza proteste, manifestazioni e incontri.

Uno degli argomenti più utilizzati è che esisterebbe la volontà di oscurare e mettere a margine il racconto delle violenze sul confine orientale. Alle vicende del confine orientale è stata dedicata in realtà una gran quantità di incontri, approfondimenti, cerimonie ufficiali, fiction e film della Rai.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a destra, guarda un video commemorativo durante la celebrazione del Giorno del Ricordo 2024 al Quirinale

È anche per via di queste rivendicazioni e polemiche che il “Giorno del ricordo” venne introdotto solo nel 2004, quando era in carica il secondo governo di Silvio Berlusconi, di centrodestra. In parte la commemorazione fu istituita nel tentativo implicito e a volte esplicito – poco storico, molto politico – di “compensare” la festa del 25 aprile, quella della liberazione dal nazifascismo, e la Giornata della memoria, che si celebra il 27 gennaio di ogni anno per ricordare i sei milioni di ebrei morti nell’Olocausto e gli altri milioni di persone sterminate dalla Germania nazista e dagli alleati, compresa l’Italia fascista.

Per il “Giorno del ricordo” fu scelta simbolicamente la data del 10 febbraio, giorno in cui nel 1947 fu firmato il trattato di pace con cui l’Istria e una parte della Venezia Giulia divennero parte della Jugoslavia. I firmatari della legge che istituì la commemorazione erano per lo più parlamentari di Forza Italia e di Alleanza Nazionale, il partito erede della tradizione neofascista del Movimento Sociale Italiano. Ma fu votata e condivisa da quasi tutti i partiti in parlamento, dalla Lega ai Democratici di sinistra, con l’eccezione di Rifondazione comunista.