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  • Giovedì 21 settembre 2023

Come sta andando con l’aborto farmacologico in Italia

Non bene da quel poco che si sa, tra ritardi, obiezioni di coscienza e linee guida non applicate: lo conferma una nuova ricerca

(Michele Lapini/Medici del Mondo)
(Michele Lapini/Medici del Mondo)
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Sono passati oltre tre anni da quando il ministero della Salute italiano ha emanato le nuove linee d’indirizzo sull’aborto farmacologico, praticato con l’assunzione di due farmaci a 48 ore di distanza l’uno dall’altro – il mifepristone (la RU486, la pillola abortiva) e il misoprostolo – e considerato una pratica sicura ed efficace dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Le linee d’indirizzo hanno introdotto alcuni importanti cambiamenti sull’accesso all’aborto farmacologico: per esempio l’estensione da sette a nove settimane per la somministrazione e la possibilità di effettuarla anche in consultorio e di riceverla in day hospital, senza passare notti in ospedale.

Sapere come stia andando, se e quanto queste regole siano oggi rispettate, è molto difficile: l’ultima raccolta dati del ministero della Salute sull’interruzione volontaria di gravidanza risale proprio al 2020. I dati sono inoltre aggregati per regione e non entrano nello specifico delle singole strutture, come spiegato nell’indagine Mai dati di Chiara Lalli, bioeticista, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista.

Medici del Mondo, associazione che si occupa di assistenza sanitaria e accesso alla salute in vari paesi del mondo, ha cercato di colmare parte di queste lacune con un rapporto che si intitola “Aborto farmacologico in Italia: tra ritardi, opposizioni e linee guida internazionali”, a cura della giornalista Claudia Torrisi. Il rapporto si sofferma su alcune regioni in particolare, dando un quadro generale della situazione e dei principali problemi nell’accesso a questa pratica.

In generale, dice che molte regioni italiane non si sono ancora adeguate alle linee d’indirizzo del ministero, che le obiezioni di coscienza sono ancora tantissime e che ci sono grosse disparità regionali nell’accesso all’aborto farmacologico. Le linee d’indirizzo a cui molte regioni italiane faticano ad adeguarsi sono peraltro già vecchie e superate da nuove indicazioni: a giugno di quest’anno l’Organizzazione mondiale della sanità ha infatti pubblicato nuove linee guida in cui dice che l’aborto farmacologico è sicuro anche entro le 12 settimane e che la pillola abortiva può essere assunta in modo sicuro anche senza la supervisione di un medico. In altre parole: in Italia l’aborto farmacologico non sta andando bene, e dove va tutto liscio succede con criteri e norme che sono già ormai datate.

(Michele Lapini/Medici del Mondo)

Un primo dato contenuto nel rapporto di Medici del Mondo (che può essere scaricato integralmente qui) riguarda la difficoltà di garantire l’aborto farmacologico in consultorio.

È il caso dell’Emilia-Romagna, regione che ha adottato le linee di indirizzo ma che oggi permette l’aborto farmacologico in consultorio solo in alcune delle sue città: dal 2022 è previsto a Parma, Modena e San Giovanni in Persiceto, ma non a Bologna, per esempio. Il motivo sarebbe soprattutto legato alla mancanza di spazi e di personale, un problema che riguarda molte altre regioni italiane. A Bologna l’aborto farmacologico è garantito comunque in ospedale, al Maggiore e al Sant’Orsola, ma con un percorso che inevitabilmente è più medicalizzato di quello in consultorio, che invece è un contesto più libero, familiare, pensato per la salute non solo fisica ma anche psicologica della donna.

La regione che si avvicina di più a garantire l’aborto farmacologico secondo i criteri indicati dalle linee d’indirizzo è il Lazio.

Oltre ad aver reso possibile la somministrazione della RU486 nei consultori, il Lazio è anche l’unica regione italiana che permette di assumere il secondo farmaco (il misoprostolo) a casa propria, come previsto dall’Organizzazione mondiale della sanità. Allo stesso tempo anche in Lazio c’è ancora un tasso piuttosto significativo di obiettori e obiettrici di coscienza: il rapporto di Medici del Mondo cita un’inchiesta del Coordinamento delle assemblee delle donne e delle libere soggettività dei consultori del Lazio secondo cui ginecologi e ginecologhe obiettrici in regione sarebbero ancora il 64 per cento, oltre al 29 per cento del personale con altre funzioni mediche e non mediche e al 14 per cento del personale dei consultori. 

(Michele Lapini/Medici del Mondo)

Ci sono poi regioni in cui le linee d’indirizzo non sono proprio rispettate. È il caso, tra le altre, della Sicilia dove la pillola abortiva è ancora disponibile solo in ospedale, e solo in alcuni casi: a Catania, per esempio, la RU486 non è disponibile in nessun ospedale. A Messina lo è da pochi mesi, e fino a poco tempo fa le pazienti che volevano assumerla andavano a Palermo, a oltre 200 chilometri di distanza. Anche in Sicilia c’è un grosso problema di sottodimensionamento dei consultori e di carenza di personale. Quello presente è quasi tutto obiettore: i ginecologi obiettori sono l’81,6 per cento, il 100 per cento in 26 strutture.

In Sicilia l’accesso all’aborto è un problema anche in ospedale: su 57 reparti di ostetricia e ginecologia solo 31 effettuano l’interruzione volontaria di gravidanza.

– Leggi anche: Come va coi consultori in Calabria

Tutte queste disparità territoriali costringono molte donne a spostarsi non solo tra regioni, ma anche all’interno delle stesse. Secondo le testimonianze raccolte nel rapporto di Medici del Mondo, in Emilia-Romagna vanno per esempio molte donne provenienti da Lombardia e Trentino: lì gli appuntamenti per ottenere la prima pillola hanno liste d’attesa molto lunghe, di diverse settimane, e spesso chi deve assumerla non può aspettare (in Italia, come detto, il limite è 9 settimane, anche se secondo l’OMS potrebbe essere di 12). Il rapporto di Medici del Mondo, in altre parole, conferma un problema che in Italia è noto anche per altri tipi di aborto: la possibilità di accedervi dipende da dove si risiede.

(Michele Lapini/Medici del Mondo)

Ci sono infine regioni in cui il diritto all’aborto farmacologico è formalmente garantito ma viene attivamente ostacolato dalla politica locale.

È il caso del Piemonte, la prima regione italiana per numero assoluto di aborti farmacologici e quella in cui nel 2005 venne avviato il primo studio sperimentale clinico al riguardo, all’Ospedale Sant’Anna. A ottobre del 2020, due mesi dopo la pubblicazione delle linee d’indirizzo del ministero della Salute, l’amministrazione regionale di centrodestra vietò la somministrazione della RU486 nei consultori e finanziò e rafforzò la presenza di associazioni anti-abortiste negli ospedali pubblici tramite “sportelli informativi”. L’anno scorso la regione ha anche stanziato oltre 400mila euro per finanziare altre organizzazioni e associazioni antiabortiste e progetti che diano un (limitato) sostegno economico alle donne affinché non abortiscano, tramite il cosiddetto «Fondo vita nascente».

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