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  • Mercoledì 22 novembre 2023

L’assassinio di John F. Kennedy cambiò Dallas

E lo fece in meglio, secondo il giornalista texano Lawrence Wright, perché la rese «più aperta e tollerante»

Dallas nel 2011 (AP Photo/Tony Gutierrez, File)
Dallas nel 2011 (AP Photo/Tony Gutierrez, File)
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L’assassinio dell’ex-presidente statunitense John F. Kennedy, sessant’anni fa, avvenne a Dallas, in Texas, ed ebbe un particolare impatto sulla sua popolazione e sulla sua immagine pubblica. All’epoca Dallas era una città molto conservatrice e anticomunista, che si distingueva tra gli stati del sud prevalentemente Democratici. Oggi al contrario è una città progressista – dove alle presidenziali del 2020 il candidato che ottenne più voti fu Joe Biden e alle elezioni precedenti Hillary Clinton, e prima ancora Barack Obama, per due volte – in uno stato prevalentemente Repubblicano.

A questi cambiamenti e all’impatto dell’assassinio di Kennedy sulla città sono dedicate alcune pagine di Dio salvi il Texas, un saggio del 2018 del giornalista texano Lawrence Wright, vincitore di un premio Pulitzer nel 2007, che nel 1963 aveva 16 anni e viveva proprio a Dallas. Ne pubblichiamo un estratto.

***

L’ultima volta che sono stato a Dallas era il 2013 per un discorso in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Kennedy. Dallas è sempre stata molto divisa su come affrontare quella tragedia. Per molto tempo si disse che era necessario tirare giù il Texas School Book Depository, dove lavorava Oswald e da dove sparò il colpo fatale, mentre altri volevano trasformarlo in un museo, come è di fatto oggi. La vergogna e l’umiliazione dei texani era ancora molto forte e tutti ricordavano che Dallas era stata soprannominata la Città dell’Odio. Anche mezzo secolo dopo erano tutti riluttanti a parlare di quella tragedia, e io stavo partecipando alla prima commemorazione ufficiale dell’omicidio. Il sindaco di Dallas, Mike Rawlings, considerava il cinquantesimo anniversario come l’opportunità di offrire una cura per una ferita che non era mai guarita.

In modo un po’ strano, l’incontro era stato organizzato in un nightclub in stile country nel vecchio distretto del deposito. Dietro al grande palco c’era una fotografia del presidente e della first lady sulla decappottabile in quel giorno fatale. Il nostro splendido governatore mascellone, John Connally, e sua moglie Nellie erano seduti davanti e salutavano la folla. Kennedy era venuto in Texas per ricomporre la frattura politica tra l’ala conservatrice del Partito democratico dello stato, rappresentato da Connally, e l’ala liberal, guidata dal senatore Ralph Yarborough.

Nel mio discorso dissi che consideravo Dallas la città dei paradossi. Quando due posizioni contraddittorie sembrano ugualmente vere, devono necessariamente contenere entrambe un qualcosa di vero, un mistero che tiene insieme realtà opposte in una dinamica strana e forte al tempo stesso. Per esempio, nel 1963, quando ero al liceo, ero dominato da due convinzioni inconciliabili: non sarebbe mai accaduto nulla a Dallas, e il mondo come lo conoscevo io era destinato a finire presto. Vivevamo con lo spettro dell’annichilimento nucleare, che permeava l’atmosfera religiosa già surriscaldata da un senso inevitabile di apocalisse. La città stava sperimentando tutte le turbolenze di un centro in grande crescita, compreso un alto tasso di omicidi, suicidi e divorzi, insieme a una politica di destra estrema che era andata fuori controllo. Eppure per un sedicenne Dallas sembrava congelata, immutabile e stordita. Tutti si vestivano uguali e votavano uguali e questo contribuiva a un senso di paralisi culturale. L’unica persona nera che conoscevo era la signora delle pulizie che veniva una volta a settimana. In un mondo con questa segregazione razziale, la linea divisoria nella comunità bianca era tra metodisti (come noi) e battisti. Conoscevo pochissimi episcopali. Il primo uomo con la barba che vidi, dopo Babbo Natale, fu Stanley Marcus, il grande mercante della città, che con quella barba aveva fatto scandalo.

La violenza politica era una cosa conosciuta anche prima dell’assassinio di Kennedy. Nel novembre del 1960, durante la campagna elettorale, Lyndon Johnson doveva tenere un discorso all’Adolphus Hotel. Lui e Lady Bird furono assaliti da un gruppo di facoltose signore bianche, in seguito chiamate Mink Coat Mob. Quella era una stagione in cui la politica era ancora molto civile, per questo l’aggressione di quelle signore arrabbiate – che sputavano e insultavano – fu uno choc. Bill Moyers, ex portavoce di Johnson, mi disse in seguito che pensava che quelle signore viziate lo avrebbero fatto a pezzi direttamente lì, nella lobby dell’albergo. La partigianeria estrema che avrebbe infine travolto tutta l’America stava cominciando a manifestarsi – qui, nella mia città.
Nell’ottobre del 1963, Adlai Stevenson, allora ambasciatore americano all’Onu, arrivò a Dallas per parlare nel giorno dedicato alle Nazioni Unite. In Texas l’Onu era considerato come un avamposto comunista. C’erano cartelli e adesivi in tutto lo stato che chiedevano di “Far Uscire gli Stati Uniti dall’Onu”. All’inizio di quell’anno, il Parlamento del Texas aveva approvato una legge che puniva chi esponeva una bandiera dell’Onu.

Stevenson aveva diviso il Partito democratico del Texas quando si era candidato presidente contro Dwight Eisenhower nel 1952. La questione più importante in quel momento era che i confini dello stato andavano dalla costa fino a tre miglia marine – circa 15 chilometri – nel Golfo del Messico, un’area che era chiamata “tidelands”. Per un secolo, la pretesa texana sulle terre delle onde era rimasta incontestata. Poi fu scoperto il petrolio nel Golfo, e il governo federale ne aveva rivendicato la proprietà.

Anche altri stati avevano richieste simili, ma il Texas aveva argomenti più forti: era entrato nell’Unione come uno stato indipendente, con i suoi confini marittimi ben definiti e accettati. Le tidelands divennero il più grande conflitto tra stati e governo centrale dalla Guerra civile. Stevenson non voleva cedere queste terre al Texas, ma Eisenhower, che era texano, sosteneva la richiesta del Texas e quelle di altri stati rispetto alle loro terre sommerse. Firmò una legge con questo obiettivo, ma la disputa non si risolse fino al 1960, quando la Corte Suprema decise in favore del Texas, e 2.440.650 acri sommersi divennero dello stato, in modo chiaro. Arrivò molta ricchezza grazie a quella decisione, buona parte delle nostre scuole furono costruite grazie ai contratti petroliferi del Golfo.

In Texas, Stevenson incarnava gli intellettuali dell’establishment dell’est. La moglie del governatore Allan Shivers, Marialice, disse del candidato democratico: “Non sarà mai eletto presidente un uomo che indossa scarpe bianche”. Il governatore guidava una fazione di democratici che sostenevano Eisenhower e che si chiamava Shivercrats. Era l’inizio del grande pivot politico che avrebbe trasformato il Texas in uno stato rosso.
Stanley Marcus aveva chiesto a Stevenson di non andare a Dallas, ma non voleva certo apparire sottomesso agli stimati nuovi uomini della frontiera dell’Amministrazione Kennedy. Cacciato dal palco, Stevenson lasciò l’auditorium, circondato dalla polizia, che lo aiutò a superare un blocco di un centinaio di manifestanti. Non si sa per quale ragione, Stevenson decise di uscire dalla sua zona di sicurezza, cercando di ragionare con una signora, moglie di un importante assicuratore. Aveva un cartello con scritto “Se Vuoi la Pace, Chiedi a Gesù”, che picchiò sulla testa dell’ambasciatore, manifestazione spettacolare del paradosso di Dallas.

Un mese dopo, il 22 novembre, mio padre aspettava Kennedy al Trade Mart assieme ad altri esponenti della città, che attendevano il presidente per il pranzo. Nel frattempo, il corteo di Kennedy stava passando davanti alla nostra chiesa, la First Union Methodist, all’angolo di Ross Avenue e North Harwood Street, con il pastore e il suo staff a salutare sul marciapiede. Il corteo girò in Main Street, dove migliaia di abitanti di Dallas salutavano e applaudivano. Era una bellissima giornata d’autunno. Appena entrarono a Dealey Plaza, Nellie Connally si voltò e disse: “Non può certo dire che Dallas non la ami, Mr President”. Furono le ultime parole che sentì Kennedy. Il paradosso di Dallas.
Nel mio discorso, dissi che se John F. Kennedy doveva morire comunque quel giorno, ero contento che fosse successo a Dallas. Sì, la città fu ingiustamente considerata responsabile della morte del presidente. Chiunque in città e in America era convinto che ad uccidere il presidente fosse stato un fanatico di destra. Fu molto strano scoprire che era stato Oswald che era marxista, in una città in cui non c’erano quasi democratici. Eppure la città fu mortificata, umiliata, in un modo che raramente era accaduto altrove, e dovette caricarsi addosso tutta la responsabilità di un atto compiuto da una persona che non rappresentava nulla di Dallas, anzi era l’anti-Dallas.

Ma Dallas aveva esattamente bisogno di questo, dell’umiliazione. L’estrema partigianeria della città, il suo militarismo, l’isolazionismo e il pensiero “America first” ci stavano portando in una zona buia. Dallas stava diventando il quartier generale di un nuovo tipo di fascismo, che sopprime controlli e verifiche della democrazia, bullizzando gli oppositori finché tacciono. Il Dallas Morning News, il più importante giornale dello stato e uno dei più importanti del paese, diede voce all’estremismo e lo giustificò. Sembrava non esserci forza per resistere a un trend così pericoloso: come abbiamo scoperto, un seme marcio può cambiare ogni cosa. Dallas diventò più aperta e tollerante, più progressista e “vitale”, per usare un termine caro a Kennedy. Dallas è una città migliore a causa dell’assassinio del presidente.

Ora guardo il paese e mi chiedo se non sta diventando come Dallas nel 1963. Questo sarebbe il più grande dei paradossi.

Traduzione di Paola Peduzzi
Pubblicato per cortesia dell’editore NR