L’anno con più elezioni della storia

«Il fatto che anche le autocrazie sentano la necessità di organizzare rappresentazioni elettorali mi sembra dimostri che l’idea di democrazia se la passi ancora piuttosto bene, anche se la sua pratica può attraversare momenti di difficoltà. Ma i sondaggi raccontano di un vantaggio dei conservatori diffuso. Perché, nonostante la diversità nella politica dei diversi paesi, la destra è così forte ovunque?»

Preparativi per il trasporto di scrutatori e presidenti nei rispettivi seggi elettorali. 18 aprile 2024, Alipurduar, Bengala occidentale, India (Elke Scholiers/Getty Images)
Preparativi per il trasporto di scrutatori e presidenti nei rispettivi seggi elettorali. 18 aprile 2024, Alipurduar, Bengala occidentale, India (Elke Scholiers/Getty Images)

Alla fine di quest’anno avranno votato circa due miliardi di persone, il numero più alto mai raggiunto nella storia. Il 2024 sarà l’anno elettorale più intenso di sempre. In alcuni casi, come avvenuto in Russia, saranno solo delle celebrazioni di un leader indiscutibile, ma nella maggioranza dei casi le elezioni condizioneranno in maniera significativa le traiettorie dei rispettivi paesi come accadrà per esempio con le spettacolari elezioni politiche indiane, che sono cominciate il 19 aprile e dureranno fino all’1 giugno, per far votare quasi un miliardo di persone.

– Leggi anche: Perché le elezioni in India durano 44 giorni

Dico “condizionare” e non “determinare” perché più avanzata è la democrazia, più le elezioni sono soltanto una delle forme attraverso cui si distribuisce il potere e si orientano i futuri. Il fatto, però, che anche le autocrazie sentano la necessità di organizzare rappresentazioni elettorali mi sembra dimostri che l’idea di democrazia se la passa ancora piuttosto bene, anche se la sua pratica può attraversare nel tempo momenti di difficoltà.

La nostra attenzione è concentrata soprattutto sulle prossime elezioni americane e su quelle per il parlamento europeo. Ma l’era dell’interdipendenza è così avanzata ormai che tutte le elezioni ci riguardano. Ce l’hanno mostrato l’esperienza del Covid o la guerra in Ucraina, in poche settimane eventi accaduti in province lontane hanno influenzato la nostra salute, la nostra economia, le nostre bollette della luce. E viceversa, naturalmente.

– Leggi anche: Ventisette. La newsletter per capire cosa succede – in Europa – prima e dopo le elezioni europee di giugno

Tutte le elezioni poi possono portare con sé delle sorprese. La più recente è stata la vittoria dell’opposizione turca in importanti elezioni locali, comprese quelle per il governo della città più importante, Istanbul. Il presidente turco Erdogan ha riconosciuto la sconfitta, smentendo l’opinione di chi considera la Turchia destinata necessariamente a una deriva autocratica. Già per de Tocqueville l’accettazione della sconfitta è il cuore della democrazia perché riconosce alla minoranza la possibilità, prima o poi, di diventare maggioranza.

La sorpresa del risultato turco nasceva da un difetto di comprensione della Turchia, che ha mostrato di essere una società complessa, articolata e dinamica dove la democrazia può essere nutrita e perfino difesa. In ogni democrazia è il dinamismo di cittadini e cittadine a sostenere centri di potere molteplici e diversi dallo Stato, da quelli politici locali a quelli economici a quelli associativi e sindacali. Questi poteri si bilanciano in modo che i naturali conflitti interni alle società possano svolgersi senza traumi eccessivi, proprio perché si manifestano, tra l’altro, soprattutto durante le elezioni. Le elezioni riflettono questo dinamismo e pluralismo, mostrandoci gli anticorpi reali alle spinte autocratiche (che certamente in Turchia sono presenti).

I conflitti politici interni di questo anno elettorale – da quello turco a quello americano, a quello all’interno dei diversi stati europei – sono molto diversi tra loro, sempre di più. A trent’anni dall’inizio della globalizzazione, si sta verificando un fenomeno imprevisto. Mentre i consumi economici e culturali tendono ad assomigliarsi ovunque, mentre le vicende che condizionano le nostre vite quotidiane sono sempre meno nazionali e sempre più globali (dalle crisi, al Covid, alle guerre), mentre frequentiamo in modo abitudinario il resto del mondo anche senza viaggiare (ma moltissimi viaggiano), i nostri sistemi politici tendono a differenziarsi sempre di più.

È un paradosso perché quando il mondo era più chiuso la lotta politica aveva contorni molto più simmetrici: da un lato gli operai e i dipendenti pubblici, dall’altro i padroni delle fabbriche e i borghesi. La destra contro la sinistra più o meno ovunque. Oggi invece la diversità dei sistemi politici salta agli occhi, soprattutto nelle democrazie più consolidate. In ogni paese dominano temi diversi, partiti diversi, e le famiglie politiche continentali o internazionali sono sempre meno rilevanti. Il grande paradosso dell’anno elettorale è che questo avviene proprio nell’epoca della globalizzazione che tutto doveva appiattire.

Ma nonostante queste differenze, le osservazioni, i sondaggi e le analisi raccontano di un vantaggio dei conservatori diffuso. Chi non si considera di destra affida le sue speranze alla leadership dell’ottantunenne Joe Biden che ha il compito di sconfiggere nuovamente Donald Trump, e al momento appare difficile. In Europa, una maggioranza conservatrice del parlamento europeo sembra probabile, e sarebbe la prima volta. Perché, nonostante la diversità nella politica dei diversi paesi, la destra è così forte ovunque?

Credo che la ragione chiave, strettamente materiale, abbia a che fare con gli interessi che confliggono all’interno delle nostre società. Per coglierla, si può partire dall’elezione vinta da Trump contro Hillary Clinton nel 2016. In quella occasione successe qualcosa di rilevante: gli elettori conservatori votarono Trump nonostante l’opposizione di leader repubblicani importanti, che vedevano in lui caratteristiche contrarie ai valori tradizionali del partito. La stessa capacità di allinearsi al o alla leader forte di turno si è poi manifestata nel Regno Unito, dove gli elettori conservatori non hanno avuto problemi a sostenere i brexiters radicali, anche se in passato avevano votato no al referendum. La stessa cosa è accaduta in Italia dove gli elettori di orientamento conservatore sono passati senza batter ciglio da Berlusconi a Salvini a Meloni. La parte di società conservatrice è sempre molto compatta alle urne. Significa che i loro interessi sono facili da allineare.

– Leggi anche: “Ogni quattro anni”. Il nuovo numero di Cose spiegate bene

Al contrario, nel campo progressista gli interessi si allineano solo in presenza di un supernemico – come è accaduto in Francia con Jean-Marie, prima, e Marine Le Pen poi, in Italia nel 2006 con Silvio Berlusconi sconfitto da Prodi o negli Stati Uniti nel 2020 contro Donald Trump, quando ha perso da presidente in carica. Senza una forte ragione “contro”, gli elettori progressisti preferiscono che vincano i conservatori piuttosto che votare un leader non gradito.

Sui giornali italiani questo fenomeno si riduce spesso a una soap opera per iniziati, raccontata attraverso simpatie, antipatie, tradimenti. Andiamo in cortile e leggiamo che se PD, M5S e centristi si unissero, in Italia il centrodestra perderebbe. E a sommare gli elettori sembrerebbe vero. Ma la mancata alleanza tra chi non è conservatore non dipende solo dalle responsabilità dei leader o da ragioni personalistiche. Infatti colmare le differenze tra gli interessi dei gruppi sociali rappresentati da queste tre aree politiche non è facile come unire gli interessi dei conservatori.

Negli anni ’90, quando il centrosinistra vinceva più o meno ovunque, una maggioranza progressista era assicurata dal fatto di tenere insieme il mondo del lavoro dipendente con le professioni più dinamiche, spesso molto liberal nei valori. Ovviamente, serviva un leader capace di articolare una proposta nazionale convincente: Romano Prodi, Tony Blair, Gerhard Schröder, José Zapatero erano molto diversi tra loro, ma leader quasi inevitabili, naturali, di una coalizione di persone che era già composta nella società prima ancora che nella politica. La differenza è che oggi alle componenti del lavoro dipendente e dinamico se ne è aggiunta una terza, quella della classe media impoverita e dei suoi figli, ormai adulti. È il gruppo più frustrato, che dal 2008 in poi ha pagato molti costi delle crisi e che si sente, spesso a ragione, “tradito” dal sistema, o se volete tradito dal proprio paese.

Tenere insieme gli interessi di questi gruppi non conservatori e le loro priorità non è certo impossibile, ma è molto difficile. In sintesi, occorre: compensare chi ha meno di quel che ha bisogno (per esempio con il reddito di cittadinanza); favorire la crescita e aumentare le opportunità (ad esempio con liberalizzazioni); terzo, rafforzare lo stato sociale (scuola, sanità, etc.). Sono obiettivi che facilmente divergono per le limitate risorse a disposizione, e perché si basano su filosofie di fondo diverse. A ben guardare, rappresentano la tensione inevitabile tra libertà, uguaglianza e solidarietà (fraternità) – gli ideali della Rivoluzione francese da cui la modernità è cominciata.

Trovare concrete misure di compromesso, capaci di tenere tutto assieme, non è facile. Le soluzioni non sono immediate e hanno bisogno di prospettiva, in assenza della quale emergono solo le contraddizioni e i conflitti e gli obiettivi di breve termine. Un seggio in più, un punto percentuale in più, un altro giro in parlamento.

Certamente non si possono colmare queste differenze con proposte estemporanee, strizzate d’occhio nostalgiche o con furbizie comunicative attraverso candidature “simboliche”. Non si possono neppure costruire proposte politiche che vogliano raggiungere la maggioranza rimanendo schiacciati dalla polemica quotidiana. Una buona parte degli elettori pensa che i cambiamenti degli ultimi vent’anni non siano stati affatto positivi. Quindi offrire una prospettiva di cambiamento e progresso convincente necessita di molta integrità e credibilità.

La destra conservatrice non ha lo stesso problema. L’attuale contesto economico conduce in maniera automatica alla crescita della disuguaglianza e frammentazione delle nostre società. Per difendere gli interessi più forti, quindi, basta fare il meno possibile e sfruttare il senso di spaesamento e paura generato anche dalle disuguaglianze e dalla frammentazione.

Al contrario, in assenza di veri luoghi di discussione, nel dominio dell’orizzontalità delle opinioni, in assenza di organizzazione, i conflitti all’interno della parte progressista delle nostre società sono destinati ad aumentare, ed è infatti quel che avviene pressoché ovunque, in Europa come negli USA. L’unico paese in cui il centrosinistra sembra destinato a vincere nel 2024 è il Regno Unito che – lo ha raccontato bene Sam Knight in un articolo sul New Yorker – è stato messo in ginocchio da quattordici anni di governo conservatore.

Marco Simoni
Marco Simoni

Vive a Roma, è un economista politico con esperienze accademiche, di management e di governo. Autore di saggi di economia politica e collaboratore di diversi giornali, ha curato (con Chiara Albanese) il podcast Politics del Post.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su