Spotify è circondato dalle intelligenze artificiali

Quelle per imitare gli artisti e simulare gli ascolti, che sono un problema, ma anche quelle per personalizzare sempre di più i propri servizi, a discapito delle vecchie playlist

(Antony Jones/Getty Images for Spotify)
(Antony Jones/Getty Images for Spotify)
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Lo scorso aprile Spotify, l’azienda che gestisce la più grande piattaforma per ascoltare musica in streaming online, ha rimosso diverse canzoni che erano state generate utilizzando delle intelligenze artificiali. I brani avevano fatto molto discutere perché erano stati realizzati con dei software in grado di replicare le voci e lo stile di artisti di successo come Drake e The Weeknd, raggiungendo milioni di visualizzazioni sui social network. Poco dopo aveva fatto sapere di aver rimosso altre tracce realizzate con le intelligenze artificiali e nello specifico con Boomy, un servizio online in grado di «creare canzoni in pochi secondi».

Dopo pochi giorni, però, Spotify era tornata sui suoi passi, ripristinando le canzoni bandite. A settembre, l’amministratore delegato di Spotify Daniel Ek aveva confermato che la piattaforma non avrebbe più rimosso tracce generate con le intelligenze artificiali a meno che questa tecnologia non fosse stata usata per imitare altri artisti. In quell’occasione, Ek definì la questione «spinosa» e disse che «sarà dibattuta per molti, molti anni».

Il problema di Boomy non era in realtà che permettesse di pubblicare canzoni “sintetiche”, cioè generate o modificate utilizzando algoritmi di intelligenza artificiale, quanto il sospetto che la società avesse utilizzato dei bot per simulare dei finti ascolti e quindi far sembrare che le canzoni avessero un successo che invece non avevano. È una pratica che viene definita «streaming artificiale» (o bot listening, l’ascolto dei bot) ed è vietata dal regolamento di Spotify. A denunciare Boomy, secondo il Financial Times, fu l’etichetta discografica Universal Music dopo aver constatato «attività sospette nello streaming» di queste canzoni.

Lo streaming artificiale è in realtà un problema che Spotify e servizi simili conoscono da ben prima che si cominciasse a dibattere più insistentemente di intelligenze artificiali, o che nascessero software che rendessero molto facile creare canzoni. E anche prima che le intelligenze artificiali lo rendessero tanto immediato, c’erano altri strumenti che permettevano di gonfiare gli ascolti e che venivano sfruttati dai musicisti per aumentare il loro pubblico e le loro entrate.

Recentemente però i volumi però sono aumentati: Tony Rigg, che insegna management musicale all’University of Central Lancashire, nel Regno Unito, ha definito «un’inondazione» l’aumento del volume di contenuti sintetici musicali nella piattaforma, che ha reso l’utilizzo di bot per l’ascolto ancora più efficace. Il meccanismo è simile a quello che permette di acquisire like e follower finti sui social network: chi pubblica canzoni artificiali poi paga delle aziende terze che utilizzano bot per simulare l’ascolto continuo delle tracce e quindi aumentare il compenso per lo streaming che ricevono da Spotify.

Sulinna Ong, responsabile editoriale di Spotify, spiega che «quando Spotify rileva o viene informata di riproduzioni manipolate, agisce in diversi modi. Ad esempio, modifica le statistiche di riproduzione al ribasso e trattiene i pagamenti». In alcuni casi può anche rimuovere completamente le canzoni e gli artisti dalla piattaforma. «A partire da quest’anno, l’azienda può anche addebitare alle etichette e ai distributori un costo per canzone, quando vengono rilevate evidenti riproduzioni artificiali nei loro contenuti. Questa nuova misura è frutto di una migliore tecnologia di rilevamento delle riproduzioni artificiali, introdotta all’inizio del 2023, nonché dell’istituzione della Music Fights Fraud Alliance», un’alleanza tra servizi di streaming musicali (di cui fa parte anche Amazon Music, tra gli altri) che ha l’obiettivo di eradicare le frodi nello streaming.

Lo streaming artificiale è problematico anche per gli artisti, soprattutto quelli minori. I pagamenti delle royalties attingono infatti da un budget limitato di Spotify: questo vuol dire che se più soldi finiscono a canzoni ascoltate dai bot, le canzoni ascoltate dagli umani ricevono meno soldi.

La gestione di questa marea di contenuti artificiali e di scarsa qualità va a toccare quindi uno dei punti più critici della piattaforma, ovvero la giusta retribuzione degli artisti. A partire dall’inizio di quest’anno, ad esempio, Spotify smetterà di versare pagamenti per tutte le canzoni con meno di mille ascolti annui, una decisione che ha creato molto scontento nei musicisti. Per dare un’idea dell’impatto di queste nuove regole, Luminate, società di analisi del mercato musicale su cui si basano le celebri classifiche di Billboard, ha calcolato il loro impatto sulla base dei dati relativi al 2022 e concluso che circa 152 milioni di canzoni sono destinate a perdere diritto alla retribuzione per gli ascolti ricevuti.

L’influenza delle intelligenze artificiali su Spotify non si fa sentire solo sui contenuti ma anche nell’organizzazione e nel design della piattaforma. Il social network più influente degli ultimi anni, TikTok, si è imposto sulla concorrenza anche utilizzando intelligenze artificiali (o, come li chiamavamo prima, algoritmi) in grado di raccomandare e scoprire contenuti per gli utenti. Nel marzo del 2023 Spotify presentò una riorganizzazione dell’app che sembrava ispirarsi proprio a TikTok, con un design basato sullo scrolling verticale che dà spazio ai video, ai podcast e alla vendita di biglietti. Come ha scritto il sito The Verge l’anno scorso, «sono un bel po’ di cose da infilare in una singola app», che nel frattempo ha cominciato a «spingere le persone verso contenuti più vari e profittevoli, cosa che spesso significa rendere più difficile l’ascolto della musica». L’aumento di offerte non musicali – dai podcast agli audiolibri passando per il rumore bianco che alcune persone usano per concentrarsi o rilassarsi – ha infatti riempito le bacheche degli utenti, togliendo spazio agli stessi consigli musicali che avevano fatto la fortuna iniziale di Spotify.

Il ripensamento del servizio ha coinvolto anche uno degli elementi più caratteristici di Spotify, ovvero le playlist, che possono essere composte dagli utenti ma vengono anche proposte da personale specializzato interno all’azienda. Alcune playlist ufficiali di Spotify hanno avuto enorme influenza nel mercato: è il caso di RapCaviar, playlist di hip hop americano lanciata nel 2015, che ha praticamente decretato il successo di alcuni artisti un tempo poco conosciuti (viene considerata cruciale per il successo della rapper Cardi B, per esempio). Secondo un recente articolo di Bloomberg, però, le playlist tradizionali stanno perdendo ascolti e influenza in favore dei consigli personalizzati generati dall’algoritmo per l’utente, un altro punto su cui Spotify ha preso ispirazione dai social network.

Già nel 2020, Ek parlò di questa trasformazione di Spotify: «man mano che miglioriamo sempre di più nella personalizzazione, offriamo contenuti sempre migliori e sempre più utenti lo scelgono». La tendenza è continuata negli anni successivi, portando al licenziamento di una parte del personale che curava le playlist (lo scorso dicembre Spotify ha licenziato il 17 per cento dei suoi dipendenti). Secondo Bloomberg, fonti interne ad alcune grandi etichette discografiche sostengono che il numero di ascolti provenienti da RapCaviar, per esempio, sia sceso del 30/50 per cento.

Lo scorso anno Spotify ha presentato due nuove funzionalità che confermano il maggiore focus sulla personalizzazione dei contenuti proposti agli utenti: AI DJ, una specie di dj digitale in grado di selezionare e commentare le canzoni, e Daylist, una playlist che si modifica nel corso della giornata, accompagnando gli utenti con proposte sempre diverse. Nonostante tutto, Sulinna Ong ha detto che le playlist editoriali hanno ancora un loro pubblico: più di 140 milioni di ascoltatori per le sole dieci principali playlist editoriali prodotte dall’azienda, che ha definito una «expertise “umana”» che ha guidato anche lo sviluppo di prodotti come AI DJ.