Cosa prevede la riforma del MES

L'Italia ne sta bloccando l'entrata in vigore soprattutto per motivi politici: in realtà è una questione molto tecnica

(Ralph Orlowski/Getty Images)
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Giovedì la Camera ha votato contro la ratifica della riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), uno strumento che ha lo scopo di aiutare i paesi dell’Eurozona che si trovano in difficoltà economica. Da tempo la riforma è stata approvata e ratificata da tutti gli altri stati che hanno adottato l’euro. Manca solo l’Italia, che finora si è sempre opposta per motivi soprattutto politici.

In realtà la riforma che il parlamento italiano si rifiuta di approvare è una questione molto tecnica. Il MES è una componente importante dell’unione monetaria, per questo continuerà comunque a esistere anche se la riforma non dovesse mai entrare in vigore: serve a mettere in comune il denaro di tutti i paesi e utilizzarlo in caso di necessità, soprattutto per evitare che i problemi economici di un certo stato possano ripercuotersi su tutti gli altri.

Tutti i 20 paesi dell’Eurozona contribuiscono a finanziare il MES e in caso di necessità possono chiedere il suo aiuto, che però è soggetto ad alcune condizioni. Per ricevere i fondi bisogna accettare un piano di riforme la cui applicazione sarà sorvegliata dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale, tre istituzioni a cui spesso ci si riferisce congiuntamente con l’espressione “Troika”. Finora Grecia, Cipro, Portogallo e Irlanda hanno adottato programmi di aiuto del MES durante la crisi dei debiti sovrani del 2011-2012.

I piani a cui sono subordinati gli aiuti del MES possono contenere misure impopolari pensate per risanare i conti pubblici dei paesi coinvolti, come tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni o liberalizzazioni. Anche per questo alcune forze politiche ritengono che il MES sia uno strumento eccessivamente burocratico e opprimente, che limita la libertà dei singoli stati a favore delle grandi istituzioni finanziarie.

La riforma del MES che da tempo il parlamento italiano dovrebbe ratificare prevede due cambiamenti principali. Il primo è la creazione di un Fondo di risoluzione unico, pensato per aiutare le banche europee in difficoltà e finanziato dalle banche stesse. Il fondo dovrebbe avere disponibilità pari all’1 per cento di tutti i depositi presenti nelle banche europee che partecipano allo strumento, un importo che secondo le stime ufficiali ammonta a circa 77 miliardi di euro. Questi fondi emergenziali potrebbero essere usati, per esempio, per garantire i conti correnti degli istituti in crisi ed evitare ricadute sui risparmi dei clienti.

In questo modo il MES avrebbe a disposizione un nuovo, valido strumento per gestire eventuali crisi bancarie, un’eventualità che era diventata particolarmente realistica la scorsa primavera. Tra febbraio e aprile diverse banche statunitensi entrarono in crisi e fallirono, come nel caso della Silicon Valley Bank, oppure vennero chiuse dal governo americano, come Signature Bank, e per settimane si temette che la crisi potesse propagarsi anche in Europa (cosa poi non accaduta).

– Leggi anche: La crisi delle banche statunitensi

Il secondo cambiamento introduce invece l’obbligo per i paesi che decidono di chiedere aiuto al MES di emettere specifici titoli di stato con una clausola, definita “single limb CAC” (un acronimo che sta per “Clausole di Azione Collettiva”) che permetterebbero di ristrutturare il debito (ossia stabilire una riduzione concordata del valore del prestito fatto al paese in questione) tramite un solo voto dei creditori, invece che con le procedure più complesse richieste dalle altre tipologie di titoli di stato. Questo vuol dire che un paese in difficoltà potrebbe dover restituire meno di quello che deve ai suoi creditori.

È un tema controverso: nei casi di paesi in gravissima crisi sarebbe un bene, perché potrebbero evitare il collasso e riprendersi con più facilità. Esiste però il timore che i futuri investitori, sapendo di questa possibilità, finiscano per chiedere interessi più alti ai paesi che percepiscono più a rischio, come l’Italia.