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  • Venerdì 17 novembre 2023

Aumentare le pene non è il sistema migliore per diminuire i reati

Lo dicono diversi studi e anche l'attuale ministro della Giustizia, oppositore del “populismo penale” di cui è accusato il suo governo

carcere
(EPA/SEBASTIAN WILLNOW)
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Nell’ultimo anno il governo Meloni ha approvato diversi provvedimenti per introdurre nuovi reati e aumentare le pene di crimini già previsti dal codice penale. Per esempio il cosiddetto “pacchetto sicurezza”: tra i disegni di legge approvati dal Consiglio dei ministri ci sono nuovi reati come la rivolta in carcere per chiunque organizza e dirige una protesta violenta, l’occupazione abusiva di case, e il blocco stradale per limitare le azioni di protesta dei gruppi ambientalisti.

Da quando è al governo Giorgia Meloni ha aumentato le pene per il traffico di migranti, per la violenza di genere, contro il personale sanitario e il personale scolastico, per chi causa incendi boschivi, per l’istigazione all’anoressia, per l’acquisto di merce contraffatta, per la dispersione scolastica e per le cosiddette baby gang. Inoltre ha introdotto nuovi reati come l’organizzazione di rave illegali, l’omicidio nautico, l’imbrattamento dei muri, la gestazione per altri e la cosiddetta “stesa”, cioè quando criminali della camorra corrono in moto lungo le strade sparando in aria, una forma di minaccia (si chiama “stesa” perché bisogna sdraiarsi per non essere colpiti).

Negli ultimi mesi diversi esperti e osservatori si sono interrogati sull’efficacia di questo sistema, cioè se l’introduzione di nuovi reati e l’aumento delle pene di quelli già previsti abbiano significativi effetti di deterrenza. Non ci sono abbastanza dati per analizzare l’efficacia degli ultimi provvedimenti, tuttavia negli ultimi decenni diverse indagini fatte in Italia e nel mondo hanno dimostrato che aggravare le pene non serve.

Uno degli studi più citati in Italia è stato realizzato nel 2016 da Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, professori di criminologia dell’università Bicocca di Milano che hanno incrociato diverse ricerche fatte in molti paesi del mondo, con dati tra il 1950 e il 2010, per indagare il rapporto tra i tassi di carcerazione e il livello di severità delle pene. Nelle conclusioni delle indagini i ricercatori dicono che la “tolleranza zero” non incide in modo significativo soprattutto per i reati violenti. Stati Uniti e Canada, per esempio, hanno tassi di omicidi molto diversi, ma aumentano o diminuiscono con andamenti simili negli stessi periodi: questo dimostra che le pene molto più severe previste negli Stati Uniti non influenzano il comportamento di chi commette i crimini. Lo stesso vale per il Brasile, dove il tasso di carcerazione è aumentato moltissimo negli ultimi decenni, ma il paese continua a essere il primo al mondo per omicidi commessi.

A una conclusione simile sono arrivati alcuni ricercatori dell’università di Cambridge e Londra che hanno analizzato i dati delle carcerazioni nel Regno Unito: l’aumento delle pene per i reati violenti non ha inciso sulla sicurezza, anzi ha avuto l’effetto di rendere le carceri sovraffollate e di limitare il reinserimento sociale dei detenuti.

Un altro studio basato sui dati dei crimini è stato realizzato nei primi anni Duemila da David A. Anderson, professore del Centre College di Danville, in Kentucky, pubblicato sulla rivista American Law and Economics Review. All’epoca Anderson raccolse i dati di diversi crimini commessi negli Stati Uniti per studiarne l’andamento correlato all’aumento delle pene. Anche in quel caso si dimostrò che a pene più severe non corrispondeva un calo del tasso di criminalità. Anderson arrivò a conclusioni molto condivise tra ricercatori e studiosi di diritto, e cioè che chi commette un crimine presta poca attenzione a quanti anni di carcere sono previsti dal reato che sta commettendo perché è convinto di non essere scoperto. «I criminali non studiano i libri di legge», scrisse Anderson.

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È altrettanto condivisa la teoria secondo cui controlli maggiori e la cosiddetta certezza della pena (che non è la certezza del carcere) possano avere un effetto più significativo sull’andamento dei crimini rispetto a un generico aumento delle pene. In Italia uno dei più grandi sostenitori di questa teoria è lo stesso Carlo Nordio, che prima di essere ministro della Giustizia del governo Meloni è stato procuratore aggiunto a Venezia e un noto studioso di diritto, autore insieme all’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia di un libro intitolato In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili.

Nel 2014, commentando l’inchiesta per corruzione nella costruzione del Mose a Venezia, Nordio disse: «Queste anime buone della politica vogliono veramente farci credere che, se avessero reintrodotto cinque anni fa reati come il falso in bilancio, episodi come quello del Mose non si sarebbero verificati? Per ridurre i reati servono invece pene giuste, ma certe. Poi è necessaria un’opera culturale per far capire ai giovani, ma in particolare ai loro genitori, che comportarsi in modo etico è utile alla società e quindi anche a noi stessi». È un concetto ribadito nel settembre del 2022, quando il ministro disse che chi tende a intercettare una domanda di sicurezza degli elettori «giocando al rialzo delle pene» non fa altro che «ingrassare un populismo che in pochi mi sembra vogliono combattere davvero: quello penale».

Diversi osservatori e studiosi di diritto hanno fatto notare che il “populismo penale” è esattamente la linea adottata dal governo Meloni, di cui Nordio fa parte. Si parla di populismo penale nei casi in cui la politica crea nuovi reati o aumenta le pene per dimostrare agli elettori di star intervenendo su un determinato tema in maniera rapida e apparentemente risolutiva. Per certi versi, appartiene più al campo della comunicazione che a quello giudiziario.

«Aumentare le pene è un modo semplice per ottenere titoli dei giornali e per evitare di spendere tempo e risorse per una seria prevenzione che costa sacrificio e porta risultati non immediati», ha scritto sul Foglio il giurista Giovanni Fiandaca. «La scorciatoia è sempre la stessa: coprire con il populismo penale la propria incapacità di affrontare alla radice i mali sociali via via emergenti delegando di fatto al potere giudiziario il compito di trattarli secondo i paradigmi delle colpe e dei castighi individuali».

Oltre al populismo penale, il governo Meloni è spesso accusato anche di panpenalismo, cioè la tendenza a risolvere con l’introduzione di un nuovo reato qualsiasi tipo di problema. L’introduzione del reato di organizzazione dei rave illegali e del reato di stesa sono due tra gli esempi più chiari.

Secondo Luigi Manconi, intellettuale ed ex senatore, questa politica ha un grave difetto, tra i tanti: è interamente concentrata sui sintomi e trascura qualsiasi analisi delle cause. «È del tutto evidente che i delinquenti armati non possono essere affrontati con la “cultura”, ma se – insieme ai poliziotti e ai carabinieri – non interviene anche la “cultura” (insegnanti, assistenti sociali, psicologi, operatori sanitari, servizi, investimenti economici…) l’attività di repressione risulterà fatalmente vana», ha scritto Manconi su Repubblica. «E, invece, questo sembra essere l’approccio perseguito dal governo di Giorgia Meloni. Le radici sociali, l’ambito territoriale, le biografie familiari, insomma tutto ciò che costituisce il contesto delle diverse emergenze, viene ignorato».

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