Spotify ha un problema di “rumore bianco”

I podcast che lo trasmettono ottengono milioni di ore di ascolti ogni giorno, e sono pagati meglio delle playlist che propongono lo stesso tipo di musica

(Pexels)
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Nel 2019 Spotify, la popolare piattaforma di streaming audio, comprò l’applicazione Anchor, che rende più facile la creazione e la pubblicazione di podcast. La decisione rientrava in una più ampia strategia di acquisizioni e di progetti per diventare sempre più importante nel settore dei podcast, che all’epoca erano ancora un mercato di nicchia ma che stava diventando sempre più rilevante e attraente per gli investitori, per lo meno negli Stati Uniti. L’intenzione era quella di attirare nuovi podcaster che potessero avere successo, aiutandoli a trovare il loro pubblico e ottenendo al contempo nuovi introiti dalle ore di streaming di questi nuovi contenuti. Anche per questo, Spotify cambiò il proprio algoritmo di raccomandazione dei contenuti per mostrare meno musica e più podcast “parlati” ai propri utenti, indirizzando grossi flussi di traffico in quella direzione.

Ora però Bloomberg racconta che questa decisione ha avuto un effetto indesiderato: moltissime persone hanno cominciato a usare Anchor per trasmettere ore e ore di programmi che non sono parlati, ma propongono esclusivamente “rumore bianco”, espressione con cui ci si riferisce più o meno propriamente a quei suoni costanti e indefiniti emessi da fonti naturali o artificiali, per caso o appositamente, in molti contesti quotidiani. Il rumore della pioggia o quello prodotto da un vecchio televisore sintonizzato su una frequenza senza segnale, per esempio, ma anche quello di un aspirapolvere o di una cascata. Da alcuni anni, questi tappeti sonori sono usati da sempre più persone per rilassarsi, per prendere sonno, per concentrarsi nello studio e nel lavoro.

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Oltre a piattaforme specializzate come White Noise o A Soft Murmur, negli ultimi anni l’ascolto di rumore bianco si è diffuso anche su piattaforme digitali come YouTube – dove vanno molto forte anche i canali che trasmettono in diretta musica rilassante per ore e ore – e Spotify. Per Spotify, il problema è che queste tracce non vengono caricate soltanto come brani musicali, ma anche come podcast, una categoria di prodotto audio che l’azienda tende a remunerare di più. Secondo documenti interni visionati da Bloomberg, a gennaio di quest’anno i podcast dedicati al rumore bianco, che quindi trasmettono con la sola interruzione delle pubblicità ore e ore di suoni indefiniti o naturali, ottenevano in media 3 milioni di ore di ascolto ogni giorno. Sempre secondo Bloomberg, questo significa che i loro autori otterrebbero almeno 18mila dollari l’anno da questi podcast.

Dato che sono catalogati e pubblicati sulla piattaforma in quanto podcast, spesso attraverso Anchor, il nuovo algoritmo di Spotify ha a lungo dato loro una grande visibilità, a discapito di tracce audio molto simili presenti però nella categoria delle playlist musicali, che convengono economicamente a Spotify. «Una volta che Spotify si è reso conto di quanta attenzione fosse rivolta ai podcast di rumore bianco, l’azienda ha preso in considerazione di rimuovere questi programmi dal feed dedicato ai podcast “parlati” e di vietare da lì in poi il loro caricamento sulla piattaforma, per reindirizzare il pubblico verso programmi simili ma che risultassero più economici per Spotify», come per esempio gli album di “rumore bianco”, scrive Bloomberg. Secondo i loro calcoli, eliminare questi podcast e spingere le persone ad ascoltare quel tipo di musica all’interno di playlist “normali” aumenterebbe l’utile annuale lordo di Spotify di almeno 35 milioni di euro.

«Il piano non è mai stato attuato: continuiamo a proporre podcast di rumore bianco sulla nostra piattaforma», ha specificato Spotify. Ma vari utenti negli ultimi mesi hanno raccontato di casi bizzarri in cui i podcast che ascoltavano di frequente sono scomparsi dai loro profili, e un podcaster che produce questo genere di programma ha raccontato a Bloomberg che alcuni dei suoi episodi sono stati rimossi senza spiegazione. «La prima volta un episodio è scomparso per circa tre settimane, costandogli in media 50mila download in meno al giorno. La seconda volta è scomparso per circa 10 giorni, causando la perdita di altri 20mila download al giorno», racconta l’articolo. «Il podcast non ha ancora recuperato quel pubblico perduto, anche se gli episodi sono tornati disponibili sulla piattaforma».

Spotify non è l’unica azienda ad avere problemi con questi podcast. Il CEO di Universal Music Group, Lucian Grainge, e il CEO di Warner Music, Robert Kyncl, si sono entrambi lamentati del fatto che i brani pieni di rumori generici ottengano le stesse royalty che spettano a musicisti celebri che lavorano molto più duramente per creare le proprie canzoni.

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