Cosa succede ora con l’ex ILVA

Dopo il mancato accordo è probabile che vada in amministrazione straordinaria e che ci sia un contenzioso legale tra Stato e ArcelorMittal

Foto di un operaio durante la manifestazione dei dipendenti dell'ex ILVA a Roma, nel 2019
Un operaio dell'ex ILVA durante una manifestazione del 2019, a Roma (Vincenzo Livieri - LaPresse)
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Non c’è alcun accordo tra i soci per aumentare il capitale e ripianare i debiti di Acciaierie d’Italia, la società nota come ex ILVA che gestisce tra gli altri il grande stabilimento di produzione dell’acciaio a Taranto, al centro di numerose cronache da anni per il suo impatto ambientale, e altri in Liguria, Piemonte e Veneto. La multinazionale franco indiana ArcelorMittal ne possiede il 68 per cento e non vuole più investirci; la parte restante è dello Stato, che era disposto a metterci gran parte dei soldi a patto di prenderne il controllo e diventare socio di maggioranza. Quest’ultima ipotesi di accordo però è saltata. L’ex ILVA è in crisi da anni, ma di recente ha iniziato ad avere un grosso problema di liquidità e la maggior parte dei suoi impianti si è gradualmente dovuta fermare. Per ripristinare la produzione e mantenere i posti di lavoro serve oltre un miliardo di euro.

Dopo alcuni incontri a dicembre che aprivano a qualche possibilità, le divergenze che sono emerse nella riunione di lunedì tra i rappresentanti di ArcelorMittal e del governo hanno mostrato al contrario l’impossibilità per l’azienda di proseguire l’attività con gli attuali soci. L’ipotesi più probabile, scrive il Sole 24 Ore di martedì, è che che si apra un contenzioso legale tra lo Stato italiano e ArcelorMittal per il non rispetto degli impegni contrattuali. E che l’ex ILVA sia messa per il momento sotto amministrazione straordinaria, ossia una procedura che le permetterebbe di restare operativa concordando con il tribunale un piano di risanamento che tuteli i creditori.

Giovedì il governo incontrerà i sindacati, che chiedono una nazionalizzazione della società per toglierla dal controllo di un gruppo straniero che non ha più intenzione di investirci e rilanciarla sul piano industriale. Anche questo è un esito ormai molto probabile, nonostante la linea generale del governo sia più propensa verso le privatizzazioni. Peraltro la soluzione sarebbe comunque temporanea, perché il governo ha sempre detto che per l’ex ILVA serve un socio privato in grado di portare conoscenze tecniche in un settore strategico come è la siderurgia. Da tempo sta cercando investitori, ma senza riuscirci.

Il problema per il futuro dell’ex ILVA è se alla nazionalizzazione si arriverà dopo una causa legale da centinaia di milioni di euro o dopo un accordo che consenta alle parti di ottenere quello che vogliono: lo Stato vorrebbe entrare in possesso dell’azienda per tutelarne il valore produttivo e i numerosi posti di lavoro; ArcelorMittal vorrebbe ritornare in possesso del suo investimento finanziario.

Nella riunione di lunedì il governo aveva proposto una soluzione in due fasi, che però ArcelorMittal ha rifiutato. Con la prima lo Stato sarebbe passato dall’38 al 60 per cento e lo avrebbe fatto grazie alla conversione di un grosso prestito che aveva elargito all’ex ILVA alla fine del 2022 per aiutarla con la liquidità (il decimo nella storia della società fatto con i soldi pubblici): era di 680 milioni ed era un prestito definito convertibile, che può essere convertito in capitale sociale da parte dello Stato. In pratica i soldi dati in prestito dallo Stato sarebbero poi diventati quote della società. Con questa operazione, però, non ci sarebbe stata liquidità per l’azienda.

La liquidità sarebbe poi arrivata con una seconda fase, ossia con un ulteriore aumento di capitale da 320 milioni di euro, di cui la parte più grande l’avrebbe messa lo Stato in quanto nuovo socio di maggioranza, la parte restante ArcelorMittal. Con queste somme lo Stato sarebbe infine arrivato ad avere il 66 per cento delle azioni. Le condizioni erano che ArcelorMittal avrebbe dovuto cedere il controllo manageriale dell’azienda e garantire la volontà di contribuire in futuro a nuovi investimenti in proporzione alla sua nuova quota di minoranza.

Ma ArcelorMittal ha rifiutato di mettere la sua parte in questo prestito, e si è detta non disponibile a mettere altri soldi in futuro. È su questo che potrebbe nascere il contenzioso sui mancati impegni contrattuali, e il governo ieri ha comunicato di aver affidato l’incarico alla società che si occupa degli investimenti dello Stato, ossia Invitalia, «di assumere le decisioni conseguenti, attraverso il proprio team legale». Il Sole 24 Ore dice che anche ArcelorMittal ha qualcosa da recriminare all’altro socio: in passato lo Stato si era impegnato a versare 2 miliardi di euro di sostegno, ma lo ha fatto solo per 350 milioni.

Per chiedere l’amministrazione straordinaria che consentirebbe di tenere operativa l’azienda servirebbe un accordo tra i soci, ma il governo ha la possibilità di forzare usando una norma del cosiddetto decreto ILVA del 2023, che consente di attivare la procedura anche su richiesta del solo socio pubblico.

Attualmente la gestione di Acciaierie d’Italia è in mano a rappresentanti di ArcelorMittal, in quanto azionista di maggioranza. L’azienda aveva comprato l’ex ILVA all’asta nel 2018, prendendosi il difficile compito di risanare una società già molto compromessa da anni di indagini per danni ambientali. Il risanamento però non è mai avvenuto e alla fine del 2020 lo Stato aveva quindi deciso di intraprendere un percorso per diventarne il proprietario: benché sia in crisi da anni l’acciaieria di Taranto di proprietà dell’ex ILVA è la più grande d’Europa e considerata ancora strategica proprio per questo motivo. La sua chiusura avrebbe inoltre costi sociali ed economici altissimi, visto che impiega 10.500 dipendenti, senza contare l’indotto, ossia tutte le aziende a cui vengono affidati lavori non direttamente collegati alla produzione di acciaio, come la manutenzione degli impianti.

Nel dicembre del 2020 era stato approvato un accordo per rilanciare l’azienda, con cui lo Stato sarebbe arrivato a detenere il 60 per cento del capitale entro il maggio del 2022, poi il passaggio è stato rinviato di due anni. La nazionalizzazione dell’ex ILVA era dunque già nei piani.