C’è stato un solo Frank Zappa

30 anni fa morì uno dei musicisti più originali e fantasiosi della storia del rock, oggi forse più citato che ascoltato

(Ron Case/Getty Images)
(Ron Case/Getty Images)

Il 4 marzo del 1963 il conduttore statunitense Steve Allen invitò in una puntata del suo Tonight Show un musicista sconosciuto al grande pubblico: si chiamava Frank Zappa, aveva 22 anni, viveva a Los Angeles e si presentò come «il compositore della colonna sonora del film peggiore del mondo». Si riferiva a un film di cui aveva realizzato le musiche l’anno prima, e che era stato accolto molto tiepidamente dalla critica del tempo: The World’s Greatest Sinner, diretto da Timothy Carey e incentrato su un agente assicurativo che fonda un suo partito politico, chiamato “The Eternal Man’s Party”, per candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti.

Disse anche di essere un polistrumentista in grado di suonare «vibrafono, chitarra, basso e batteria». Allen però lo aveva invitato per un altro motivo: aveva sentito parlare di un suo talento bizzarro, ossia ricavare dei suoni dalle biciclette, percuotendo i raggi delle ruote e il telaio con un archetto e un paio di bacchette. Quella sera diede vita a una performance volutamente grottesca: la chiamò “Concerto for two bicycles” (“Concerto per due biciclette”), e per renderla più esilarante decise di farsi accompagnare da un’intera orchestra. «Mi congratulo con te per la tua lungimiranza, e anche per la tua musica: ma non farlo mai più», gli disse scherzosamente Allen alla fine dell’esibizione.

Quel giovane musicista sarebbe diventato nei vent’anni successivi uno dei più originali e ammirati chitarristi e compositori rock della storia, influenzando moltissimi altri ed eppure rimanendo piuttosto isolato nella sua proposta musicale, un ibrido non classificabile tra generi apparentemente distanti come jazz, musica classica, doo-woop, vaudeville e musica colta. In tempi in cui la commistione tra generi diversi era ancora una pratica piuttosto pionieristica.

In quel programma televisivo la sua immagine era ben lontana da quella con cui sarebbe diventato famoso in tutto il mondo: non era vestito in modo stravagante ed eccentrico, i capelli erano ancora troppo corti e i baffoni che avrebbe portato per il resto della sua vita non erano neppure accennati. Eppure, quella esibizione anticipò l’eclettismo e il carattere istrionico e anticonformista che avrebbe caratterizzato la sua intera carriera.

Zappa morì il 4 dicembre del 1993, trent’anni fa, lasciandosi dietro una produzione musicale così sterminata da essere in buona parte ancora inedita. Nel corso della sua carriera ha pubblicato più di cento dischi, trenta singoli e una serie di registrazioni dal vivo raggruppate nella raccolta Beat the Boots. Ma una porzione considerevole del materiale realizzato da Zappa è sconosciuta ancora oggi. È contenuta in migliaia di nastri conservati in un magazzino di Los Angeles che fan e stampa di settore hanno ribattezzato negli anni “The Vault” (“La cassaforte”), i cui diritti sono stati acquistati lo scorso anno dal gruppo Universal dopo una lunga trattativa con la società che li deteneva precedentemente, la Zappa Family Trust, fondata dai figli di Zappa e da sua moglie Gail Sloatman nel 2002.

Nato a Baltimora (Maryland) il 21 dicembre del 1940 da Francis Zappa, un perito industriale originario di Partinico (Palermo), e da Rose Marie Colimore, una casalinga di origini italiane e francesi, iniziò ad appassionarsi alla musica nel 1955, suonando un tamburo che aveva ricevuto in regalo per il suo 14esimo compleanno. Più o meno nello stesso periodo, dopo aver letto un articolo dedicato al compositore francese Edgard Varèse sulla rivista Look, iniziò ad avvicinarsi alla musica classica e allo studio delle percussioni orchestrali.

Frequentò le scuole superiori a Lancaster, in California, dove nel frattempo suo padre aveva trovato lavoro. Qui i suoi interessi musicali iniziarono a estendersi a generi più popolari, come il blues e il rock and roll, che stava nascendo in quel periodo: a 17 anni iniziò a suonare la chitarra da autodidatta, inizialmente per imitare lo stile di alcuni chitarristi afroamericani che ammirava come Johnny “Guitar” Watson, Howlin’ Wolf e Clarence “Gatemouth” Brown.

Negli anni affinò uno stile unico, emancipandosi dalle convenzioni formali e stilistiche dei chitarristi del periodo. A differenza della stragrande maggioranza dei suoi contemporanei, che spesso riproponevano gli stessi fraseggi e gli stessi assoli durante i concerti, Zappa sviluppò un approccio allo strumento abbastanza insolito per il periodo, più libero nella progressione degli accordi e nell’utilizzo delle scale nelle improvvisazioni, mutuato da alcuni dei numerosi generi che aveva iniziato ad apprezzare e che successivamente avrebbe ibridato nella sua particolare concezione di rock, come ad esempio il jazz modale.

Nella maggior parte dei casi, gli assoli che suonava dal vivo erano improvvisati e istintivi, profondamente diversi da quelli registrati in studio: di conseguenza, il pubblico che assisteva ai suoi concerti si trovava ad ascoltare parti di chitarra poco familiari, differenti da quelle che aveva ascoltato in vinile e dalla durata molto più estesa. I produttori non vedevano di buon occhio l’imprevedibilità e la passione per l’improvvisazione di Zappa, e spesso gli raccomandavano senza successo di suonare parti più simili a quelle delle registrazioni originali: temevano che il pubblico potesse smettere di andare ai suoi concerti, perché infastidito da un repertorio che differiva in modo così profondo rispetto all’originale.

In realtà, negli anni la varietà degli assoli che Zappa era in grado di creare sul momento diventò una delle caratteristiche più apprezzate delle sue esibizioni. Amava concepirli come degli atti creativi unici e irripetibili, che dovevano iniziare ed esaurirsi nel loro esatto tempo di esecuzione: per questo motivo li definiva “air sculptures” (“sculture d’aria”).

Zappa manifestò la sua avversione per le parti di chitarra soliste registrate in studio in diverse occasioni: «Trovo molto difficile suonare in studio: non credo di aver mai suonato un assolo decente di qualsiasi tipo in studio di registrazione», disse ad esempio in un’intervista data al periodico Guitar Player nel 1982. Per far fronte a questa sua insofferenza, prese l’abitudine di registrare gli assoli che eseguiva dal vivo per poi inserirli in brani registrati in studio in un secondo momento. Definì questa tecnica “xenocronia” e la utilizzò in diversi lavori, come ad esempio Joe’s Garage, il suo decimo album da solista, uno di quelli rimasti più celebri. Non era un’intuizione particolarmente cervellotica, ma rappresentava una specie di affronto per gli schematismi con cui si era abituati a pensare e suonare il rock in quegli anni.

Zappa iniziò a farsi conoscere come musicista innovativo nel 1964, un anno dopo l’ospitata televisiva da Allen, quando l’armonicista e cantante Ray Collins lo scelse per sostituire Ray Hunt come chitarrista dei Soul Giants, una band che suonava un R&B molto tradizionale. Dopo il suo arrivo i Soul Giants cambiarono completamente stile: iniziarono a suonare parte del repertorio che Zappa aveva composto negli anni precedenti, e nel 1964 cambiarono nome in Mothers of Invention, la band che avrebbe accompagnato Zappa nei suoi lavori più famosi.

In pochi mesi diventarono una presenza fissa nei pub e nei locali di Los Angeles, suonando una musica molto originale per il periodo, più sofisticata e meno orecchiabile e ballabile rispetto a quella che andava per la maggiore in quegli anni. Nel dicembre dell’anno successivo il produttore musicale Tom Wilson, che negli anni precedenti aveva scoperto talenti come Bob Dylan e Simon & Garfunkel, assistette a un loro concerto e decise di presentarli alla Verve Records, un’etichetta discografica di Santa Monica specializzata in musica jazz.

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L’anno successivo fu pubblicato Freak Out!, l’album di esordio dei Mothers of Invention. I testi e le musiche furono realizzati interamente da Zappa, che nella scrittura scelse di seguire una strada diversa dal solito. Decise che ogni brano dovesse essere funzionale al racconto di una storia, quasi come se si trattasse del capitolo di un romanzo: dipinse gli statunitensi come una popolazione sottoposta a una dittatura autoritaria invisibile, anestetizzata e in balia della televisione, il medium dominante del periodo.

Per questa caratteristica, oggi Freak Out! è spesso citato come uno dei primi concept album (dischi le cui canzoni ruotano tutte attorno a un tema preciso) della storia della musica. È stato citato come un riferimento importante da un gran numero di artisti, tra cui i Beatles, che hanno dichiarato di essersi ispirati a Freak Out! per la realizzazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il loro ottavo album, uscito l’anno successivo. 

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Nel 1969 Zappa pubblicò il suo disco da solista più famoso, Hot Rats, che tra le altre è ricordato per la particolare performance vocale del chitarrista e cantautore Captain Beefheart nel brano “Willie the pimp”. Dopo Hot Rats Zappa continuò a produrre musica in maniera continuativa: fino al 1993, l’anno della sua morte, produsse più di 60 dischi, tra album solisti e pubblicati con i Mothers of Invention. A partire dagli inizi degli anni Settanta iniziò a collaborare con importanti direttori d’orchestra come l’indiano Zubin Mehta, dedicando una parte della sua produzione alla musica colta.

I testi di Zappa erano sguaiati e irriverenti, a volte demenziali, spesso volgari e osceni, e se la prendevano a turno con tutti, dagli hippie ai conservatori, dai mass media agli Stati Uniti d’America. Gli crearono anche dei problemi, e infatti negli anni Ottanta litigò con il Parents Music Resource Center (PMRC), l’associazione genitoriale fondata dall’attivista e scrittrice statunitense Tipper Gore che proponeva di sottoporre a stringenti controlli il contenuto di canzoni che, secondo i dettami dell’associazione, avrebbero potuto offendere il buon costume.

Non solo la musica, ma anche il comportamento di Zappa era molto diverso da quello dei musicisti del periodo, in particolare in relazione all’uso di droghe. Se la maggior parte dei gruppi rock degli anni Sessanta considerava il consumo di marijuana e psichedelici un aiuto alla creatività, per Zappa rappresentava una distrazione. Pur essendo un fumatore di sigarette accanito, era contrario alla liberalizzazione di cannabis, LSD e altri stupefacenti, che considerava degli strumenti con cui il governo avrebbe potuto tenere sotto controllo le menti dei giovani.

Nell’aprile del 1991, in aperto contrasto con le politiche dei Repubblicani Ronald Reagan e George H.W. Bush, annunciò la sua candidatura alla presidenza. Si ritirò 8 mesi più tardi, dopo aver scoperto di avere un tumore alla prostata, che ne avrebbe provocato la morte a 53 anni nel 1993.

Oggi Frank Zappa è un musicista molto citato, incensato da critica e intenditori, venerato dalla sua nicchia di fan, ma non è ascoltato quanto ci si potrebbe aspettare vista l’importanza e l’autorevolezza che ha avuto. La vastità della sua produzione, la complessità di molte sue composizioni, e il fatto che i suoi dischi fossero molto diversi tra loro e poco funzionali alle esigenze del mercato contribuirono ad appiccicargli una fama di artista poco accessibile e non adatto al pubblico generalista.

Nonostante abbia influenzato molti altri chitarristi e musicisti rock, e sia spesso inserito nelle liste dei musicisti più importanti del Novecento, non si può dire nemmeno che abbia fatto propriamente “scuola”. Non sono molti quelli che si sono ispirati direttamente a lui, e chi lo ha fatto raramente ha saputo destreggiarsi con eguale abilità tra generi diversi, o è riuscito a mantenere credibilità e a non annoiare provando a imitarne lo stile provocatorio e cervellotico. Lui stesso comunque era poco interessato a questo genere di eredità: «Non me ne frega un cazzo se si ricorderanno di me», disse in un’intervista data a Nationwide sulla BBC nel 1983.