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  • Martedì 31 ottobre 2023

Le contraddizioni sul clima in un panino

All'ultima conferenza sul clima dell'ONU quelli vegetariani non erano previsti, racconta Ferdinando Cotugno sulla rivista L'Integrale

Partecipanti alla COP27 di Sharm El Sheikh in fila per mangiare qualcosa, il 9 novembre 2022 (Sean Gallup/Getty Images)
Partecipanti alla COP27 di Sharm El Sheikh in fila per mangiare qualcosa, il 9 novembre 2022 (Sean Gallup/Getty Images)
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Tra circa un mese inizierà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, la 28esima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP28), la nuova riunione della comunità internazionale per cercare di portare avanti le iniziative di contrasto al riscaldamento globale. Le COP sono grandi eventi in cui le relazioni politiche internazionali si incrociano con gli interessi economici di grandi settori industriali, le lotte per i diritti di tante comunità umane penalizzate, la difesa degli ecosistemi naturali e le preoccupazioni per la sopravvivenza della specie umana a lungo termine. Per questo hanno al loro interno grandi contraddizioni: tra tante, il fatto che è difficile fare pasti vegetariani, cioè con un minore impatto ambientale, mentre le si frequenta.

Lo ha raccontato il giornalista Ferdinando Cotugno sull’ultimo numero di L’Integrale, una rivista-libro dedicata al cibo, al vino e alla cultura attorno a queste due cose, che esiste dal 2020, raccoglie reportage e saggi di approfondimento e da giugno è pubblicata da Iperborea, già casa editrice di The Passenger e di Cose spiegate bene del Post. Pubblichiamo un estratto dell’articolo.

***

«Avete qualcosa di vegano?»
«Only chicken or turkey, madame, cioè o pollo o tacchino.»
«Vegetariano?»
«Chicken or turkey.»
«Avete verdure, qualcosa che venga dalle piante, qualcosa di agricolo, qualsiasi cosa? Senza glutine? Senza lattosio?»

Il ragazzo egiziano dietro la cassa, in camicia bianca e sguardo implorante, risponde la stessa cosa, ma molto più piano, come se la lentezza, e scandire meglio le due parole inglesi nel suo accento arabo, potessero aiutare la comprensione, la comunicazione o almeno a sveltire la fila, salvare la giornata, farlo arrivare integro alla fine di queste due angoscianti settimane in cui deve servire da mangiare alla clientela più ansiosa, ansiogena, complicata e frettolosa del mondo.
Chicken. Or. Turkey.

Alla fine della trattativa la maggior parte si accontenta di una barretta di cereali e una bottiglia d’acqua. Alle spalle di ognuna di queste negoziazioni c’è una coda di un centinaio di persone: hanno tutte fretta, hanno tutte fame e hanno tutte un regime alimentare cesellato negli anni a colpi di esclusioni etiche e nutrizionali, la dieta come progetto personale preciso e non negoziabile, un caleidoscopio di tratti identitari che per due settimane, le due settimane dell’anno in cui quell’identità è più importante, deve passare attraverso la strettoia binaria che il ragazzo arabo in camicia bianca può offrirti: chicken or turkey? È solo il primo giorno, davanti a lui e ai suoi roll freddi al pollo c’è la clientela più scrupolosa del mondo dal punto di vista alimentare. Lui è solo un ragazzo reclutato dal governo del suo paese per un lavoro faticoso, ma in teoria elementare: dare panini, prendere soldi. Non aveva idea di cosa lo aspettava.

Da qualche anno frequento come giornalista le Cop: sono le conferenze delle parti organizzate dall’Onu per mettere nello stesso centro congressi di una città del mondo a rotazione i governi, le organizzazioni ambientaliste, gli attivisti per i diritti degli indigeni, gli industriali e i lobbisti, per trovare un percorso condiviso tra oltre 190 paesi sulla riduzione delle emissioni di gas serra che riscaldano il mondo, e salvarlo dal collasso ecologico. Sono congressi ciclici e cerimoniali su quell’apocalisse in slow motion che chiamiamo crisi climatica. Le Cop sono di fatto le riunioni di condominio del mondo per evitare che il palazzo globale crolli.

Per la rapida trasformazione della società chiesta dalla scienza del clima si parla tantissimo di cambiare la grande caldaia globale, facendola passare dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, ma c’è anche il problema della grande dispensa del mondo. Per abitudine, sintesi e comodità associamo il problema “fine del mondoˮ alla produzione di energia, ai trasporti, al riscaldamento degli edifici, al petrolio, al gas e al carbone, ma una parte non trascurabile del disastro deriva dai nostri sistemi alimentari, oggi basati su agricoltura industriale e allevamenti intensivi. Le stime dicono che tra il 20 e il 30 per cento delle emissioni climalteranti hanno a che fare con quanto il nostro pranzo o la nostra cena attingono da queste produzioni insostenibili.

Nonostante ciò, una parte non trascurabile del tempo che questi quarantamila delegati trascorrono a risolvere la crisi climatica viene speso in una fila di circa un’ora, al termine della quale dovranno scegliere se far finire il mondo col pollo o farlo finire col tacchino. La prima Cop dell’Onu sul clima si è svolta a Berlino nel 1995, l’ultima (la numero 27) a Sharm el-Sheikh, in Egitto: si è tenuta a novembre del 2022 ed era quella delle file infinite e del ragazzo arabo. La prossima sarà a novembre 2023 a Dubai, negli Emirati Arabi, e non promette né file più brevi (i delegati non fanno che aumentare) né panini più adeguati. Nel corso dei decenni, questo tipo di eventi sono cresciuti in ambizione, in eco mediatica, in interesse collettivo, ma anche in assurdità.

Una delle più vistose di questi eventi è appunto il cibo servito ai delegati: cosa si mangia, come lo si mangia, quanto costa. Il catering delle Cop è diventato col tempo una questione politica e allo stesso tempo un piccolo teatrino dell’assurdo. Voi lo mettereste un banco tabacchi a un convegno sulle malattie polmonari? (…)

Nelle precedenti Cop il problema politico del catering era stato smorzato dal fatto di essere organizzate in città più o meno grandi, e la curva di apprendimento dei delegati era stata più o meno la seguente: dal secondo giorno basta costose schifezze ottenute dopo file di ore, facciamo la spesa in città e la risolviamo con la schiscetta: a Glasgow erano stati giorni gloriosi per i minimarket multietnici. (…)

Dopo un negoziato tra Onu ed Egitto dietro le quinte (in questo caso velocissimo, a differenza di quello generale sul clima), alla fine della prima settimana tutti i prezzi sono stati dimezzati d’ufficio, e qua e là sono apparsi nuovi stand messi insieme chissà come e chissà da chi, dalla pizza ai ramen, fino al più ambito e desiderato: un posticino che serviva hamburger, anche vegani. È stato un fiotto di speranza, che si è diffuso come un bisbiglio sempre più forte, tra newsletter e passaparola spontaneo, e ha prodotto, per il panino al sapore pollo, una fila lunga quasi come quella creata dall’arrivo di Barack Obama a Glasgow nel 2021.

La speranza si è tradotta però in un cruento psicodramma, ho visto una ragazza quasi scoppiare a piangere perché nel caos del servizio (sempre ragazzi egiziani, giovani, inesperti, buttati nella ressa) si era prodotta una certa confusione tra le ordinazioni, e in quella confusione era facile servire pollo vero, cioè un animale che un tempo era stato vivo e che poi era stato macellato, a una persona che da anni segue un regime antispecista. L’ho assaggiato, quel panino incriminato, per dovere di cronaca, diciamo, ed era indubitabilmente pollo vero. Se volevano fornire una specie di rappresentazione teatrale esatta e realistica del greenwashing, ci erano riusciti alla grande.