Perché un libro fa (ancora) casino

«Il problema del pensiero conservatore, reazionario, insomma di destra è anzitutto questo: non ha alcuna possibilità di fermare l’allargamento dei diritti, il riconoscimento di nuove libertà o il progresso, qualunque cosa sia. Quel pensiero spaventato dalle modernità non ferma i tempi ma li rallenta e li avvelena. E nel frattempo genera sofferenze dove ci sono libertà non accolte, diritti e desideri non riconosciuti, repressi, apertamente odiati»

Tre lettori scelgono libri sopravvissuti al bombardamento della Holland House, Londra, 23 ottobre 1940. (Harrison/Fox Photos/Hulton Archive/Getty Images)
Tre lettori scelgono libri sopravvissuti al bombardamento della Holland House, Londra, 23 ottobre 1940. (Harrison/Fox Photos/Hulton Archive/Getty Images)
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1. Mentre ogni sera ammiro i Mondiali di atletica e tifo per atleti italiani che si chiamano Eyob, Yeman, Zaynab, Sintavehu, Ayomide, Brayan e Dariya, mi immagino da qualche parte un Generale che scuote la testa smarrito: «Quando vedo una persona con la pelle scura non la identifico subito come italiana». Per la verità prima delle gare non so nemmeno se dietro quei nomi ci siano atleti «con la pelle scura». E viceversa puoi non essere del tutto bianco anche se ti chiami Salvatore o Larissa (o Paola, certo). Quello che so è che tra qualche decennio qualcuno leggerà le pagine con le farneticazioni estive del Generale esattamente come noi oggi leggiamo le invettive di qualche secolo fa contro il suffragio universale, la libertà di associazione o anche solo il divorzio: chiedendosi se mai davvero qualcuno abbia pensato di fermare i tempi, la storia, il progresso, i movimenti e i desideri con qualche pensierino terrorizzante. Non i Tempi a Venire, quelli lontani e molto ipotetici, ma i nostri, quelli che già entrano tutte le sere nelle nostre case, per esempio con le immagini da Budapest (sede dei Mondiali di atletica, lo dico per chi se li sta stupidamente perdendo).

Il problema del pensiero conservatore, reazionario, insomma di destra è anzitutto questo: non ha alcuna possibilità di fermare l’allargamento dei diritti, il riconoscimento di nuove libertà o il progresso, qualunque cosa sia. E infatti oggi tutti e tutte possono votare (solo se vogliono, perdipiù), esistono i partiti, i sindacati, le ong e gli abbonati al Post. Da qualche tempo poi anche le persone divorziate, se ho capito bene, sono accolte dalla Chiesa cattolica. Ma ecco, qui ho un sussulto e non riesco a cancellare il ricordo (ahimè, c’ero) di quello che accadeva ai tempi della legge e del referendum; non cento anni fa, dunque, anzi nemmeno cinquanta (e infatti c’ero): il ricatto a donne e uomini cattolici costretti a scegliere tra la propria libertà e la propria fede. Non in nome, come si diceva e si faceva credere, di principi inviolabili o «valori non negoziabili», ma di qualcosa che sarebbe radicalmente cambiato – senza scontri o tormenti – nel breve giro di cinquant’anni, o anche meno: una bazzecola, dal punto di vista della Storia.

Quel pensiero spaventato dalle modernità (in cui sono compresi i pensierini di un Generale) non ferma i tempi ma li rallenta e li avvelena. E nel frattempo genera sofferenze dove ci sono libertà non accolte, diritti e desideri non riconosciuti, repressi, apertamente odiati (secondo il sentimento che il coraggioso militare avrebbe virilmente sdoganato). Allo stesso modo avranno (inutilmente) sofferto uomini e donne esclusi dalla Messa perché divorziati e stanno soffrendo (o almeno stanno rompendosi le scatole per gli accanimenti burocratici) coppie omogenitoriali. Perché quello che è una bazzecola per la Storia, è un’intera vita per ciascuno di noi.

Antichi sono anche gli strumenti di questa reazione disperata e incattivita: la falsificazione e la paura. La costruzione del mito di una dittatura del politicamente corretto va avanti da anni ed è stata combattuta troppo debolmente. Ma in questa ultima vicenda ha assunto sfumature grottesche: basterà a smantellare l’idea di minoranze aggressive e intoccabili (l’architrave dei pensierini del Generale e dei tormenti di chi lo segue) il fatto che l’unico militare che per ora ha pubblicamente rivendicato la propria omosessualità lo abbia dovuto fare sotto pseudonimo? Ha detto che il clima nell’esercito è cambiato e ne siamo felici. Ma il nome di chi lo ha detto non lo possiamo sapere: ha la libertà di parlare – e spero di amare – ma non di dire chi è. Questa sarebbe dunque la dittatura degli “anormali”.

Praticamente l’intera elaborazione del pensiero conservatore contemporaneo poggia su simili falsificazioni, invenzioni e rovesciamenti della realtà, facilmente contestabili sul piano dei dati e dei fatti ma molto efficaci nel generare un consenso vittimista, per le antichissime ragioni per cui ogni disagio cerca un colpevole. E infatti sta accadendo un po’ dappertutto all’unica categoria che ha davvero perso molto, sul piano economico o simbolico, negli anni della cosiddetta globalizzazione: il maschio bianco occidentale eterosessuale. Che spesso non resiste alla tentazione di prendersela con chiunque non sia tutte queste quattro cose insieme.

Ma è nel campo della esibizione e della manipolazione della paura che il testo del Generale offre un contributo particolarmente significativo. C’è questa scena davvero straordinaria: «Fu nel 1975 a Parigi che per la prima volta cominciai a venire a contatto quotidianamente con persone di colore. Mi ricordo nitidamente quanto suscitassero la mia curiosità tanto che, nel metrò, fingevo di perdere l’equilibrio per poggiare accidentalmente la mano sopra la loro per capire se la loro pelle fosse al tatto più o meno rugosa della nostra». Credo sia difficile trovare un testo che esprima meglio quell’intreccio melmoso di desiderio e paura, di attrazione e repulsione che connota il razzismo come reazione alla scoperta della diversità. Difficile trovare qualcosa di più spudorato della confessione di questa candida (in tutti i sensi del termine) mano morta. E di più lontano dalla felicità di corpi che corrono, saltano, si scambiano staffette toccandosi le mani. Di molti colori.

2. Mentre assisto al dilagare di discussioni e ipotesi sulle ansie del Generale, un’altra polemica anima liste e gruppi di discussione che seguo. È stata alimentata da due articoli di Guia Soncini sull’irrilevanza dei libri: non contano niente e non li legge più nessuno. Sulla seconda parte dell’affermazione c’è tutto un incrociarsi di lame e di numeri (quanto ha venduto Il Gattopardo? E Gramellini dieci anni fa? E Ammaniti oggi?) in cui non è facile districarsi ma magari prima o poi qualcosa capiremo. Più difficile è stabilire quanto contano i libri in un universo mediatico, editoriale e sociale totalmente cambiato. E però tutto il casino non solo giornalistico del momento, con lo scontro di valori, l’accenno di guerra culturale, i provvedimenti politici contro i militari, persino una prima disarticolazione del blocco di destra che governa l’Italia da cosa nasce se non da un libro?

Perché un libro fa (ancora) tutto questo casino? Perché insomma affermazioni che girano un po’ dappertutto e sono altrove normali (che non vuol dire, Generale, «di tutti» e nemmeno «della maggioranza»: significa semplicemente che ci stanno, insieme ad altre) diventano, stampate su un libro, drammatiche, pesanti, influenti? Evidentemente l’oggetto, perso molto del suo valore materialmente economico e persino la centralità simbolica che lo connotava in un universo culturale passato, resta una specie di totem. Un mix di autorevolezza e sacralità (largamente esagerata la prima: quello del Generale non è l’unico libro pieno di fesserie; del tutto infondata la seconda: il libro è un oggetto laico e felicemente banale) che sopravvive a ogni rivoluzione tecnologica. L’esito, semplice e inspiegabile, che siccome sono finite in un libro, frasi e pensieri hanno assunto una serietà che non gli avremmo attribuito altrove.

È una vicenda che si ripete: già ai tempi dell’enorme successo del best seller di Rizzo e Stella, La casta (Soncini magari ci dirà quanto ha mostruosamente venduto) ci si meravigliò che temi e notizie già presenti sui giornali assumessero un peso e una popolarità inimmaginabile. E perfino contro Saviano è stato usato l’argomento che non tutto era inedito e originale in Gomorra. Ma la cosa interessante (per me affascinante) è proprio come qualcosa (un dato, un fatto, una narrazione) funzioni, se diventa un libro.

Questo significherebbe anche giudicare il libro del Generale come fosse un libro ma non voglio divagare o infierire. Il problema non sta nel fatto che è autopubblicato: per me non fa più nessuna differenza. Ma nel fatto che scrivere un libro un minimo di responsabilità dovrebbe comportarla – specie se ci si esibisce come guerrieri in campo contro il facile dilagare dei diritti individuali. Qui manca ogni elaborazione, ogni riflessione che non sia la pura e semplice affermazione di una opinione e una posizione. L’esito è una serie di pensierini affiancati uno all’altro, senza un legame nemmeno stilistico – tanto che si è ipotizzata una scrittura collettiva: il Generale insomma ha scritto un libro con la stessa irresponsabilità e impreparazione con cui noi ci lanceremmo con il paracadute. Il libro genera questo desiderio e questa tentazione, il paracadute no (spero di non parlare solo per me). E però l’esito non è l’irrilevanza. Ed è interessante, magari allarmante, preoccupante ma interessante, come prodotti “culturali” abbiano questa capacità di addensare umori: un recente caso musicale molto istruttivo può aiutare a capire meglio cosa con questo libro sta succedendo.

Fino all’effetto più peculiare di ogni libro, che è quello di generare conseguenze diverse tra tutti e imprevedibili per ciascuno: a me sta suscitando un soprassalto di speranza, il più raro e prezioso dei sentimenti politici. Intanto sul futuro del libro (ci tengo molto). E poi sul futuro degli eventuali lettori di queste pagine che con le loro libertà e i diritti pacificamente riconosciuti se la spasseranno, ci scommetto, leggendo che cose incredibili pensava di neri, donne e gay un oscuro Generale. Ammesso che ci sia un futuro, naturalmente.

3. Quanto ci manca già Michela Murgia? Quanto ci saremmo divertiti a leggere quello che avrebbe scritto del Generale Vannacci?

– Ascolta anche: Timbuctu, il podcast di Marino Sinibaldi

– Leggi anche: Luca Sofri: La fine dei libri (2014)

Marino Sinibaldi
Marino Sinibaldi

È giornalista, saggista, conduttore radiofonico e curatore di eventi culturali. È stato direttore di Radio 3 tra il 2009 e il 2021, è presidente del Centro per il libro e la lettura del Ministero della Cultura, dirige il trimestrale Sotto il vulcano ed è autore del podcast Timbuctu del Post .

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