La cultura può essere un’arma

«Quando ho sentito Čajkovskij a Leopoli, ho sobbalzato. Era strano ascoltare la sua musica in Ucraina, perché l'arte e la musica sono tra i campi di battaglia di questa guerra. Il 27 febbraio 2022, a tre giorni dall’invasione russa su vasta scala, l’Agenzia statale per le arti e l’educazione artistica del ministero della Cultura ucraino aveva pubblicato sul suo sito una petizione tradotta in 22 lingue con cui si invitavano gli organizzatori di festival in tutto il mondo a boicottare gli artisti russi e le loro opere»

Un busto di marmo imballato in attesa di essere spostato dal Palazzo Potocki dove ha sede la Galleria nazionale Borys Voznytsky per salvarlo in caso di saccheggio da parte dei russi. Leopoli, Ucraina, 29 aprile 2022 (Leon Neal/Getty Images)
Un busto di marmo imballato in attesa di essere spostato dal Palazzo Potocki dove ha sede la Galleria nazionale Borys Voznytsky per salvarlo in caso di saccheggio da parte dei russi. Leopoli, Ucraina, 29 aprile 2022 (Leon Neal/Getty Images)
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Potrei vivere senza Čajkovskij? Non mi sarei mai posta questa domanda se, anziché in Ucraina, fossi rimasta a casa ad ascoltare la Patetica per il beneficio dell’animo. Convinta dell’innocenza della musica, non avrei visto il legame dell’arte né con l’invasione russa, né con una storia più antica.

I dubbi sulla non innocenza della cultura sono arrivati un pomeriggio, mentre camminavo per Leopoli, fra sacchi di sabbia e monumenti ingabbiati. Leopoli, la capitale della Galizia dove è nato il patriottismo ucraino, ospita oggi 250mila rifugiati dall’est e dal sud del Paese: i musei sono quasi tutti chiusi, hanno spostato le collezioni altrove, ma la città continua a essere viva e offre, nei limiti del coprifuoco da mezzanotte alle 5, mostre di arte contemporanea, spettacoli teatrali, presentazioni di libri. Come avrei avuto modo di capire, la cultura nell’Ucraina di oggi non è solo un modo “alto” per socializzare o per crescere come esseri umani. La cultura qui è politica e fruirne significa prendere una posizione: sostenere il paese o, viceversa, non fare nulla affinché continui a esistere.

La domanda su Čajkovskij mi è venuta in mente visitando MOT Module of Temporality, una mostra itinerante curata dal critico francese Fabrice Bousteau e allestita in un castello di container tra gli alberi del parco Ivan Franko, l’altro grande poeta patriota ucraino oltre a Taras Ševčenko. La mostra allude all’impermanenza della storia e a quella delle persone rifugiate ospitate nei villaggi modulari, e si chiude con un’installazione video dell’albanese Anri Sala, che ricorda le guerre dei Balcani degli anni Novanta: una musicista attraversa le strade della Sarajevo assediata per andare alle prove dell’orchestra filarmonica della sua città, canticchiando la melodia del primo movimento della Patetica, appunto, di Piotr Čajkovskij.

Quando ho sentito Čajkovskij, ho sobbalzato. Era strano ascoltare la sua musica in Ucraina, perché il 27 febbraio 2022, a tre giorni dall’invasione russa su vasta scala, l’Agenzia statale per le arti e l’educazione artistica del ministero della Cultura ucraino aveva pubblicato sul suo sito una petizione tradotta in 22 lingue con cui si invitano gli organizzatori di festival in tutto il mondo a boicottare gli artisti russi e le loro opere. La cultura è uno dei campi di battaglia di questa guerra.

Nel suo Diario di un’invasione lo scrittore ucraino russofono Andrei Kurkov scrive che la Russia «continua a non badare a spese per promuovere la sua cultura classica. Considera la sua potente immagine culturale come la miglior argomentazione contro la propria immagine politica estremamente aggressiva e negativa». Lo stesso Kurkov osserva come sia stato lo stesso direttore del museo Hermitage di San Pietroburgo, Mikhail Piotrovskij, a dire in un’intervista del giugno 2022 alla Rossiiskaja Gazeta che quella culturale è un’«operazione speciale»; e che l’arte esportata dai russi attraverso le mostre è una potente «offensiva culturale». Lo stesso pensiero, ma speculare, è diffuso in Ucraina. A Leopoli ho saputo di orchestre ucraine che hanno posto la condizione di non eseguire lavori di compositori russi prima di accettare un ingaggio.

Non avevo mai considerato il problema in questi termini. Come sarà, in caso di vittoria, la vita culturale nell’Ucraina? Se, per assurdo, mi trasferissi a Leopoli, dovrei rinunciare ad ascoltare in una sala da concerto le musiche dei compositori russi? Per rispondere alla domanda ho chiesto un incontro a Dmytro Zakhozhenko, regista di Imperium delendum est, pièce che ha debuttato nel 2022, subito dopo l’inizio della guerra, quando il teatro Lesia Ukrainka di Leopoli, di cui il Zakhozhenko è direttore, era stato trasformato in un rifugio; un’ora di spettacolo, con protagoniste sette attrici che, attraverso poesie, canti e sketch di humor nero, rivendicano «noi non siamo vittime, siamo combattenti. Vogliamo solidarietà, non pietà».

Incontro Zakhozhenko in uno dei tanti café di Leopoli in cui rimangono tracce del periodo austro-ungarico della città. Il locale è affacciato sulla Rynok Ploshcha, la piazza del mercato, e, mi dice il regista, piace molto ai visitatori dall’Europa occidentale: forse perché le pareti spoglie e la luce delle lampadine, seppur create ad arte, coincidono con la nostra idea di underground dell’ex Unione Sovietica.

Zakhozhenko, che ha 36 anni, non parla di sé, ma sottovoce inizia a raccontare della nascita della pièce: «Allo scoppio della guerra, cancellammo tutte le nostre produzioni per accogliere le persone. Quando poi decidemmo di tornare sul palco non sapevamo come farlo. Tutto era diverso: che senso aveva rappresentare Amleto mentre cadevano le bombe? Sarebbe stato ridicolo. Pensammo quindi di raccontare le nostre storie personali attraverso canti, poesie, sketch, e di farlo in una produzione agile, che potesse essere portata nei rifugi, negli ospedali». Funzionò. Il dolore, l’odio, la rabbia verso l’invasore «da cancellare» provocano nel pubblico la catarsi tanto che «al termine delle performance», dice Zakhozhenko, «le persone ci avvicinano, ci ringraziano per essere riuscite finalmente a piangere».

Mentre Zakhozhenko parla e finisce di bere il suo cappuccino, mi viene in mente di nuovo Čajkovskij. Gli dico che in Italia siamo solidali con loro, ma che amiamo anche la cultura russa e gli chiedo se mai verrà un tempo in cui la cultura ucraina e quella russa potranno semplicemente coesistere. Zakhozhenko dice: «Forse i figli dei miei figli. Quando avremo anni di pace, forse…», ma poi si innervosice: «È troppo difficile, adesso, e a proposito di Čajkovskij ho una bella storia…». Così mi racconta di sua madre, violinista, giunta con il marito da Kherson per assistere alla prima di Imperium delendum est: «Arrivavano da una città che in quel momento era occupata, ed erano in uno stato terribile, piangenti, tremanti, molto spaventati. Le ho chiesto di suonare qualcosa e lei ha scelto un brano di un compositore ucraino, anche se aveva studiato in un conservatorio intitolato a Čajkovskij e aveva sempre insegnato le sue musiche ai suoi allievi. Alla fine le ho chiesto se voleva dire qualcosa e sul palco lei, di solito così pacata, ha scandito: “Čajkovskij, go f**k yourself”. È stata una liberazione: il teatro è esploso, tutti si sono messi a piangere, a ridere, a ballare. Lo so benissimo che Čajkovskij è un grande compositore e tutto il resto, ma ora basta: strade, conservatori, tutto in Ucraina è stato chiamato con il suo nome, perché la Russia usa la cultura come un’arma. E questo mi rende furioso».

Mentre il locale si riempie di ragazzi e ragazze che prendono posto a un grande tavolo centrale, Dmytro Zakhozhenko si arrabbia raccontandomi che gli artisti russi vengono invitati ovunque, come il soprano russo Anna Netrebko che è tornato alla Staatsoper di Berlino, e «questa non è cultura, è una dichiarazione politica. I russi combattono l’Europa e l’Europa non li combatte: e tutto ciò, per noi, è frustrante». Zakhozhenko è convinto che i russi si servano della cultura classica per nascondere i propri orrori: «Čechov, Dostoevskij, Tolstoj e tutti gli altri sono cortine con cui coprono la barbarie. Io ho letto tutto quello che hanno scritto, ma il punto è sempre quello: i russi usano la cultura per distruggerci. Non c’è niente di culturale in tutto questo: è solo politica. Se mi chiedi se c’è oggi un’opportunità per il dialogo, la risposta è no: no, se la cultura è un’arma».

La posizione di Zakhozhenko in Ucraina non è isolata. Il sito cancelrussia.info permette di scaricare e stampare manifesti con lo slogan «There’s no russian culture without russian tanks» e chiede «Aiutaci a combattere l’Impero Russo cancellando la sua cultura coloniale» nella convinzione che scrittori, pittori e compositori morti decine di anni fa continuino a essere usati come arma di propaganda. Il mio amato Čajkovskij e tutti gli altri sono visti come l’espressione nel presente del lungo dominio culturale e coloniale dell’Urss e della Russia sulle culture delle repubbliche assoggettate. Per questo i grandi autori ucraini, come Franko e Ševčenko o come il compositore ed etnomusicologo Mykola Vіtalіjovyč Lisenko, sarebbero misconosciuti nell’Europa occidentale.

In un articolo sul giornale online Krytyka, Volodymyr Sheiko, il direttore generale dell’Ukrainian Institute, l’istituzione del ministero degli Esteri che si occupa di difendere e promuovere la cultura ucraina nel mondo, definisce l’arte il whitewashing della reputazione internazionale russa e un modo per distrarre l’opinione pubblica mondiale dai crimini di guerra. Sul suo blog Hyperallergic la curatrice della Kyiv Critics’ Week Daria Badior descrive meccanismi più nascosti di colonialismo culturale: per esempio sulla tendenza a chiamare “russi” tutti gli artisti del passato, compresi quelli della famosa avanguardia, nonostante fossero spesso georgiani, ucraini o estoni; e sulla tendenza, consolidatasi negli anni dell’Urss e durata fino alla vigilia dell’invasione della Crimea del 2014, ad avvantaggiare gli artisti formatisi a Mosca rispetto agli altri.

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Il boicottaggio può colpire anche gli artisti russi che hanno esplicitamente contrastato la politica di Putin, come è accaduto a Londra lo scorso maggio. L’ottica “post-coloniale” spiega anche la vitalità della cultura ucraina intravista a Leopoli come necessità di affermare la propria esistenza artistica e culturale, recuperando il tempo perso e impadronendosi di ogni spazio disponibile. Se esiste la decolonizzazione, è perché esiste o è esistito un impero; e, se esiste un impero, esiste una cultura che lo sostiene. Non c’è impero senza cultura. L’Ucraina mette in crisi un giudizio radicato in tutto l’Occidente: che la cultura, in quanto bellezza, sia altro dalla politica e perciò intoccabile.

Ma nell’Ucraina in guerra da quasi due anni Dostoevskij e Čajkovskij sono ancora vivi, perché danno scandalo e fanno discutere, suscitano imprecazioni, mentre i versi di Franko e Ševčenko sono citati con deferenza. Il legame fra politica e cultura che noi percepiamo come anacronistico o comunque astratto qui è concreto e presente. Quel legame, però, in fondo è attivo anche quando si rimuovono o abbattono le statue di Cristoforo Colombo per rimuovere il colonialismo. E lo è stato in modo particolare in Italia dove l’arte e la storia, nel bene e nel male, sono state più connesse che altrove. Dall’Aida al Nabucco di Verdi, molta musica del Risorgimento è stata politica.

Elena Nieddu
Elena Nieddu

Giornalista, vive a Genova. Ha lavorato per Avvenire, Repubblica e per Il Secolo XIX. Collabora con le testate Credere e Jesus dei Periodici San Paolo. Per Ensemble Edizioni ha pubblicato la raccolta di racconti Senza pelle. Studia fotografia presso la scuola The Soul and The Machine di Nausicaa Giulia Bianchi.

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