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  • Venerdì 26 gennaio 2024

Il grande dibattito sulle tette

Alcuni lettori e lettrici del Post hanno chiesto spiegazioni su una frequente scelta linguistica

Farm Cove, Sydney, 1886 (Charles Bayliss/Hulton Archive/Getty Images)
Farm Cove, Sydney, 1886 (Charles Bayliss/Hulton Archive/Getty Images)
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Dopo che il Post ne ha parlato lunedì scorso nella sua newsletter quotidiana, c’è stata una ulteriormente vivace curiosità e partecipazione al dibattito sull’uso della parola “tette”, e del suo singolare “tetta”. Le discussioni linguistiche appassionano sempre molto – è una competenza che tutti riteniamo di avere: la cosa che abbiamo studiato di più a scuola, e che pratichiamo con maggiore frequenza e continuità – e in questo caso le implicazioni di pudore e le diverse sensibilità sulle buone maniere hanno creato ancora maggiori coinvolgimenti e dibattito.

Il riassunto per tutti è questo: dopo averlo fatto già negli anni passati in diverse altre occasioni, il Post ha usato la settimana scorsa la parola “tetta” all’interno di un articolo sulle polemiche intorno a una pubblicità di Calvin Klein. Per la maggioranza delle persone che lavorano al Post – non per tutte – quella è una parola consueta, familiare, non volgare e non offensiva; e corrisponde ai criteri abituali del Post di usare linguaggi familiari, di scrivere come si parla, di non servirsi di termini artificiosi, eufemistici o diversi da quelli della comunicazione quotidiana. Ed è anche – ma ci arriviamo meglio – la più adeguata scelta per indicare quella cosa, in termini di chiarezza e correttezza: le altre possibili – un’offerta piuttosto povera della nostra lingua, probabilmente per ragioni tradizionali di pruderie su alcune parti del corpo – sono tutte in contraddizione con i criteri che abbiamo descritto, o in contraddizione col significato in questione.

Questo però non è un giudizio condiviso da tutti quanti, come avviene con molte scelte linguistiche: la lingua per sua natura non crea usi e sensibilità unanimi, e non sarà né la prima né l’ultima volta che una parola adeguata e familiare per molti non lo sia per altri. In questa occasione però le reazioni di alcuni lettori e lettrici sono state più vivaci o più infastidite che in altri casi (compresi quelli passati in cui la stessa parola era stata già usata sul Post, senza che ci fossero reazioni). Come il Post fa abitualmente abbiamo risposto ad alcune mail dei lettori, abbiamo lasciato che il dibattito si animasse nei commenti all’articolo (e che si rinnovasse in un’occorrenza successiva), abbiamo accennato a un paio di valutazioni nella newsletter destinata agli abbonati.

Ma siccome le curiosità sono proseguite estendiamo volentieri anche qui la condivisione di alcune considerazioni: con qualche imbarazzo – che capirete – per la palese sproporzione di misura a cui stiamo sottoponendo chi legge, imbarazzo che ci permetterete di attenuare dichiarando la nostra consapevolezza che esistono problemi maggiori, eccetera. E ripetendo che abbiamo un’idea della lingua indulgente e tollerante, per la quale le scelte che facciamo non sono mai “giuste” universalmente, ma corrispondono a dei criteri, valutazioni, riflessioni, che vengono fatte nella redazione del Post e che non devono corrispondere a quelle di tutti, meno che mai imporsi.

Detto tutto questo, ci sono due aspetti della “questione”, per come è stata posta. Uno è quello della supposta “volgarità” del termine “tette”. Qui la risposta è semplice, come abbiamo accennato: moltissime persone quella volgarità non la percepiscono, e tra loro ci sono la maggioranza delle persone che fanno il Post o di quelle che lo leggono, e usano serenamente il termine nelle loro conversazioni – non così frequenti, poi – che abbiano bisogno di citare le tette, o accettano senza fastidio che lo usino altri o altre. La circospezione con la parola, a differenza di altre parole che può capitare di usare parlando ma che un loro livello di volgarità maggiore lo possiedono, è così poca nella nostra lingua che la sua derivazione “tettarella” viene usata normalmente e formalmente per definire un oggetto di uso comune e destinato ai bambini e alle bambine. Per giunta, a differenza di altri termini che spesso si ritengono “volgari”, non esiste nessuna implicazione, accezione o uso della parola che sia offensivo per qualcuno e che suggerisca cautele per queste ragioni. Ciò malgrado, come è ovvio, il Post prende sempre in considerazione la varietà delle familiarità con le parole che i suoi lettori possono avere, e valuta le alternative possibili. E qui interviene il secondo aspetto.

Ed è che non esiste, a nostro giudizio, nessuna parola alternativa che contemporaneamente sia di uso comune e non suoni artificiosa, tecnica o “cringe”, per definire una cosa con cui una gran parte di noi ha una così quotidiana e concreta familiarità, diciamo. La loro goffa incongruità con un linguaggio comune, e con la descrizione per esempio di un’immagine in una pubblicità di Calvin Klein, relega queste alternative ad altri ambiti, medici, tecnici, o regionali.
La sola alternativa di uso più comune – certo, ci stiamo arrivando – e suggerita da alcune lettrici e lettori, è “seno”: usato a volte per indicare una tetta, a volte per indicarle tutte e due come sinonimo di “petto”, altre volte al plurale “seni” per indicarle ancora tutte e due. Questo uso, però, benché diffuso, nasce da una conoscenza sbagliata del significato della parola: che è quello di una cavità, un vuoto, uno spazio tra altro (la radice è la stessa di “insenatura”, o della “sinusite” che riguarda le cavità all’interno dei buchi del naso). Seno è insomma lo spazio tra le tette, e se usato correttamente il termine implicherebbe, per capirsi – cerchiamo di mantenere una leggerezza in questa ponderosa esposizione –, che parlare di “due seni” alluderebbe a un totale di tre tette. Tanto è vero che il significato realmente adeguato dell’espressione “seno” collegato a una parte anatomica femminile è quello che la associa piuttosto all’utero, come nelle espressioni “portare in seno” (sinonimo di “in grembo”) per riferirsi a un nascituro, o metaforicamente a qualcosa che si porti all’interno di qualcos’altro (non tra le tette, no).

Ora, conosciamo e consideriamo anche la legittima obiezione che viene adesso, ed è che un uso errato – per ignoranza – di un termine può diffondersi talmente da diventare prevalente e cambiare il significato di quel termine (anche in ambiti medici si usa per esempio “tumore al seno”, per simili ragioni di mancanza di alternative adeguate). È uno sviluppo linguistico che capita di frequente, e spesso in maniere indolori: all’inizio qualcuno si lamenta dell’errore, poi l’errore diventa norma. Nel caso di cui stiamo parlando, però, questo secondo uso “errato” ribalta esattamente il significato originario, creando un’ambiguità maggiore e foriera di maggiori ignoranze: smettere di pensare a “seno” come a un vuoto e anzi pensarlo come un “pieno” (perdonate) significa perdere la conoscenza della radice e del significato di questa e delle altre parole ed espressioni che abbiamo citato in cui ci si riferisce invece a un vuoto (una cosa un po’ simile avviene con gli usi distorti della parola “laico” come sinonimo di “ateo”: usi molto frequenti e spesso accettati, ma che a loro volta trasmettono un significato e un’informazione sbagliati). Un esempio che abbiamo potuto verificare facilmente è l’assai diffusa errata comprensione della riverita formula “benedetto il frutto del seno tuo”.
E siccome a proteggerci da questa contraddizione e da questa perdita di conoscenza esiste nella nostra lingua la parola “tette” (e il suo singolare “tetta”, rilevante nell’articolo in esame), in quegli articoli abbiamo deciso per questa, facendo prevalere in questa occasione tutti questi argomenti su quelli contrari, di cui abbiamo totale consapevolezza e rispetto, e che non escludiamo di soppesare diversamente in casi diversi. Nessuna regola è assoluta ed eterna e, come si vede, siamo i primi appassionati a questo genere di riflessioni e alle loro implicazioni maggiori: grazie a tutti.