È giusto che attori americani interpretino personaggi italiani?

Se ne sta parlando in questi giorni a Venezia dopo alcune dichiarazioni di Pierfrancesco Favino sul film "Ferrari" di Michael Mann

Adam Driver al festival di Venezia (ANSA/ETTORE FERRARI)
Adam Driver al festival di Venezia (ANSA/ETTORE FERRARI)
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Da venerdì alla Mostra del cinema di Venezia, che è iniziata mercoledì e si concluderà il 9 settembre, è in corso un dibattito sull’opportunità di affidare ruoli di famosi personaggi italiani ad attori stranieri: è una questione che riguarda soprattutto il sempre più ricco filone di film biografici, e a parlarne è stato l’attore Pierfrancesco Favino, presente all’80esima edizione della Mostra per presentare il film Comandante di cui è protagonista.

Durante la conferenza stampa di presentazione del film e poi in interviste successive Favino ha parlato di uno dei film più attesi presentati in questi giorni al Festival, Ferrari di Michael Mann, e ha sostenuto che il cinema italiano debba fare «fronte comune» per far sì che ruoli come quello di Enzo Ferrari, fondatore dell’omonima casa automobilistica modenese, vengano affidati ad attori italiani e non a «stranieri lontani dai protagonisti reali delle storie, a cominciare dall’accento esotico». Nel film il protagonista è infatti interpretato dall’attore statunitense Adam Driver.

Non è la prima volta che Favino sostiene questa tesi, aveva già criticato la scelta simile fatta dalla produzione di House of Gucci, il film di Ridley Scott sulla storia di Maurizio Gucci, capo della casa di moda Gucci tra gli anni Ottanta e Novanta, e di sua moglie Patrizia Reggiani, che fu condannata a 29 anni di prigione (in seguito ridotti a 16) come mandante del suo omicidio. Anche in quel caso il ruolo del protagonista era stato affidato ad Adam Driver.

Le dichiarazioni di Favino hanno aperto un dibattito che riguarda anche quelli che vengono percepiti come alcuni limiti del cinema italiano. Sempre a Venezia uno dei produttori del film Ferrari, l’italo-canadese Andrea Iervolino, ha risposto al discorso di Favino difendendo la propria scelta e sostenendo che il cinema italiano negli ultimi trent’anni non sia stato capace di creare «uno star system riconoscibile nel mondo», rimanendo secondo lui troppo chiuso a collaborazioni internazionali.

Adam Driver durante le riprese del film su Enzo Ferrari (Ansa / Filippo Venezia)

Ferrari è una grande produzione hollywoodiana e un progetto che Michael Mann, regista 80enne fra i più noti nell’industria, cercava di realizzare da vent’anni: il film racconta tre mesi fondamentali nella vita di Enzo Ferrari ed è stato per lo più girato in Italia, con un ritorno economico diretto e indiretto importante soprattutto per la città di Modena. Mann è stato molto attento a ricostruire le ambientazioni dell’epoca, ma ha affidato tutti i ruoli maggiori ad attori non italiani. Oltre ad Adam Driver nel ruolo di Enzo Ferrari, nel film ci sono la spagnola Penelope Cruz che fa la moglie Laura Ferrari, la statunitense Shailene Woodley nei panni della sua altra compagna Lina Lardi, mentre l’americano Patrick Dempsey interpreta il ruolo del pilota Piero Taruffi.

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In House of Gucci oltre a Driver c’erano Al Pacino, Lady Gaga, Jeremy Irons e Jared Leto. In quella occasione fu particolarmente criticato lo strano mix di accenti di alcune parole dette in italiano e di inflessioni italo-americane che avevano caratterizzato in modo anche piuttosto marcato la recitazione degli attori. Lo stesso Favino aveva ironicamente commentato: «I Gucci avevano l’accento del New Jersey, non lo sapevate?».

Pierfrancesco Favino a Venezia (ANSA/ETTORE FERRARI)

Venerdì l’attore ha ampliato quel discorso, parlando di «appropriazione culturale» e chiedendosi perché attori italiani di alto livello non fossero coinvolti in questo genere di produzioni: «Ferrari in altre epoche lo avrebbe fatto Gassman, oggi invece lo fa Driver e nessuno dice nulla». Favino ha anche fatto riferimento a discussioni che da alcuni anni sono molto attuali nell’industria cinematografica di altri paesi: «Se un cubano non può fare un messicano, perché un americano può fare un italiano?».

Una possibile risposta è proprio nei problemi linguistici: le grandi produzioni americane hanno come principale mercato di riferimento quello interno. Le incongruenze percepite in Italia su accenti e modo di parlare dei personaggi sono molto meno notate negli Stati Uniti. Scegliere un attore italiano significherebbe invece quasi sempre dover prevedere un doppiaggio in inglese successivo, una pratica che i registi negli ultimi decenni fanno sempre meno volentieri.

C’è anche una questione di riconoscibilità degli attori, la stessa di cui parlava Iervolino, secondo cui i film dal budget molto elevato e quindi con necessità di fare grandi incassi per essere sostenibili hanno bisogno di star consolidate a livello internazionale, che non sono presenti in Italia. Iervolino cita invece esempi di attori non statunitensi che hanno «un valore» anche sul mercato statunitense: Antonio Banderas, Javier Bardem, Penelope Cruz, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Joel Kinnaman, Mads Mikkelsen, Matthias Schoenaerts, Diane Kruger. Secondo Iervolino l’unica strada percorribile è quella di un’apertura del cinema italiano a una maggiore collaborazione con produzioni internazionali di medio livello che possano permettersi un cast misto e che funzionino anche per rendere gli attori italiani più riconoscibili all’estero.

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