Anche l’industria del cinema si riconverte alla guerra

In Israele, e in misura minore l'anno scorso in Ucraina, le competenze delle maestranze sono state sfruttate per le operazioni militari

Un momento delle riprese di “Fauda” nel 2019. (AP Photo/Oded Balilty)
Un momento delle riprese di “Fauda” nel 2019. (AP Photo/Oded Balilty)
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Dal giorno successivo all’attacco di Hamas in Israele le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno ordinato la chiusura dei cinema, l’interruzione di tutte le produzioni cinematografiche e televisive e la fine anticipata dell’Haifa Film Festival, per consentire la riorganizzazione del settore audiovisivo a supporto delle operazioni militari e della copertura informativa della guerra.

Quanto successo in Israele è una versione più estesa e organizzata di un fenomeno che si era già osservato un anno e mezzo fa in Ucraina, subito dopo l’invasione russa. Oltre alla mobilitazione dei riservisti e di quelle che vengono definite industrie pesanti, dedicate all’estrazione e trasformazione delle materie prime, furono coinvolti in diverse operazioni legate al conflitto anche i lavoratori del cinema e della tv, sfruttati per le loro capacità di risolvere problemi in tempi stretti, di adattarsi ai cambiamenti improvvisi e di muoversi sul territorio, oltre che per le loro competenze tecniche e per la disponibilità di attrezzatura.

Il presidente dell’associazione produttori israeliani (IPAC), Adar Shafran, il 10 ottobre aveva confermato a Screen International che «l’intera industria è ferma» e che tutti quelli che ne fanno parte in modi diversi stavano pensando o alla sopravvivenza personale o al sostegno alle operazioni militari. Il grosso di questa riorganizzazione ha a che fare con la produzione video. Questo include per esempio la produzione di filmati con i familiari delle persone scomparse, da pubblicare online per aiutare gli appelli alla loro liberazione o il recupero dei loro resti, ma anche la documentazione di quello che avviene sul campo e il lavoro per le reti televisive straniere e nazionali, che in buona parte si sono riconvertite in canali di notizie sospendendo la programmazione che non riguarda l’informazione.

Nei giorni successivi all’attacco di Hamas registi, attori, produttori e tutte le figure che lavorano in una troupe e che non sono riservisti dell’esercito sono stati impegnati in questo genere di operazioni. Si tratta in tutto di circa 2.000 persone, sempre secondo Shafran.

L’industria del cinema e della televisione infatti è caratterizzata da una capacità di organizzazione della logistica, oltre che da una reattività e una rapidità, che molti altri ambiti non possiedono, e questo per via della struttura fortemente gerarchica dei set e delle condizioni in cui si trovano di solito a lavorare. Cioè in modalità che prevedono una forte attenzione al risparmio di tempo e una spiccata capacità di mobilitarsi con scarso preavviso, visto che spesso il piano di lavorazione dipende da variabili non sempre prevedibili come il meteo.

Il produttore Dganit Barash ha spiegato che nel settore audiovisivo «siamo abituati a questi ritmi, cioè fare le cose adesso, non a partire da domani. Il tempo per noi non è mai un limite». Ha riconosciuto comunque che il tipo di sforzo richiesto in quest’occasione è stato superiore anche alla più impegnativa delle abituali produzioni. Chi prima organizzava e distribuiva i pasti sui set è stato messo a cucinare e a smistare il cibo per le truppe, per esempio. L’approfondita conoscenza che le troupe hanno del territorio e di come arrivare rapidamente nei luoghi più remoti le rende poi particolarmente indicate per la consegna delle scorte o per il trasporto di persone.

In queste operazioni, con varie mansioni, sono stati coinvolti anche talenti noti, specialmente quelli che erano arrivati a lavorare in film o serie di guerra e spionaggio proprio perché avevano avuto una carriera all’interno di gruppi militari. È il caso per esempio di Rotem Shamir, regista di Hostages e Fauda, una serie di grandissimo successo internazionale che racconta di ufficiali dell’intelligence israeliana infiltrati nella striscia di Gaza e ha molti attori con un grosso passato militare. O di attori come Tsahi Halevi (specializzato in ruoli di spionaggio come quelli che interpreta in Fauda, Mossad o Line in the Sand), l’attore cantante Idan Amedi (anche lui con una parte in Fauda) e Lior Raz (uno degli attori più importanti di Fauda, che è anche parte del cast di Il gladiatore 2 di Ridley Scott), arruolati volontari e partiti per il sud del paese.

È stata una mobilitazione massiccia ma anche temporanea: l’industria audiovisiva non può infatti rimanere ferma troppo a lungo. In Israele il settore è in crescita da diversi anni e ha raggiunto un notevole successo. Negli anni della diffusione mondiale dei contenuti televisivi, quindi a partire da metà anni 2000, il settore ha ottenuto una centralità e una potenza che prima non aveva. È diventato inizialmente un bacino di soggetti e storie da acquistare e rifare in diversi paesi, soprattutto negli Stati Uniti, poi ha iniziato anche a esportare le sue produzioni.

Vengono da serie tv israeliane successi come Homeland, In Treatment (rifatta anche in Italia con lo stesso titolo), Hostages, Allegiance, Euphoria e Your Honor (rifatta anche in Italia con il titolo Vostro onore). Sono invece serie tv israeliane che nella loro versione originale hanno trovato un buon successo anche all’estero Fauda (distribuita nel mondo da Netflix), Teheran (distribuita nel mondo da Apple TV+) e Shtisel.

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La riconversione dell’industria audiovisiva a supporto del conflitto (almeno nei primissimi tempi) era stata una caratteristica già della guerra in Ucraina, dove però non esisteva una grandissima produzione di film o serie internazionali ma, oltre alle produzioni locali (da cui notoriamente viene il presidente Volodymyr Zelensky), ne era nata una più nota e attiva per i video musicali.

Nell’aprile del 2022, quindi circa due mesi dopo l’inizio dell’invasione russa, il giornalista Robbie Fraser aveva raccontato come gli scenografi che avevano lavorato ai videoclip dei Muse erano diventati autisti, come i sarti e i costumisti cucissero uniformi e come un gruppo di fonici grazie alle loro particolari competenze di ingegneria erano diventati esperti di esplosivi. E anche lì, come poi sarebbe successo in Israele, le professionalità più abituate a modalità di lavoro dinamiche e impreviste, dotate di una rete forte di relazioni e abituate ad avere a che fare con il territorio, come i produttori e gli assistenti alla regia, erano diventati fixer per produzioni straniere. Un fixer che lavora per documentaristi o troupe televisive di giornalisti è una persona che si occupa di risolvere problemi, fare da interprete e aiutarli a muoversi sul territorio.

Questo non succede invece in Palestina, dove non esiste una vera e propria industria audiovisiva, nel senso di un sistema strutturato che produce con costanza. Esistono solo registi e produttori palestinesi che lavorano e girano film separatamente, come esistono festival e manifestazioni senza però una rete coordinata. L’inizio della guerra ha per esempio interrotto la lavorazione del nuovo film di Annemarie Jacir intitolato All Before You (che racconta la rivolta dei contadini degli anni Trenta contro i colonizzatori britannici). Una foto della regista e della troupe ha confermato che sono al sicuro. È stata rimandata invece a data da destinarsi la decima edizione dei festival Palestine Cinema Days, originariamente prevista dal 24 ottobre al primo novembre.

Adesso, a più di due settimane dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, la prima produzione audiovisiva israeliana ha avuto il permesso per tornare a girare. Perché questo accada però è necessario immaginare e mettere in piedi un piano di lavorazione che rispetti i protocolli fissati dall’esercito israeliano, secondo i quali è vietata l’aggregazione di più di 50 persone al chiuso e di più di 30 all’esterno. Di regola una troupe tende a prevedere un numero di persone superiore. In più la lavorazione deve svolgersi a non più di un minuto da un rifugio che li protegga in caso di bombardamento. Il film in questione è My Private Telenovela, titolo di lavorazione di una commedia di Yohanan Weller su una famiglia di israeliani residenti in Argentina che a sorpresa torna in Israele per far visita ai parenti portando caos e scompiglio.

Contemporaneamente hanno anche riaperto alcune sale cinematografiche, in particolare i cinema del circuito britannico Cinema City nelle città di Gerusalemme, Netanya e Hadera, e altri del circuito Planet (ma a orari limitati, fino alle 21). Tra i film programmati ci sono quelli che erano previsti, come alcuni successi locali e, al pari dei cinema di tutto il mondo, Taylor Swift: The Eras Tour. A non essere proiettati sono invece film dai temi più vicini al conflitto con la Palestina come The Vanishing Soldier o Victory, che prima dell’inizio della guerra erano in programmazione. Il fondatore e proprietario della catena Cinema City Moshe Edery ha detto: «Sono ottimista, credo che torneremo a produrre e distribuire film come sempre. Dobbiamo muoverci con cautela, perché ci vorrà un po’ per il pubblico israeliano per rimettersi da questa tragedia, ma siamo resilienti e ce la faremo».

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