Restaurare un film è un lavoraccio ma è sempre più richiesto

Lo si vede spesso con film di successo – l'ultimo è "The Dreamers" – perché servono a finanziare il più difficile recupero di vecchi film meno commerciali e più compromessi

("The Dreamers", 2003)
("The Dreamers", 2003)

Periodicamente nei cinema vengono programmati vecchi film di cui si dice che sono stati “restaurati”. Generalmente vuol dire che sono stati rimessi a punto colori, immagine e sonoro per aggiornarli alle ultime tecnologie di proiezione e poi riportarli in sala o farli circolare nei festival. È capitato di recente con The Dreamers di Bernardo Bertolucci, del 2003, e in passato con altri film di successo, che però sono spesso titoli “bandiera”, cioè il cui restauro non è necessariamente improrogabile o critico, ma sui quali si può concentrare grande attenzione, portando sia investimenti, in virtù dei piccoli nuovi profitti che possono generare, che donazioni da parte di filantropi.

Questi proventi servono (insieme ad altre fonti) a sostenere i laboratori e quindi a finanziare i restauri di altri film, meno commerciabili e remunerativi ma magari in maggiore pericolo. Un film restaurato infatti non è solo un film che “si vede meglio”: nella maggior parte dei casi il restauro serve a risistemarlo, montarlo e riportarlo a quella che era la sua versione originale, come uscì in sala. È quello che viene fatto con moltissimi film di cui si sono perse le versioni originali o se ne hanno solo di censurate o con scene mancanti perché distrutte. Di alcuni dei più vecchi è anche complicato risalire a come fosse quella prima versione. Quella del restauro di film è diventata negli ultimi 30 anni una realtà che impiega moltissime società, sviluppa tecnologie e anima interi festival di grande successo dedicati solo al cinema del passato.

Nonostante il cinema sia un’arte giovane (è stata inventata alla fine dell’Ottocento) e i primi lungometraggi risalgano ai primi anni del Novecento, una percentuale che secondo la Biblioteca del Congresso americano sta tra il 75 per cento e il 90 per cento dei film muti è da considerarsi persa per sempre. Per incuria, perché non ne sono state conservate copie, perché il cinema a lungo non è stato considerato una forma d’arte, e infine perché migliaia sono bruciate nei frequenti incendi degli studi di produzione (come sa chi ha visto Bastardi senza gloria la pellicola dei primi decenni della storia del cinema era molto infiammabile).

Nella seconda metà del Novecento tutto questo ha reso indispensabile iniziare un lavoro prima di conservazione delle pellicole (le parti chimiche sulla celluloide deperiscono lungo i decenni rendendo le immagini meno chiare) e poi di restauro, che negli anni ‘50 consisteva semplicemente nell’aggiustare le pizze (come vengono chiamati i film in pellicola tutti arrotolati fino ad assumere la forma tonda utile al trasporto) per renderle di nuovo proiettabili.

Oggi i restauri sono operazioni a metà tra chimica, tecnologia e storiografia del cinema. Sono stati i restauri per esempio ad aver abbattuto la convinzione comune che il cinema muto fosse sempre in bianco e nero, mostrando come diversi film, come il famoso Nosferatu di Murnau del 1922 avessero i colori. Oggi è sempre più facile poter vedere i film di quegli anni con i corretti viraggi colorati (ne esistevano di molti tipi diversi), cioè non in bianco e nero ma in giallo e nero, rosso e nero, verde e nero, celeste e nero. Senza contare che, specialmente per il cinema muto, può essere complicato risalire al montaggio originale, perché essendo la colonna sonora suonata direttamente nelle sale, al pianoforte, le pizze venivano facilmente modificate e quelle poche che sono arrivate intatte agli anni ’70 capitava avessero scene mancanti o sequenze dall’ordine scambiato. Per decenni l’unica versione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer del 1928 era quella censurata: solo nel 1981 fu trovata una copia abbandonata in un manicomio di Oslo (e ancora in buono stato) con tutte le sue parti. Il ritrovamento di nuove informazioni o pizze con scene mancanti è talmente frequente che alcuni film molto noti sono già stati restaurati tre o quattro volte, sempre con qualcosa in più.

 

Inizialmente la conservazione e il restauro erano pratiche avventurose. Uno tra i primi e di certo più famosi a fare questo lavoro fu Henri Langlois della Cinémathèque Française: lungo gli anni ’60 recuperava e comprava negativi in nitrato da cui ristampare e proiettare film di difficile reperimento. Notoriamente però non aveva la cura e l’ordine che servivano per conservarle con efficacia e si dice che le pizze che passavano per le sue mani fossero tenute in disordine in casa sua, alcune addirittura nel suo letto. Il restauro come lo conosciamo oggi, cioè un’operazione materiale guidata da un approccio critico e filologico, nasce invece negli anni ’70 e ’80 con alcuni restauri oggi considerati leggendari che hanno portato avanti la disciplina e impostato il lavoro per il futuro, come quello di Napoléon di Abel Gance e Metropolis di Fritz Lang, entrambi del 1927.

Oggi a restaurare i film sono principalmente le cineteche, alcune con laboratori al loro interno, altre collaborando con laboratori esterni specializzati. I più grandi laboratori d’Europa e tra i più grandi del mondo sono quelli della Cinémathèque royale de Belgique e quello dell’Immagine ritrovata della Cineteca di Bologna (che ha restaurato The Dreamers). La loro importanza è dovuta alle tecniche e ai metodi che hanno sviluppato e quindi alla varietà e alla completezza del tipo di restauri che possono effettuare.

La crescita degli ultimi decenni del settore del restauro è dovuta all’arrivo di nuovi distributori interessati ai diritti di diffusione di quei film. È accaduto principalmente quando i canali televisivi sono aumentati o diventati a pagamento, e quindi avevano più spazio per film d’epoca, e quando è nato il mercato dei DVD, che per diffondersi ha creato una maggiore attenzione alla qualità dell’immagine. Il successo che la società francese MK2 ebbe all’inizio degli anni Duemila, quando creò una serie di cofanetti di tutti i film di Charlie Chaplin completamente restaurati, dopo decenni in cui era possibile vederli solo in brutte copie su VHS, fu un caso che fece scuola.

Un’operazione di restauro parte con la ricerca delle copie esistenti di un dato film in tutti gli archivi del mondo per trovare quella in condizioni migliori, e con la documentazione sulla storia del film in questione, così da sapere quale sia il risultato finale a cui ambire. Alle volte nei documenti che motivano la censura in un paese sono riportati i tagli effettuati e quindi indicazioni su scene che non si trovano più o sul loro ordine. Altre volte il recupero di una partitura originale della colonna sonora contiene indicazioni di dialoghi e ambientazioni che possono far scoprire l’assenza di alcune sequenze. Per decenni Metropolis di Fritz Lang è stato visto nell’ordine sbagliato, con alcune sequenze scambiate e senza diverse scene cruciali: solo negli anni Duemila il recupero dello spartito originale ha consentito di ricostruire l’ordine giusto della trama. Una copia restaurata spesso si accompagna al restauro anche di scene scartate (se ce ne sono), di tracce audio prima inudibili e di dettagli altrimenti invisibili.

Individuata la copia o le copie migliori su cui lavorare si procede prima a un restauro manuale, cioè ad aggiustare la celluloide, montare i giunti correttamente e fare processi chimici che ne migliorino la qualità. Questo perché su quella copia si baserà poi il lavoro più raffinato. Successivamente infatti la copia viene passata in uno scanner per pellicole, che funziona come gli scanner commerciali ma è capace di acquisire i fotogrammi uno alla volta, creando così una versione digitale in altissima qualità (8K o di più) sulla quale lavorare al computer.

Il restauro digitale esiste dagli anni Duemila e consente attraverso software diversi di rimediare a graffi, tagli o fotogrammi mancanti, ricostruendo le parti che non ci sono. Sulla base di quello che ha, il computer “immagina” le parti che con maggiore probabilità possono completare il quadro e riempie le parti graffiate. Similmente, se manca un fotogramma, prende quello precedente e quello successivo creando la parte di movimento che non c’è, ed elimina i tremolii aggiustando il quadro. Oltre a questo esiste poi una parte di restauro digitale fatto a mano, fotogramma per fotogramma, con un ritocco minuzioso, ad esempio tarando la giusta colorazione, la giusta brillantezza dei colori e riportando l’immagine ai toni che aveva inizialmente. Parallelamente al lavoro sull’immagine poi se ne fa uno sul sonoro che è quasi esclusivamente digitale.

Un restauro completo richiede diversi mesi di lavoro e team di più persone, se sono in vita vengono coinvolte le maestranze originali. Vittorio Storaro, direttore della fotografia di Ultimo tango a Parigi, ha aiutato nel restauro del film di pochi anni fa, indicando con precisione quali fossero originariamente i toni dei colori.

Alla fine di tutto viene stampato un nuovo negativo in pellicola. Una copia analogica infatti è un supporto di conservazione più affidabile di una digitale, poiché quest’ultime vengono archiviate in formati che potrebbero non essere leggibili da tecnologie future o soggette più facilmente a corruzione dei dischi rigidi e comunque necessiterebbero di un continuo lavoro di spostamento in archivi di capienza sempre maggiore. In alcuni casi un film a colori può essere conservato separando i colori, cioè in tre copie in bianco e nero negativo, ognuna contenente le informazioni di uno dei tre canali dei colori RGB (Red Green Blue), perché il bianco e nero negativo si conserva meglio di uno a colori. Per ricomporre una copia colorata bisognerà poi mettere insieme quei tre negativi in bianco e nero e stampare quella colorata.

Lo sviluppo del restauro ha portato a un conseguente sviluppo della proiezione dei film restaurati, cosa considerata un evento negli anni ’80 e diventata invece abituale negli ultimi dieci anni. I film tornano in sala, nel periodo successivo alla pandemia, con un successo molto superiore rispetto a prima. Già dagli anni ’90 sono nati festival appositi come Il cinema ritrovato che si tiene ogni anno a Bologna dal 1986 ed è patrocinato dalla Cineteca di Bologna (che proprio a partire dal festival iniziò il suo lavoro di restauro), attirando esperti e artisti da tutto il mondo, o le Giornate del cinema muto di Pordenone, considerato l’evento di questo tipo più rilevante al mondo, e riservato solo ai film muti riscoperti, restaurati o semplicemente molto poco visti.