Il grande dibattito sulla colonscopia

Da un anno i gastroenterologi discutono di uno studio europeo che mette in discussione la prassi statunitense di usarla come principale strumento di screening per il cancro al colon retto

di Emanuele Menietti

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Da circa un anno tra gastroenterologi si discute sui risultati di un grande studio realizzato in Europa sulla colonscopia e la sua utilità nel prevenire il carcinoma del colon retto. È un dibattito tra addetti ai lavori che mette insieme valutazione del rischio, studi statistici e analisi costi-benefici sulla gestione dei sistemi sanitari, ma ci riguarda comunque tutti e ha un impatto diretto sulla salute di una quantità enorme di persone. Il cancro del colon retto è infatti tra i tumori maligni più frequenti e causa ogni anno un milione di morti in tutto il mondo: trovare il modo più efficiente per prevenirlo porterebbe a grandi benefici, ma è proprio su questo che le cose si complicano e gli animi si accendono.

Negli Stati Uniti l’approccio seguito da tempo per tenere sotto controllo i rischi (screening) consiste nel sottoporsi periodicamente a una colonscopia completa, a partire dai 45 anni. In Europa e in buona parte del resto del mondo le colonscopie sono invece utilizzate di rado come strumento per fare lo screening, perché sono costose, poco piacevoli e invasive per i pazienti e soggette a qualche rischio per quanto raro.

Sebbene non ci sia uno scontro di civiltà intorno allo screening per il cancro al colon retto, la differenza di posizioni è comunque marcata: i gastroenterologi negli Stati Uniti sono da decenni per la colonscopia periodica praticamente per tutti, mentre in Europa si preferiscono altri esami, meno invasivi e più economici. Ma che cosa funziona meglio? Come dimostra il grande studio su cui gli esperti litigano da quasi un anno, trovare una risposta è estremamente complicato e contorto, più delle anse e circonvoluzioni della decina di metri del nostro apparato digerente, dove inizia il nostro viaggio.

La poltiglia che abbiamo ottenuto in bocca masticando del cibo passa attraverso l’esofago e raggiunge lo stomaco, dove incontra i succhi gastrici che disgregano il nostro pasto in sostanze più semplici, per essere digerite nel passaggio successivo nell’intestino tenue. Qui viene estratta la maggior parte dei nutrienti e ciò che rimane raggiunge l’intestino crasso, che è formato dalla sua porzione iniziale (il “cieco”), dal colon e infine dal retto. Il crasso si occupa di estrarre ancora qualche nutriente da ciò che rimane e soprattutto la maggior quantità possibile di acqua. È un lavoro duro e un po’ pericoloso che avviene tra batteri e sostanze di scarto, ma qualcuno dovrà pur farlo.

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Lo fanno in particolare alcune cellule che si trovano sull’epitelio, la parte superficiale del rivestimento interno dell’intestino, e che lavorano per permettere alle molecole d’acqua e ad altre sostanze di passare mentre bloccano ciò che potrebbe essere nocivo. Più in profondità rispetto all’epitelio ci sono cellule ancora non specializzate (staminali) che si dividono in continuazione producendo quelle che poi diventeranno le cellule dell’epitelio. Questa produzione avviene a un ritmo sostenuto, perché le cellule epiteliali hanno vita breve: di solito meno di una settimana, poi smettono di funzionare e muoiono.

La breve durata di quelle cellule è essenziale, perché hanno a che fare con sostanze potenzialmente pericolose che potrebbero causare mutazioni nel loro DNA. Il processo non è ancora completamente chiaro, ma l’ipotesi più condivisa è che errori nella copia del materiale genetico quando queste specifiche cellule si moltiplicano facciano sì che non durino poco come dovrebbero. È una condizione anomala che di solito viene rilevata dal sistema immunitario, che provvede a distruggerle, ma in alcuni casi questo non avviene e si formano aggregati cellulari nell’epitelio: i polipi. Non sono tecnicamente un tumore maligno, nel senso che non si diffondono nei tessuti circostanti, ma se rimangono a lungo e continuano a crescere aumentano le probabilità che si accumulino ulteriori mutazioni nel materiale genetico delle cellule e che si arrivi al carcinoma vero e proprio, con una probabilità che questo si diffonda altrove.

Rappresentazione schematica di un polipo nel colon retto (Wikimedia)

Con la colonscopia si può andare alla ricerca di questi polipi ed eliminarli chirurgicamente, prima che si mettano a fare danni (anche se non è detto che questo succederebbe). Chi si deve sottoporre a una colonscopia deve seguire una preparazione che richiede l’assunzione di una sostanza, non molto piacevole da bere, che svuota e ripulisce il colon. Elimina tutto il suo contenuto rendendo piuttosto drastiche alcune sedute in bagno.

Finita la preparazione il paziente viene sedato parzialmente o totalmente e inizia l’esame vero e proprio, che prevede l’inserimento nell’ano di un tubo lungo circa un metro e mezzo dotato di videocamera, luci e strumenti in miniatura che vengono usati per manipolare l’epitelio, stenderlo e andare alla ricerca di eventuali polipi. In base alle loro caratteristiche e dimensioni, si decide poi se asportarli e condurre una biopsia, cioè un esame di laboratorio per capire se abbiano le caratteristiche di un tumore maligno. Si ritiene inoltre che la rimozione dei polipi possa prevenire la formazione di un carcinoma, per le ragioni che abbiamo visto prima.

Negli Stati Uniti la colonscopia è ritenuto l’esame più importante, o “di elezione” come dicono i medici, per fare screening nella popolazione in generale. Per questo la procedura viene raccomandata alle persone più a rischio, di solito dai 45 anni in poi, e si consiglia di ripeterla periodicamente in modo da andare a caccia dei polipi. In Europa e in diverse altre parti del mondo l’approccio è diverso ed è basato quasi sempre su esami meno invasivi e costosi.

In Italia, per esempio, il test consigliato per lo screening del tumore del colon retto è la ricerca di sangue occulto nelle feci, un esame che si realizza semplicemente analizzando un campione di feci che il paziente raccoglie a casa e porta poi a un laboratorio di analisi. Il ministero della Salute consiglia di effettuarlo almeno ogni 2 anni alle persone di età compresa tra i 50 e i 69 anni. Eventuali tracce di sangue nelle feci possono essere un indicatore della presenza di polipi, che potrebbero degenerare, oppure di tumori veri e propri. Se l’esito è positivo viene quindi prescritta una colonscopia, in modo da approfondire la questione e se necessario intervenire direttamente durante l’esame per rimuovere i polipi.

C’è poi una sorta di via di mezzo per lo screening, un esame simile alla colonscopia, ma meno invasivo e più pratico. Si chiama rettosigmoidoscopia e consiste nell’ispezionare solo l’ultima parte del colon (il colon sigmoideo e il retto), dove statisticamente si sviluppa il 70 per cento dei tumori del colon retto. Nell’ambito dell’autonomia in materia di sanità delle singole regioni, in Italia questo esame viene consigliato per esempio in Piemonte a tutte le persone con un’età compresa tra i 58 e i 60 anni. Viene eseguito una sola volta e si ritiene sia utile per fare il punto della situazione, vedere se ci sono polipi e attivare se necessario successive attività di controllo.

Oltre a essere più rapida e meno costosa, la rettosigmoidoscopia ha il vantaggio di essere meno rischiosa della colonscopia vera e propria. Seppure l’incidenza è bassissima, con la colonscopia può infatti verificarsi una perforazione dell’intestino, che se non viene trattata immediatamente con un’operazione di urgenza porta a una grave infiammazione (peritonite) dovuta al contatto delle feci con altri tessuti nella cavità addominale o più raramente a un’emorragia interna e alla morte (l’intestino è tra gli organi più irrorati di sangue, proprio perché si occupa del trasferimento dei nutrienti). È un’eventualità rara, anche se non ci sono dati per stimare precisamente il fattore di rischio, e questo è uno dei motivi per cui in molti paesi l’incertezza rientra nella valutazione costi-benefici delle colonscopie portando a utilizzare altri metodi di screening.

Per contro, la colonscopia permette di ispezionare molto più approfonditamente la parte terminale dell’intestino rispetto a cosa fa la rettosigmoidoscopia, che si ferma prima. Anche in questo caso ci sono però ricerche e studi con conclusioni contrastanti. Una ricerca comparativa tra i due metodi ha per esempio segnalato che, in pazienti per i quali si sospettava un tumore al colon retto, la rettosigmoidoscopia aveva permesso di identificare l’80 per cento dei casi di cancro.

Gli studi sul tema erano comunque limitati e spesso basati su esperienze con pochi pazienti, tali da non permettere di fare valutazioni più approfondite sull’effettiva utilità della colonscopia. Per poterlo fare, sarebbe stato necessario uno studio controllato randomizzato (RCT), cioè un test clinico dove le persone che partecipano vengono assegnate casualmente al gruppo che riceve il trattamento da indagare o a un gruppo che riceve un altro trattamento già sperimentato oppure ancora nessun trattamento. Gli studi di questo tipo, se effettuati su un ampio numero di persone, possono dare risultati utili e soprattutto spunti importanti per capire se una certa pratica medica porti effettivamente qualche beneficio.

Un RCT su un alto numero di persone per la colonscopia non c’era, ma nell’ottobre del 2022 le cose sono cambiate con la pubblicazione dei primi esiti della Nordic-European Initiative on Colorectal Cancer (NordICC), il grande studio controllato randomizzato su cui discutono e talvolta si scontrano i gastroenterologi da circa un anno. La ricerca aveva l’ambizioso obiettivo di verificare se e quanto le colonscopie riducono i casi di tumore e di morte legati alle malattie del colon retto.

Tra il 2009 e il 2014 i ricercatori hanno selezionato oltre 85mila persone tra i 55 e i 64 anni in Polonia, Svezia e Norvegia scegliendole a caso dai censimenti nazionali. A un terzo di queste hanno spedito un invito per fare una colonscopia, mentre ai restanti due terzi non è stato mandato alcun invito e sono quindi diventati inconsapevolmente il gruppo di controllo. Il 42 per cento degli appartenenti al gruppo degli invitati ha accettato la proposta di fare la colonscopia, mentre gli altri (58 per cento) hanno declinato l’invito.

Impostati i gruppi, i ricercatori hanno poi seguito la storia clinica delle persone partecipanti in media per una decina di anni, andando a vedere nei registri nazionali chi di loro avesse poi ricevuto una diagnosi di cancro al colon retto, chi fosse morto a causa di questo tipo di tumore o per qualsiasi altra causa. Dal confronto tra i vari gruppi è emerso che la differenza del rischio di sviluppare un tumore al colon retto tra il gruppo degli invitati e quello di controllo era del 18 per cento, mentre le differenze tra i due gruppi non erano statisticamente significative per il rischio di morte sia legato al cancro del colon retto sia a qualsiasi altra causa.

Quando lo studio era stato preparato ed erano state formulate le ipotesi, da verificare poi nella pratica, ci si aspettava che la colonscopia mostrasse di essere un notevole modificatore nelle statistiche sia sulle diagnosi sia sui decessi legati al cancro del colon retto. Alla fine dello studio i risultati si sono rivelati invece al di sotto delle aspettative e per questo fanno discutere gruppi di ricerca, medici e altri addetti ai lavori compresi i decisori politici, cioè chi alla fine decide di attuare o meno una certa strategia di screening.

Il confronto si è sviluppato lungo diversi filoni, quasi sempre evidenziando una certa differenza di vedute tra gli Stati Uniti, dove si fanno molte colonscopie, e l’Europa dove se ne fanno poche (ci sono differenze anche rispetto ad altri paesi, ma Stati Uniti ed Europa sono più confrontabili e soprattutto hanno raccolto nel tempo maggiori quantità di dati).

Le prime obiezioni allo studio hanno riguardato il fatto che solo il 42 per cento degli invitati avesse deciso di fare la colonscopia, riducendo sensibilmente la quantità di persone coinvolte direttamente nella procedura, ma anche il fatto che uno studio della durata di dieci anni non sia sufficiente, considerato che i tumori al colon retto hanno una lenta evoluzione (una nuova fase di NordICC è ancora in corso con l’obiettivo di aggiungere altri anni di monitoraggio).

Alcuni hanno inoltre consigliato di prendere solamente in considerazione quel 42 per cento che aveva scelto di fare la colonscopia, e di considerare che in quello specifico gruppo l’incidenza dei casi di cancro al colon retto si era ridotta del 31 per cento e che la mortalità dovuta al cancro si era pressoché dimezzata. Questa interpretazione è stata ampiamente ripresa soprattutto dai gastroenterologi negli Stati Uniti per trarre una conclusione diversa dallo studio, ma non ha convinto vari analisti ed esperti di statistica, come è stato raccontato di recente in dettaglio sulla rivista Asterisk.

Quel dimezzamento della mortalità deriva da un ragionamento che non ha molto a che fare con la statistica, i cui meccanismi possono a volte risultare controintuitivi. Lo studio ha infatti messo a confronto il gruppo di controllo (cioè chi non era stato contattato) con il gruppo degli invitati, che però comprende due sottogruppi: chi aveva accettato l’invito a fare la colonscopia e chi no. Il motivo di seguire questa impostazione era di provare a ricreare uno scenario coerente con quanto accade normalmente, visto che nei programmi di screening c’è sempre una certa porzione di persone che preferisce non fare gli esami.

Istintivamente si potrebbe pensare che sia sufficiente vedere come sono andate le cose tra chi ha accettato di fare la colonscopia e il gruppo di controllo, ignorando chi invece aveva rifiutato l’invito. Il problema è che quelli che accettano e quelli che rifiutano sono persone diverse, se nessuno dei due sottogruppi avesse mai fatto una colonscopia i risultati sarebbero stati comunque diversi da quelli del gruppo di controllo. Su Asterisk hanno fatto i conti e hanno notato che nel gruppo di chi aveva rifiutato l’invito si erano registrati meno casi di cancro al colon retto rispetto al gruppo di controllo, benché le persone appartenenti a entrambi i gruppi non avessero fatto la colonscopia.

La spiegazione più probabile è che ciascuno di noi fa più o meno consapevolmente una valutazione del rischio. Ognuno è consapevole del proprio stile di vita e delle implicazioni che può avere: fumare è per esempio uno dei fattori che più fanno aumentare il rischio per vari tipi di tumori. E ogni persona è anche consapevole della storia familiare e per esempio dei parenti che hanno avuto un cancro al colon retto, o che magari sono morti a causa della malattia.

Chi ritiene di essere a basso rischio è più probabile che rifiuti di fare lo screening rispetto invece a chi ha buoni motivi per prendersi meno rischi. E questa è solo una delle possibili spiegazioni, perché siamo tutti diversi e pensiamo tutti in modo diverso: c’è chi è pigro, chi non si fida dei medici, chi ha paura di fare gli esami o non vuole sottoporsi al beverone spazza colon. Se non si tiene in considerazione il fatto che non si possono mettere direttamente a confronto quelli che hanno accettato l’invito con il gruppo di controllo o con quelli che hanno rifiutato la colonscopia, si rischia di arrivare a conclusioni errate o a sviluppare sistemi creativi e poco affidabili per risolvere il problema. (In statistica si dice spesso che torturando in modo opportuno i dati gli si potrà far dire qualsiasi cosa.)

Oltre a queste complicazioni statistiche, il confronto su NordICC in questo anno ha anche interessato un altro aspetto che ricorda le divergenze di pareri sulla colonscopia tra Stati Uniti ed Europa (con tutte le sfumature nel mezzo). Alcuni studi e analisi hanno suggerito che NordICC abbia portato a quei risultati semplicemente perché in Europa si fanno meno colonscopie e di conseguenza i medici sono meno abili nel farle, e nel riconoscere i polipi, rispetto ai loro colleghi statunitensi.

In questo caso il metro di paragone che viene suggerito è la frequenza con cui vengono trovati i polipi precancerosi, segnala sempre Asterisk. I medici statunitensi li trovano nel 40 per cento dei casi, mentre NordICC aveva segnalato una frequenza per i medici europei del 31 per cento. Questa differenza dimostrerebbe che i primi fanno meglio il loro lavoro, ma non tutti sono convinti. Una spiegazione potrebbe essere che semplicemente gli statunitensi hanno in media più polipi considerato che c’è una maggiore percentuale di persone obese, una dieta più ricca di grassi e zuccheri e una minore attività fisica. A questa ipotesi si contrappone però il fatto che negli Stati Uniti i casi di cancro al colon retto sono inferiori rispetto per esempio alla Polonia e alla Norvegia, due dei tre paesi dove è stato effettuato NordICC.

Un altro modo per capire l’abilità nel fare colonscopie potrebbe essere valutare la quantità di perforazioni del colon, che avviene accidentalmente e mette in serio pericolo la vita dei pazienti. Nelle circa 12mila colonscopie prese in considerazione dal NordICC non è stato segnalato nemmeno un caso di perforazione, una condizione ben distante dalle statistiche degli studi compiuto in precedenza in altre parti del mondo compresi gli Stati Uniti (le stime variano comunque enormemente da 1 caso su 100 a 1 su 20mila a seconda delle analisi). La mancanza di perforazioni secondo alcuni è la dimostrazione che i medici europei sono abili almeno quanto quelli statunitensi, ma è stato sollevato il dubbio che ciò dipenda dal fatto che in Europa si fanno raramente colonscopie in sedazione completa. Senza un’anestesia vera e propria l’esame può essere meno approfondito e di conseguenza potrebbe sfuggire qualcosa riducendo i benefici dell’operazione.

Il confronto nell’ultimo anno è stato piuttosto acceso, ma l’argomento è discusso da tempo e rientra nell’ampio filone del dibattito sui sistemi di screening e sulla loro utilità (negli scorsi anni si è per esempio parlato molto delle mammografie). Il NordICC ha avuto il pregio di portare per la prima volta un’analisi ampia sull’esperienza europea, ma non è ancora sufficiente per trarre qualche conclusione. Il fatto che l’importanza dello studio sia stata sminuita soprattutto negli Stati Uniti mostra comunque come sia difficile mettere in discussione alcune pratiche mediche, soprattutto se fanno parte di un’abitudine consolidata.

Da decenni negli Stati Uniti ci sono campagne di prevenzione che ricordano l’importanza di sottoporsi alle colonscopie come forma di screening. In quel contesto è probabilmente più difficile avere una visione critica di una pratica molto diffusa e sulla cui importanza si soffermano spesso le istituzioni sanitarie. È probabile che incidano anche interessi di tipo economico, in un paese dove la sanità è per lo più privata e basata su un complesso sistema di assicurazioni, rispetto ai paesi europei dove prevale un tipo di sanità pubblica.

In mancanza di prove convincenti sulla superiorità delle colonscopie, le istituzioni sanitarie e i governi europei preferiscono utilizzare altri metodi di screening molto meno costosi come gli esami delle feci, ma comunque importanti e utili nel rilevare eventuali indicatori che suggeriscono poi di approfondire con un esame più invasivo e complesso. Nei luoghi come gli Stati Uniti dove si è invece disposti ad accettare costi più alti, allora la colonscopia periodica prevale sugli altri metodi di screening.

Stabilire con certezza se un approccio sia migliore di un altro è difficile, specialmente considerata la grande quantità di variabili da tenere in considerazione. In generale è molto difficile stabilire le regole e soprattutto i confini delle politiche di screening per fare prevenzione in sistemi complessi dove le risorse sono pochissime (i macchinari e i laboratori, per esempio) rispetto alla popolazione potenzialmente interessata.

Fare un certo esame ogni settimana può dare la certezza di arrivare a una diagnosi precoce di una malattia, quindi ci appare migliore rispetto a un esame ogni due anni o all’emergere dei primi sintomi. Non è però detto che il primo approccio sia migliore del secondo per raggiungere l’obiettivo, che sia guarire, tenere sotto controllo la malattia o ridurre i rischi che si riveli mortale. Le ricerche su come organizzare gli screening servono proprio a questo: a trovare il giusto equilibrio, sapendo che la sanità si muove quasi sempre in un ambito dove le risorse sono scarse. Ed è anche il motivo per cui le politiche sanitarie sono sempre più orientate alla prevenzione, come l’adozione di stili di vita più sani, e nei contesti che lo consentono alla riduzione delle complicazioni dovute a malattie che possiamo evitare di avere grazie alle vaccinazioni.