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  • Giovedì 29 dicembre 2022

Il nuovo prestito dello stato all’ex Ilva

È il decimo nella storia dell'azienda ed è pari a 680 milioni di euro: c'è anche un nuovo accordo con la proprietà, ma i sindacati non sono soddisfatti

Una manifestazione degli ex dipendenti Ilva nel 2021 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
Una manifestazione degli ex dipendenti Ilva nel 2021 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
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Mercoledì il governo ha approvato un decreto-legge per erogare un prestito di 680 milioni di euro ad Acciaierie d’Italia, l’impianto siderurgico di Taranto meglio conosciuto come ex Ilva. L’azienda è in crisi da molti anni ma è considerata troppo grande e strategica per essere lasciata fallire. A questo si è aggiunta ora una grave crisi di liquidità, dovuta soprattutto all’aumento dei prezzi del gas, che l’ha colpita particolarmente perché, in quanto acciaieria, usa energia ad alta intensità. Il prestito servirà a ripianare i debiti della società verso le società energetiche Eni e Snam.

Quello deciso dal governo mercoledì è il decimo prestito fatto con soldi pubblici all’ex Ilva e si inserisce in un percorso che ha portato lo stato a diventare un importante azionista dell’azienda, con l’obiettivo di prenderne il controllo nel 2024. Solo allora potrà avere più voce in capitolo nella gestione dell’azienda, che finora è stata considerata inadeguata per non essere mai riuscita a risolvere davvero le serie questioni strategiche e finanziarie.

Proprio con l’intento di accelerare questa transizione, il governo ha trovato un nuovo accordo con l’azienda che potrebbe portare lo stato a diventare l’azionista principale già nel giro di qualche mese.

L’impianto di Taranto è considerato di importanza strategica per l’economia nazionale. Nel 2012 la procura di Taranto aveva ordinato il sequestro degli impianti dell’area a caldo, cioè gli altiforni, perché considerati altamente inquinanti per tutta l’area. L’acciaieria era stata posta sotto commissariamento straordinario e questi impianti avevano di fatto continuato a funzionare, anche se a capacità ridotta. Il loro funzionamento era stato però subordinato negli anni a un programma di interventi di risanamento ambientale per ridurre gli effetti inquinanti e l’impatto sul territorio.

Quella che era allora l’Ilva di Taranto non poteva essere chiusa e basta: i cittadini e la politica si erano trovati di fronte al dilemma di dover difendere l’ambiente e la salute o il diritto al lavoro. Per capire l’importanza dell’azienda basta guardare i suoi numeri: tra indotto e dipendenti diretti (e considerando anche gli impianti di Genova e Novi Ligure, oltre a quello di Taranto) impiega almeno 17 mila persone. Nel 2021 ha prodotto 4,1 milioni di tonnellate di acciaio per 700 clienti nel mondo, generando in Italia un valore di ordini per 1,2 miliardi di euro.

La società e gli impianti erano rimasti sotto commissariamento fino a che nel 2018 erano stati acquisiti tramite bando pubblico da ArcelorMittal, una multinazionale dell’acciaio e tra i leader del settore, che aveva il compito difficile di risanare un’azienda molto compromessa da anni di indagini.

Il risanamento però non è mai avvenuto e lo stato aveva quindi deciso di intraprendere un percorso per diventare il proprietario dell’azienda.

Nel dicembre del 2020 era stato approvato un accordo per consentire allo stato di acquisire il 60 per cento del capitale entro il maggio del 2022 nell’ambito di un’operazione di rilancio dell’azienda (attualmente ne detiene il 32 per cento tramite Invitalia, la società che si occupa degli investimenti dello stato). Ma gli impianti sono rimasti sotto sequestro e il passaggio in maggioranza era stato rinviato di due anni, al maggio del 2024.

La crisi strutturale si è aggravata negli ultimi mesi a causa dell’aumento del prezzo dell’energia e del calo del prezzo dei coils, le bobine di acciaio che sono di fatto il suo prodotto finale. Sono quindi aumentati i costi e diminuiti i ricavi, il che ha portato così a una notevole crisi di liquidità. Nel 2022 la produzione si è ridotta di molto per cercare di consumare meno energia: dai 4 milioni di tonnellate di acciaio del 2021, quest’anno la produzione si è fermata a 3.

Il prestito da 680 milioni che il governo ha appena approvato è stato concesso per far fronte a una crisi di liquidità, ma ha anche un altro obiettivo: è un prestito definito “convertibile”, significa cioè che potrà essere convertito in capitale sociale da parte dello stato, che potrà così aumentare la sua partecipazione nell’azienda ancor prima del 2024. In sostanza, il governo vorrebbe riequilibrare il rapporto tra i soci privati e pubblici, ArcelorMittal e Invitalia, per esempio con un rinnovamento dei vertici societari: l’idea è di aumentare la presenza dello stato nell’ex Ilva, pur mantenendo una partnership con i soci privati.

Nel comunicato stampa del governo si legge che il ministero delle Imprese e del Made in Italy (che è il nuovo nome dell’ex ministero dello Sviluppo economico, che proprio è quello incaricato di occuparsi delle crisi aziendali) ha trovato un nuovo accordo con ArcelorMittal proprio per stabilire nuovi equilibri. Per esempio, Invitalia potrà scegliere di nominare l’amministratore delegato ancor prima di diventare socio di maggioranza, se non venissero rispettate determinate condizioni di buona gestione. Nell’accordo sono poi ribaditi nuovamente gli impegni strategici dei soci: il rilancio del sito produttivo, che dovrà rispettare determinati obiettivi di produzione e di impiego di personale; la riconversione dell’impianto per renderlo più sostenibile; nuovi investimenti.

Il decreto contiene anche per tutti gli stabilimenti di interesse nazionale (quindi Acciaierie d’Italia, ma non solo) il cosiddetto “scudo penale”, ossia un insieme di norme che assicurano la continuità produttiva delle imprese anche in caso di problemi penali della gestione: è una misura per assicurare la continuità produttiva a ogni costo con lo scopo di tutelare l’interesse nazionale, per esempio anche in caso di sequestri disposti da un giudice.

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha organizzato per il 19 gennaio un tavolo di confronto sul futuro dell’azienda con la partecipazione delle forze sociali, sindacati e associazioni produttive, rappresentanti degli enti locali, azionisti pubblici e privati, in cui l’azienda dovrà illustrare i piani di sviluppo.

I sindacati non si sono mostrati soddisfatti del prestito e dell’accordo: sono contrari a un ennesimo prestito pubblico senza un immediato cambio ai vertici dell’azienda, la cui gestione è considerata inadeguata e fallimentare. Hanno quindi annunciato uno sciopero per l’11 gennaio.