Allevare i tonni rossi sulla terraferma è meglio o peggio che pescarli?

Un ente di ricerca spagnolo è riuscito a farlo, ma ci sono preoccupazioni sugli impatti ambientali e sul benessere dei pesci

Un tonno rosso pescato vicino al Maine, negli Stati Uniti, nel 2018 (AP Photo/Robert F. Bukaty, File)
Un tonno rosso pescato vicino al Maine, negli Stati Uniti, nel 2018 (AP Photo/Robert F. Bukaty, File)
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Lo scorso luglio l’Istituto spagnolo di oceanografia (IEO) ha annunciato di essere riuscito, per la prima volta a livello mondiale, a far riprodurre dei tonni rossi in cattività in un impianto di acquacoltura sulla terraferma. Questo successo del centro di ricerca ha subito suscitato l’interesse di alcune aziende che si stanno organizzando per aprire i primi grandi allevamenti terrestri di tonno rosso con la collaborazione dello IEO.

La carne del tonno rosso infatti è molto richiesta, ma la pesca e l’allevamento in mare di questo pesce hanno grandi impatti ambientali: la possibilità di allevarlo “a terra” potrebbe rendere il settore più sostenibile. Però c’è anche chi pensa che acquacolture di questo genere potrebbero risultare più dannose rispetto ai metodi attuali, anche per il benessere dei tonni, che da adulti possono superare i due metri di lunghezza e alcune centinaia di chili di peso e, in natura, si spostano per migliaia di chilometri nell’oceano.

Il tonno rosso è una delle varie specie di tonni che ci sono al mondo e vive nell’oceano Atlantico e nel mar Mediterraneo: il suo nome scientifico è Thunnus thynnus ed è detto anche “tonno pinna blu”. Non è una delle specie di tonno le cui carni sono vendute in scatolette (quelle sono il tonnetto striato, il tonno pinna gialla e il tonno obeso, economicamente meno costose e considerate meno pregiate), ma è una delle tre con cui si fanno il sushi e il sashimi di tonno. Le altre sono il tonno del Pacifico (Thunnus orientalis), che come suggerisce il nome vive nell’oceano Pacifico, e il tonno australe (Thunnus maccoyii), che vive in una fascia molto meridionale degli oceani del mondo, quasi fino ai limiti dell’oceano Antartico: esteriormente queste due specie sono praticamente indistinguibili dal tonno rosso e hanno a loro volta la carne di colore rosso.

La maggior parte dei tonni rossi delle tre specie che viene consumata nel mondo è pescata, anche se negli ultimi anni si è diffusa una forma di allevamento basata sulla tecnica dell’ingrasso: si catturano giovani tonni liberi e li si fa crescere all’interno di grandi reti in mare fino a quando non raggiungono la taglia adatta per essere venduti sul mercato. Dal 2015 poi a questa forma di acquacoltura se ne è aggiunta una seconda, per ora minoritaria. In quell’anno l’azienda giapponese Maruha Nichiro ha venduto i primi tonni del Pacifico che ha allevato a partire dalla nascita, prima in strutture di acquacoltura sulla terra e poi all’interno di reti in mare: è stato possibile far riprodurre i pesci in cattività mettendo una certa quantità di ormoni nelle vasche in cui nuotavano gli individui adulti, che così sono stati spinti a produrre e fertilizzare uova.

L’Istituto spagnolo di oceanografia è il primo ente che è riuscito a fare la stessa cosa anche con i Thunnus thynnus, i tonni rossi dell’Atlantico e del Mediterraneo, e due aziende europee, la tedesca Next Tuna e la norvegese Nortuna, stanno lavorando per creare acquacolture di tonni di scala con i suoi metodi. Next Tuna vuole realizzare un impianto vicino a Valencia, in Spagna, mentre Nortuna a Capo Verde, in Africa occidentale.

Anche se per ora questo tipo di acquacoltura è agli inizi, ha attirato molto interesse perché il modo in cui è praticata la pesca dei tonni è considerato poco sostenibile per la conservazione delle specie.

Il Giappone è il più grande importatore di tutte e tre le specie di tonni rossi e il principale consumatore al mondo, seguito dagli Stati Uniti, dove si stima si mangi tra l’8 e il 10 per cento del sashimi del mondo. Negli ultimi decenni del Novecento la grande domanda di Giappone e Stati Uniti ha notevolmente ridotto la quantità di tonni rossi delle tre specie, anche se poi le restrizioni alla loro pesca introdotte intorno al 2010 hanno migliorato la situazione. Secondo le stime dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione, il tonno australe è tuttora a rischio di estinzione e il tonno del Pacifico è minacciato.

Invece il tonno rosso (quello che vive nell’Atlantico e nel Mediterraneo) non è più considerato minacciato, perché sebbene tra il 1966 e il 2018 la popolazione dell’Atlantico occidentale sia diminuita dell’83 per cento per l’eccesso di pesca, si stima che i tonni rossi dell’Atlantico orientale, la cui popolazione è molto maggioritaria considerando la specie nel complesso, siano diventati più numerosi dagli anni Sessanta a oggi. Le preoccupazioni sulla sostenibilità della pesca comunque rimangono, per via del calo della popolazione occidentale.

Per le aziende che si occupano di acquacoltura dei tonni rossi o sono interessate a praticarla, l’uso delle tecniche che consentono la riproduzione dei pesci in cattività ridurrebbe la pressione sulle popolazioni selvatiche e per questo dovrebbe essere favorito. Tenere i tonni in età da riproduzione in vasche sulla terraferma significa poter regolare sia la temperatura dell’acqua che l’illuminazione. In questo modo, secondo chi sta lavorando ai progetti di acquacoltura, si potrà allungare il periodo dell’anno in cui i tonni rossi si possono riprodurre. In natura lo fanno per circa 45 giorni tra giugno e luglio: se negli allevamenti lo faranno per più tempo si otterranno popolazioni in cattività più numerose di quelle che si fanno ingrassare dopo aver catturato giovani tonni in mare.

Tuttavia alcuni scienziati hanno espresso delle preoccupazioni riguardo alla nuova forma di allevamento, che riguardano sia il benessere degli animali sia gli impatti ambientali del settore che si potrebbe sviluppare.

Per quanto riguarda direttamente i tonni, l’ong spagnola per i diritti degli animali Observatorio de Bienestar Animal ritiene che anche vasche molto grandi e spaziose non siano un ambiente adatto per i bisogni di una specie migratoria come i tonni rossi, che si spostano per migliaia di chilometri per cercare cibo e riprodursi.

In un articolo pubblicato su The Conversation Wasseem Emam, ricercatore dell’Istituto di acquacoltura dell’Università di Stirling, ha spiegato che è difficile giudicare l’esperienza di vita dei tonni nelle vasche perché le aziende che le hanno non diffondono troppe informazioni in merito. Ma «generalmente le specie di pesci non domesticate sperimentano forme maggiori di stress in cattività e quando sono gestite da personale umano rispetto alle specie che si sono adattate all’allevamento nel tempo». Emam cita anche alcuni studi secondo cui i pesci possono essere stressati dal rumore e da certe vibrazioni, che sono probabilmente presenti all’interno di impianti di allevamento a terra. Però sarebbe nell’interesse degli allevatori evitare questo tipo di stress perché si sa che la carne dei pesci stressati ha una qualità minore. In particolare è noto che se prima di essere uccisi i tonni rossi provano a scappare, il loro corpo produce grandi quantità di acido lattico che peggiora il gusto della loro carne.

Alle preoccupazioni sul benessere dei tonni si aggiungono poi quelle sull’impatto ambientale e la sostenibilità di eventuali grandi allevamenti a terra. La prima è legata all’alimentazione dei tonni in cattività: attualmente i tonni rossi all’ingrasso sono nutriti in grandissima parte con specie ittiche che potrebbero essere usate anche nell’alimentazione umana e in Giappone per produrre 1 chilogrammo di carne di tonno del Pacifico allevato servono tra i 2,5 e i 3,5 chili di altri pesci. Significa anche che per allevare i tonni a terra in grande quantità bisognerebbe aumentare la pesca di altre specie.

Maruha Nichiro sta facendo delle ricerche per migliorare l’efficienza nell’alimentazione dei tonni in cattività. Il presidente di Nortuna Anders Attramadal ha invece sminuito questo problema parlando con il Guardian perché sostiene che i tonni allevati a terra mangino meno di quelli in mare; Andrew Eckhardt di Next Tuna invece ha detto che la sua azienda cercherà di ridurre la quantità di pesce necessaria a nutrire i tonni creando mangimi a base di altri ingredienti, come proteine vegetali, alghe e insetti.

Altre preoccupazioni riguardano l’uso di antibiotici che sarà richiesto negli allevamenti per evitare la diffusione di malattie (molto alto in tutti i generi di allevamenti di animali su scala industriale) e l’inquinamento delle acque legato agli scarichi degli impianti di acquacoltura. Next Tuna dice di non voler usare antibiotici, e Nortuna dice che ne farà un uso minimo. Riguardo all’inquinamento delle acque, la prima azienda progetta un sistema per prelevare acqua marina che poi però non sarà riscaricata in mare. Per il momento non si conoscono i dettagli né dell’impianto di Next Tuna né di quello di Nortuna. Con i tonni del Pacifico Maruha Nichiro ha un approccio diverso, perché una volta che i pesci hanno raggiunto una certa dimensione nelle vasche a terra li sposta all’interno di reti in mare.