Vittorio Camardese non suonava la chitarra come gli altri

Grazie ai pochi video che ci sono arrivati, da alcuni anni è stata riscoperta la pionieristica tecnica di un timido radiologo lucano

di Giuseppe Luca Scaffidi

Nel 2013 il musicista e cantautore Roberto Angelini caricò un video sul suo canale YouTube con l’intenzione di «farlo vedere a pochi amici». Si trattava di uno spezzone di Chitarra amore mio, trasmissione che andò in onda sulla rete Secondo Programma – l’attuale Rai 2 – nell’estate del 1965. L’ospite della puntata era Vittorio Camardese, un chitarrista autodidatta che lavorava come medico all’ospedale San Filippo di Roma. Ai tempi il suo nome era noto soltanto a una nicchia molto ristretta: negli anni Cinquanta e Sessanta suonava spesso in alcuni locali romani frequentati da musicisti e appassionati di jazz, come il Folkstudio e il Music Inn.

In quegli ambienti era entrato in contatto con diversi addetti ai lavori che avevano avuto modo di apprezzare il suo stile, come il cantautore e autore televisivo Renzo Arbore, il pianista e compositore Romano Mussolini, il chitarrista brasiliano Irio De Paula e il trombettista jazz americano Chet Baker, con cui convisse per qualche mese in un appartamento nella zona settentrionale di Roma. Arnoldo Foà, il conduttore del programma, lo aveva invitato perché aveva sentito parlare di una «tecnica speciale» che Camardese aveva ideato e perfezionato nel corso degli anni.

In effetti, il suo modo di suonare era bizzarro e molto poco convenzionale per i tempi: mentre tutti i chitarristi pizzicavano le corde con la punta delle dita o le facevano vibrare utilizzando un plettro all’altezza della cassa, usando la mano destra (o la sinistra nel caso dei mancini), Camardese la usava per picchiettare con le dita direttamente sul manico. Utilizzava, insomma, una tecnica molto simile a quella che oggi viene chiamata “tapping”, che fu resa celebre dal chitarrista Eddie Van Halen alla fine degli anni Settanta e che avrebbe rappresentato un elemento centrale della tecnica dei virtuosi della chitarra elettrica degli anni Ottanta.

In quell’occasione, Camardese suonò due pezzi: un mambo e uno degli standard jazz – come vengono chiamate le composizioni che, negli anni, diventano parte del repertorio comune dei jazzisti – più famosi, “All of me”.

Foà rimase colpito dall’esibizione: la sua tecnica gli permetteva di eseguire, al contempo, sia le parti melodiche che quelle ritmiche, dando quasi  l’illusione di suonare due chitarre contemporaneamente. Camardese utilizzava la mano sinistra per premere i tasti corrispondenti agli accordi, e con la destra, invece che far vibrare una o più corde all’altezza della buca della cassa acustica, si muoveva sulla tastiera applicando una forte pressione sui tasti e aggiungendo in questo modo delle linee di basso e altre soliste.

Il video colpisce da anni chi lo vede anche per la ritrosia di Camardese, che racconta al conduttore Foà di aver dovuto chiedere un permesso speciale al suo primario per poter partecipare alla trasmissione. «Dicono di sì, io non lo so, ho sempre suonato in questo modo» dice un po’ titubante Camardese quando Foà gli chiede conto dell’unicità del suo stile alla chitarra. «Non conosco la musica», ammette quando gli viene chiesto se abbia studiato o se sia autodidatta. «Non conosce nessuno che adopera questa tecnica?» gli chiede Foà. «Mah, in verità no, è una tecnica così mia» risponde Camardese.

Angelini, che dal 2013 dirige e suona la chitarra nella band che accompagna le trasmissioni di Diego Bianchi Gazebo e Propaganda Live, aveva sentito parlare di quell’ospitata televisiva da sua madre, che sposò Camardese quando lui aveva tre anni: «Per me è stato come un padre: se ho sviluppato una certa sensibilità verso la musica, il merito è soprattutto suo», racconta. «Nessuno suonava la chitarra come lui: aveva un modo di approcciare lo strumento inimitabile e totalmente istintivo, tipico di quegli autodidatti un po’ geniali».

Qualche giorno dopo il video fu caricato sulla piattaforma da un altro utente, che scelse di dargli un titolo diverso: «Van Halen did not invent tapping» (Van Halen non ha inventato il tapping, ndr). «La riscoperta di Camardese come chitarrista è partita da lì, da quel titolo un po’ provocatorio», dice Angelini. «Titolare il video in inglese e soprattutto citare Van Halen, un chitarrista che ha fatto del tapping la sua cifra distintiva, ha facilitato moltissimo la sua diffusione: è diventato virale in un attimo». Il video ottenne centinaia di migliaia di visualizzazioni in pochi giorni e diversi chitarristi di fama internazionale, come Brian May, Steve Lukather, Joe Satriani e Guthrie Govan, lo condivisero sui loro profili social.

Angelini racconta che trovare il filmato non fu semplice: «Non ringrazierò mai abbastanza Igor Skofic: ai tempi lavorava come regista del programma Gazebo, e di conseguenza aveva libero accesso alle Teche Rai [l’archivio storico che raccoglie il materiale prodotto dall’azienda nel corso degli anni, ndr]. Per riuscire a trovarlo ha dovuto impegnarsi molto: se siamo riusciti a sottrarre questo musicista dall’oblio, il merito è anche suo».

Grazie al successo del video, negli ultimi anni Camardese ha acquisito la fama di “inventore del tapping”. In realtà stabilire con certezza le origini di questa tecnica è un’impresa difficile, soprattutto se inserita nel contesto più ampio degli strumenti a corde, e non solo della chitarra. Sappiamo infatti che, già negli anni Trenta, il musicista country statunitense Roy Smeck utilizzava un  metodo simile sull’ukulele, picchiettando le corde al manico per suonare le parti melodiche.

Anche il musicista country Kenneth Carllile è riconosciuto come uno dei precursori del tapping. Suonava la chitarra in un modo unico, posizionandola sulle ginocchia e pigiando sui tasti, un po’ come se si trattasse di un pianoforte.

Negli anni Quaranta la tecnica fu perfezionata da Harry DeArmond, un liutaio statunitense specializzato nella costruzione di pick-up (i dispositivi che convertono le vibrazioni delle corde di una chitarra o di un basso in impulsi elettrici). Verso la metà del decennio successivo, il chitarrista e artigiano statunitense Dave Bunker cominciò a progettare uno strumento che gli permettesse di suonare percuotendo le corde con entrambe le mani, senza la necessità di pizzicarle o utilizzare il plettro. Il risultato fu la cosiddetta “Duo–lectar”, una chitarra a doppio manico ideata a questo scopo, che Bunker mostrò per la prima volta al pubblico nel 1960, durante una puntata del programma Ozark Jubilee.

Prima di Bunker un altro chitarrista statunitense, Jimmie Webster, aveva pubblicato un manuale illustrato in cui spiegava come utilizzare in modo dettagliato una tecnica simile al tapping, da lui definita “Touch System”: era intitolato Touch System for Electric and Amplified Spanish Guitar, ma non ebbe una grande diffusione.

Dopo essere stato usato tra gli altri da Steve Hackett dei Genesis degli anni Settanta, con Van Halen il tapping si affermò come tecnica prediletta di quei chitarristi elettrici che negli anni Ottanta puntavano sul virtuosismo e sulla velocità di esecuzione negli assoli. Questo perché permetteva sostanzialmente di suonare molte più note nello stesso tempo, aggiungendo una mano a quelle che premono i tasti sulla tastiera. “Eruption” dei Van Halen fu probabilmente il pezzo che consacrò la tecnica, aprendo la strada a una generazione di chitarristi, come Steve Vai e Joe Satriani, che sul tapping fondarono lo “shred”, un genere di scarsa importanza per la storia del rock ma apprezzatissimo dai chitarristi impallinati con la difficoltà di esecuzione degli assoli.

Le radici di quello che oggi definiamo tapping, in ogni caso, potrebbero essere antichissime. Ad esempio, una tecnica molto simile, chiamata “şelpe”, è molto radicata nella tradizione della musica popolare anatolica: in una ricerca pubblicata nel 2019 Eray Altinbuken, docente di composizione musicale presso la İstanbul Teknik Üniversitesi, sottolinea come alcune comunità pastorali dell’Asia Centrale e del Medio Oriente la utilizzassero per suonare la baglama, uno strumento appartenente alla famiglia del saz (un gruppo di liuti a manico lungo). Altinbuken spiega anche che, a sua volta, il şelpe rappresenta l’evoluzione di una tecnica che era stata utilizzata dai membri della comunità nomade turca Yörükm: la chiamavano “parmak vurma” (che, non a caso, significa toccare con le dita). C’è anche chi fa risalire le origini di questa tecnica al compositore italiano Niccolò Paganini, che applicava un principio simile sul violino, percuotendo le corde con l’archetto.

Insomma: nonostante la mitologia che è stata costruita attorno alla figura di Camardese, stabilire chi sia stato l’effettivo inventore del tapping è complesso, e probabilmente anche inutile. Gli strumenti a corde esistono da molti millenni, ed è normale che le persone nel tempo e nel mondo li abbiano suonati nei modi più diversi, per ottenere suoni disparati e arrivando per strade diverse allo stesso tipo di soluzioni tecniche e compositive. È probabile, insomma, che a modi di suonare la chitarra che oggi possiamo ricondurre al tapping siano arrivate nel corso della storia molte persone diverse, spesso indipendentemente tra di loro.

Forse Camardese era una di queste, oppure potrebbe aver avuto qualche forma di ispirazione più o meno consapevole. «Una delle possibilità, ma non la più probabile, è che abbia preso spunto dalla fisarmonica, uno strumento che aveva imparato a suonare da bambino» racconta Vania Cauzillo, regista di Il mondo è troppo per me, un documentario dedicato alla vita di Camardese, prodotto dalla casa di produzione Jump Cut e presentato quest’anno durante il festival cinematografico Seeyousound. Concorda anche il musicologo Dinko Fabris: «La fisarmonica è uno strumento che racchiude in sé un intero gruppo musicale: la melodia, l’armonia e anche il ritmo, dato che il gesto di aprire e chiudere lo strumento crea un effetto “percussivo”. E, alla fine, Camardese cercava di ricreare sulla chitarra qualcosa di simile», spiega.

L’ipotesi più probabile, però, è che Camardese abbia appreso le basi della sua tecnica frequentando le botteghe artigiane di Potenza, la città in cui nacque il 6 luglio del 1929 e in cui trascorse la sua adolescenza. In particolare, potrebbe avere avuto l’intuizione di picchiettare le corde osservando un modo di suonare per via di una consolidata tradizione nel Sud Italia, specialmente in Sicilia ma non solo. Era comune infatti che le botteghe dei barbieri fossero luoghi di ritrovo in cui si svolgevano varie attività sociali, e in particolare in cui si suonava e si cantava. «Negli ultimi anni, in ambito accademico, sono stati realizzati alcuni studi preliminari che provano a esaminare il ruolo che i barbieri hanno avuto nella diffusione della musica popolare: tra il Quattrocento e il Cinquecento non era raro che questi artigiani suonassero uno strumento, spesso in modi eccentrici e particolari, e in alcune regioni del Sud Italia questa tradizione è rimasta intatta fino agli anni Ottanta», spiega Fabris.

Una delle poche ricerche di questo tipo è stata condotta dalla musicologa dell’Università di Padova Camilla Cavicchi: si intitola “Barbieri-musicisti nell’Italia del Quattro e Cinquecento”. Tra le altre cose, Cavicchi scrive che «i barbieri erano spesso liutisti, arpisti, trombonisti, pifferi semi-professionisti, cantori di lauda, poeti, compositori, cantastorie, stampatori di musica e costruttori di strumenti, ed erano coinvolti in un gran numero di attività musicali».

«Nei piccoli centri, i negozi dei barbieri erano un punto di incontro fondamentale», dice Fabris. «Chi voleva imparare i rudimenti di uno strumento, di solito andava lì». Le ricerche relative al ruolo musicale di questi artigiani, finora, si sono focalizzate soprattutto sulla Puglia e sulla Sicilia. «Non sono stati realizzati studi specifici relativi alla Basilicata: tuttavia, l’ipotesi che Camardese abbia imparato a suonare aspettando il suo turno per farsi tagliare i capelli è affascinante e molto suggestiva. Ci permetterebbe di annodare un personaggio così unico e innovativo a una tradizione antichissima».

Se Fabris usa qualche cautela, il chitarrista e studioso di tradizioni lucane Graziano Accinni, una delle persone intervistate da Cauzillo per realizzare il documentario, ha qualche certezza in più. «Quella utilizzata da Camardese è l’evoluzione di una tecnica tipica dei barbieri: quella “alla sampugnara”», dice. La tecnica viene chiamata così perché imita il modo di suonare la zampogna, una specie di cornamusa utilizzata ancora oggi nell’Italia centrale e meridionale. Accinni racconta anche che, per eseguire “la sampognara”, bisognava acquisire un’impostazione molto particolare: «I barbieri, di solito, poggiavano la chitarra sui piedi per mantenerla in verticale. Con la mano sinistra suonavano le diteggiature degli accordi, solitamente il re e il la settima, e con la mano destra andavano a martellare le corde attorno al quinto tasto».

In effetti, Camardese doveva avere presente un’impostazione di questo tipo: in una foto di repertorio lo si vede suonare la chitarra in una posa molto simile a quella descritta da Accinni, peraltro suonando proprio un accordo di re.

Cauzillo dice che realizzare un documentario su una figura come Camardese non è stato facile, perché «c’erano tantissime zone d’ombra». Un primo problema riguardava lo scarso materiale d’archivio: «Camardese è apparso pochissime volte in televisione e di conseguenza, al netto della registrazione del 1965, avevamo pochissimo materiale da mostrare: Il mondo è troppo per me dura quasi un’ora, ma di fatto il protagonista si vede solo per una decina di minuti».

Prima di Chitarra amore mio, Camardese aveva già preso parte a un programma della Rai. Nel 1957, mentre stava studiando per diventare medico, aveva partecipato a una puntata di Primo applauso, un programma simile a quello che oggi definiremmo “talent show”: una gara tra aspiranti intrattenitori, ognuno dei quali si esibiva in una propria specialità (canto, ballo, cabaret, illusionismo e così via). «In quell’occasione riuscì ad aggiudicarsi il primo premio: un televisore. Purtroppo quella registrazione è scomparsa», dice Cauzillo.

Un’altra difficoltà che Cauzillo ha incontrato durante la realizzazione del documentario è stata l’assenza di un repertorio musicale: Camardese non ha mai inciso un disco e non esistono trascrizioni delle sue composizioni, anche perché non imparò mai a leggere la musica. «Resta solo quello che ha lasciato nelle persone che hanno avuto la fortuna di vederlo suonare. Ennio Morricone mi ha raccontato di avergli chiesto di trascrivere quel metodo per farne un libro, ma alla fine non se ne fece nulla», dice. Più in generale, le persone che hanno preso parte al documentario concordano tutte su un punto: Camardese non amava stare al centro dell’attenzione. «Aveva un carattere schivo e, quando possibile, preferiva stare in disparte».

L’estremo senso di riservatezza di Camardese emerge in diversi aneddoti narrati in Il mondo è troppo per me. Ad esempio nell’estate del 1967 accettò di accompagnare un suo amico, il compositore e sassofonista Marcello Rosa, durante le tappe del tour estivo del jazzista americano Lionel Hampton. «Erano diventati inseparabili», racconta Rosa. «Eppure non ci fu verso di vederli suonare insieme».

Cauzillo spiega che «con Il mondo è troppo per me abbiamo provato a descrivere il più grande paradosso della vita di questo chitarrista atipico: pur essendo sconosciuto al grande pubblico, era apprezzato da artisti di fama internazionale». Tra i suoi estimatori c’era anche Chet Baker, che convisse con Camardese per qualche mese e fu spesso suo ospite durante i soggiorni romani: «Suonavano insieme tutta la notte, ci sono delle foto bellissime che li ritraggono insieme», racconta Cauzillo.

Parlando della loro amicizia in una delle scene del documentario, Renzo Arbore, che di Camardese fu amico per molti anni, ricorda come quest’ultimo e Baker si intendessero molto bene, nonostante non parlassero una lingua comune. «“E di cosa parlate?”, gli chiesi. E lui: “Io non so l’inglese, lui non sa l’italiano. Prendo la chitarra e lui mi viene appresso”». In quegli anni lo stesso Arbore si impegnò per far conoscere il suo talento al grande pubblico, invitandolo nelle sue trasmissioni in due occasioni. L’apparizione televisiva più recente risale al 1981, durante una puntata del programma Telepatria International.

Tra i carteggi ritrovati dopo il 2010, l’anno in cui Camardese morì, c’è anche una lettera che gli inviò Chet Baker. Una dedica, scritta su un foglietto e in un italiano un po’ stentato: «Io spero che tu continua a suonare vostra guitare, perchè ha un sacco di talento senza altro».

Dopo aver visto il documentario, Angelini ha provato una sensazione di rammarico: «Poteva diventare famoso anche al di fuori dell’Italia. E invece lo abbiamo conosciuto soltanto post mortem, grazie a un video di pochi minuti caricato su YouTube», racconta. «La cosa divertente è che, probabilmente, se fosse ancora vivo non sarebbe felice della piccola fama che ha ottenuto. L’ho sempre paragonato al pianista sull’oceano e al suo terrore di scendere dalla nave. Aveva paura di molte cose: prendere l’aereo, per esempio, suonare la chitarra elettrica per il timore di prendere una scossa, e anche farsi registrare: quando premevi il tasto “rec” smetteva immediatamente di suonare. Insomma: non so fino a che punto avrebbe apprezzato la celebrità».