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  • Venerdì 15 settembre 2023

Servirebbe un ministero dell’Immigrazione?

Se ne parla da anni come di una possibile soluzione ai problemi del sistema di accoglienza italiano, che è frammentato e guarda più alla sicurezza che all'integrazione

(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
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L’immigrazione è uno dei grandi fenomeni dei nostri tempi complessi da gestire, che richiederebbero soluzioni in una certa misura radicali, sistematiche. L’Italia e gli altri grandi paesi europei in teoria avrebbero le risorse per organizzarsi e farsi carico degli arrivi, eppure il sistema di accoglienza italiano sta dimostrando da anni di essere inadeguato: in concomitanza con l’aumento delle partenze via mare va in sovraccarico, come sta succedendo in questi giorni a Lampedusa, e sul territorio le strutture non hanno posti a sufficienza.

Al 13 settembre in Italia erano arrivate oltre 113mila persone, quasi il doppio delle 65mila del 2022 e un numero prossimo a superare anche i dati del 2016, l’anno finora più intenso dal punto di vista degli sbarchi.

Non solo il governo attuale ma anche gli altri di questi anni si sono avvitati su se stessi nel tentativo di gestire il fenomeno, e questo si può in parte spiegare con il fatto che l’immigrazione è una questione assai sensibile dal punto di vista politico. Ma ci sono anche ragioni più concrete: il sistema di accoglienza è frammentato e, dato che è di competenza del ministero dell’Interno, l’approccio usato è prevalentemente securitario. A differenza di altri paesi infatti l’Italia non ha un ministero dell’Immigrazione, pur essendo tra i più esposti al fenomeno in Europa per ragioni territoriali. Ciclicamente esperti e analisti ripropongono l’idea di istituire un ente simile, che possa farsi carico di tutte le pratiche legate ai flussi migratori e gestirle con modalità e competenze diverse rispetto a quanto viene fatto ora.

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In Italia il soggetto principale che si occupa di immigrazione è il ministero dell’Interno che, secondo quanto stabilito da un decreto legislativo del 1999, deve tutelare «i diritti civili, ivi compresi quelli delle confessioni religiose, di cittadinanza, immigrazione e asilo». Questo però è solo uno dei compiti del ministero, che tra le altre cose è tenuto a garantire il corretto funzionamento degli enti locali e dei servizi elettorali, tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica e amministrare le articolazioni dello Stato sul territorio, per esempio attraverso le prefetture. Negli anni questa commistione di funzioni ha fatto in modo che l’approccio adottato dai funzionari nei confronti dei flussi migratori diventasse molto attento alle politiche di sicurezza, e meno invece all’organizzazione dei servizi sociali e integrativi necessari per il corretto funzionamento del sistema di accoglienza.

L’immigrazione quindi si è caratterizzata come una questione di sicurezza, che ha poco a che fare con le politiche sociali. Gran parte del lavoro svolto dal ministero dell’Interno nei confronti dei migranti passa infatti attraverso le prefetture, i centri di identificazione (gli hotspot) e quelli per il rimpatrio, mentre le attività di integrazione sono spesso messe da parte o delegate alle associazioni, alle cooperative e agli enti locali.

Non a caso i decreti per la gestione dell’immigrazione approvati nel 2018 dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini si chiamavano proprio decreti Sicurezza e contenevano principalmente misure volte a disincentivare e punire gli sbarchi, un approccio adottato anche dal governo di Giorgia Meloni con il decreto Cutro dello scorso marzo. Peraltro è una tendenza che riguarda anche governi del passato, con altri orientamenti politici. I decreti approvati nel 2017 e voluti dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti del Partito Democratico, affrontavano il grosso aumento nel numero di arrivi cominciato nel 2015 introducendo norme più severe sulle espulsioni e sulla sicurezza.

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L’attribuzione al ministero dell’Interno delle competenze relative all’immigrazione non è una peculiarità italiana. Funziona in modo simile in molti paesi europei, tra cui la Francia e la Germania, e anche a livello comunitario il tema è di competenza della direzione generale per le Migrazioni e gli Affari interni (DG HOME). In Spagna invece fino al 2020 l’immigrazione era di competenza del ministero per il Lavoro, le Migrazioni e la Sicurezza sociale, che il governo del socialista Pedro Sánchez ha poi separato creando il ministero per il Lavoro e l’Economia sociale e quello per la Sicurezza sociale, l’Inclusione e le Migrazioni. In alcuni paesi, come il Canada e l’Australia, esiste invece un vero e proprio ministero dell’Immigrazione. In Francia tra il 2007 e il 2010 fu attivo il ministero dell’Immigrazione, dell’Integrazione, dell’Identità nazionale e dello Sviluppo solidale.

«Fino a quando l’Italia era prevalentemente un paese di emigrazione questi temi erano meno rilevanti e venivano gestiti dal ministero del Lavoro, perché si parlava soprattutto della circolazione di lavoratori», dice Maurizio Ambrosini, docente di processi migratori all’Università Statale di Milano. L’approccio è iniziato a cambiare negli anni Novanta, quando le competenze sono state gradualmente spostate verso il ministero dell’Interno e l’immigrazione «è diventata una questione prevalentemente di sicurezza».

Secondo Ambrosini il ministero dell’Interno ha più strumenti di altri per gestire i richiedenti asilo, per esempio tramite gli uffici delle questure e delle prefetture che sono presenti su tutto il territorio nazionale. Allo stesso tempo però questo modello fa in modo che l’accoglienza dei richiedenti asilo, che dovrebbe essere prevalentemente una questione di politiche sociali, sia gestita da funzionari che non necessariamente hanno «competenze particolari» in quest’ambito. «Non so se un ministero apposito sarebbe la soluzione giusta, ma certamente spostare alcune competenze, come quelle sui rifugiati, nell’ambito del ministero delle Politiche sociali mi sembrerebbe sensato», dice Ambrosini.

Oltre all’approccio, c’è anche un problema apparentemente più banale, di organizzazione burocratica. Le competenze sul sistema di accoglienza italiano sono frammentate e in capo a più enti. Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, per esempio, si occupa di programmare e gestire i flussi di migranti regolari, promuovere il loro coinvolgimento nel mercato del lavoro e coordinare le attività di tutela dei minori stranieri, un altro grande ramo del sistema di accoglienza che segue procedure diverse rispetto a quelle applicate agli adulti. Il ministero dell’Istruzione deve gestire l’inserimento nelle scuole italiane di studenti stranieri, soprattutto se sono nell’età dell’obbligo (meno di 16 anni), mentre il ministero degli Esteri contribuisce a negoziare gli accordi internazionali sui rimpatri.

L’accorpamento di tutte queste competenze potrebbe quindi semplificare e rendere più organiche le procedure, ma presenta anche alcuni rischi. Enrico Gargiulo, docente di Politiche dell’integrazione e cittadinanza locale all’Università di Bologna, dice che si potrebbe «creare l’impressione che l’immigrazione sia un mondo a parte, una realtà eccezionale che va regolata come tale». Inoltre, il potenziale nuovo ministero si occuperebbe solo dei migranti più svantaggiati e dei richiedenti asilo, mentre le persone più abbienti continuerebbero ad aver accesso a percorsi privilegiati, accentuando ulteriormente le disuguaglianze.

In generale, comunque, alcuni analisti sostengono che l’assetto organizzativo delle istituzioni italiane nei confronti dell’immigrazione sia ormai datato e inadatto a gestire flussi in costante aumento. Secondo Andrea Graziosi, docente di storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, per migliorare le cose servirebbe un cambiamento culturale: «Fino agli anni Ottanta l’Italia è sempre stata un paese di emigrazione», e non è ancora riuscita ad adattarsi a una situazione mutata. «Oggi esiste solo una gestione da ordine pubblico di migrazioni spontanee», dice Graziosi, aggiungendo che invece sarebbe necessario “programmare” l’arrivo dei migranti e permettere loro di raggiungere l’Italia in modo regolare, favorendo anche l’integrazione lavorativa e sociale. «Questo non può farlo il ministero dell’Interno: servirebbe un’agenzia, con componenti sia politici che tecnici, che studi gli esempi migliori e si ponga il problema dell’integrazione», dice.

Il sistema della programmazione dei flussi migratori citato da Graziosi esiste già, ma finora non ha mai funzionato in modo soddisfacente. Ogni anno infatti il governo italiano approva un nuovo cosiddetto “decreto Flussi” con cui stabilisce quanti e quali lavoratori extracomunitari potranno arrivare regolarmente in Italia nel corso degli anni successivi. Generalmente però i posti messi a disposizione non sono sufficienti: lo scorso marzo arrivarono oltre 240mila domande, a fronte di circa 83mila posti disponibili.

Della possibilità di istituire un ministero che riunisca tutte le competenze relative all’immigrazione si discute da anni. Nel programma presentato per le elezioni del 25 settembre del 2022, l’alleanza tra Azione e Italia Viva sosteneva che l’immigrazione fosse gestita «con politiche tra loro contraddittorie da vari ministeri», e quindi proponeva di istituire un «ministero per l’Immigrazione» proprio per «superare la frammentazione di funzioni dei vari uffici». Nel 2019 anche l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, intervenendo alla festa del Partito Democratico a Ravenna, aveva detto di essere favorevole all’istituzione di un ministero per l’Immigrazione, «vista la complessità del problema». L’idea si ritrova anche in una proposta di legge del 1999, mai esaminata in parlamento.

C’è anche qualche precedente in questo senso. Tra il 2011 e il 2013 il fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi fu nominato ministro dell’Integrazione con il governo tecnico di Mario Monti, mentre tra il 2013 e il 2014 il governo Letta istituì la carica del ministro per l’Integrazione, affidata a Cécile Kyenge. Entrambi però non hanno avuto un impatto rilevante sul sistema di gestione nel suo complesso.

Secondo Eduardo Barberis, docente di politiche dell’immigrazione all’Università di Urbino, un modello promettente è quello del Servizio centrale del SAI: coordina le attività di tutti gli enti locali, le associazioni e le cooperative coinvolte nel sistema di accoglienza e integrazione, fornendo anche assistenza tecnica e raccogliendo i dati sugli interventi realizzati. Il Servizio centrale è stato istituito dal ministero dell’Interno, ma è gestito dall’Associazione nazionale comuni italiani (ANCI).

Come dicevamo, non tutti gli studiosi sono d’accordo con l’idea di creare un nuovo ministero incaricato di occuparsi solamente di immigrazione: c’è chi sostiene che il quadro normativo attuale presenti già tutti gli strumenti necessari a gestire il fenomeno migratorio, e che bisognerebbe quindi lavorare per migliorarli, potenziarli e riformarli piuttosto che investire risorse finanziarie e umane nella creazione di un nuovo organo amministrativo.

Mariateresa Veltri, docente di diritto dell’Unione Europea all’Università di Bologna e avvocata immigrazionista, dice per esempio che sarebbe auspicabile rivedere alcune norme ormai datate: un esempio è la legge Bossi-Fini del 2002, che puntava a ridurre drasticamente l’immigrazione irregolare verso l’Italia ma si è dimostrata essere del tutto inefficace. Tra le altre cose la legge limita l’ingresso in Italia soltanto ai migranti già in possesso di un contratto di lavoro, un sistema fallimentare che di fatto ha prodotto l’effetto opposto a quello annunciato dai suoi sostenitori, aumentando la presenza di migranti irregolari.

Anche a livello europeo poi sarebbe possibile adottare un approccio diverso, dice Veltri, senza «battere i pugni» ma «stringendo alleanze intese a rafforzare i meccanismi di solidarietà nella riforma del sistema di asilo, e non ad indebolirli».

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