• Italia
  • Mercoledì 9 agosto 2023

Come funziona il reato di diffamazione

Genera spesso discussioni perché la sua definizione è sfumata e soggettiva: se ne riparla per la denuncia di Meloni al cantante dei Placebo

Brian Molko dei Placebo (Laurent Gillieron/Keystone via AP)
Brian Molko dei Placebo (Laurent Gillieron/Keystone via AP)

La scorsa settimana la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha denunciato per diffamazione il cantante della band britannica dei Placebo, Brian Molko, che durante un concerto a luglio a Stupinigi, vicino a Torino, l’aveva definita dal palco «fascista», «razzista» e «nazista». La notizia ha avuto grande risalto mediatico, anche a livello internazionale, vista la fama delle persone coinvolte. Meloni ha ricevuto diverse critiche perché secondo molti la sua posizione a capo del governo creerebbe un forte squilibrio di forze in un eventuale processo, per via della sua maggiore capacità di influenza sulle istituzioni italiane, anche involontaria.

Se ne è generato un dibattito sull’opportunità che una presidente del Consiglio sporga denuncia verso chi la critica, anche perché Meloni non è nuova a situazioni del genere. Lo scorso anno aveva querelato il giornale Domani per un articolo che la riguardava, e tuttora ha alcuni processi pendenti per querele che aveva presentato prima del suo incarico di governo: quello più noto riguarda lo scrittore Roberto Saviano, ma un’altra denuncia assai meno commentata è stata presentata contro un musicista di 39 anni che l’aveva insultata su Facebook.

In ciascuno di questi casi Meloni ha presentato una denuncia per diffamazione, un reato che è spesso soggetto a interpretazioni molto diverse a seconda delle situazioni specifiche, delle persone coinvolte e di quelle che giudicano. Intorno ai casi di presunta diffamazione si sviluppano frequenti discussioni perché la definizione del reato ha a che fare con una serie di elementi soggettivi: la reputazione, l’onore, il decoro. Una persona può non percepire una propria affermazione come offensiva e ricevere ugualmente una condanna per diffamazione, così come un’altra può sentirsi offesa nella sua onorabilità senza che un giudice lo riconosca.

In Italia il reato di diffamazione è definito dall’articolo 595 del codice penale e riguarda chiunque «comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione». È punito con la reclusione fino a un anno o una multa fino a 1.032 euro, che possono raddoppiare nel caso in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un “fatto determinato”: una definizione poco chiara che è stata spesso oggetto di interpretazioni diverse. Sia la reclusione che la multa possono essere aumentate se l’offesa è contro «un corpo politico, amministrativo o giudiziario».

Perché si parli di diffamazione è sufficiente che la dichiarazione “diffamante” sia comunicata in presenza di almeno due persone, e non è necessario che sia falsa: si può diffamare anche dicendo una cosa vera, se questa viene ritenuta offensiva per la reputazione di qualcuno.

Quest’ultimo aspetto è quello che contribuisce di frequente a creare confusioni intorno al reato di diffamazione: non è raro che qualcuno si difenda da una presunta diffamazione sostenendo di aver semplicemente detto la verità, così come è altrettanto frequente che qualcuno minacci una denuncia per diffamazione sostenendo che gli sia stato attribuito un fatto non vero.

A questo proposito il reato di diffamazione non va confuso con altri due che sono per certi aspetti simili: l’ingiuria e la calunnia. L’ingiuria, depenalizzata nel 2016, era regolata dall’articolo 594 del codice penale e puniva chi offendeva «l’onore e il decoro di una persona» in sua presenza, a differenza della diffamazione che si verifica in presenza di altre persone. La pena prevista per l’ingiuria era la reclusione fino a 6 mesi o una multa fino a 516 euro (oggi si possono ottenere solo risarcimenti per danni in sede penale). La calunnia invece è il reato che commette chi incolpa un’altra persona di un reato, pur sapendo che questa è innocente. Perché si verifichi è necessario che venga presentata una denuncia o un altro tipo di segnalazione simile all’autorità giudiziaria. Come facilmente intuibile è un reato più grave: è regolato dall’articolo 368 del codice penale e prevede una pena da due a sei anni di reclusione.

Quando invece la presunta offesa viene diffusa attraverso i giornali o altri tipi di media si parla di diffamazione “a mezzo stampa”. Nello stesso tipo di reato viene compresa anche la diffamazione commessa con «qualsiasi altro mezzo di pubblicità», una definizione in cui oggi possono essere inclusi anche i social network: è un reato che quindi potrebbe riguardare quasi tutti, non solo i giornalisti. Con la diffamazione a mezzo stampa però entrano in gioco anche altri tipi di diritti con cui la diffamazione deve confrontarsi: cioè i diritti di critica e di cronaca, che sono concessi a giornalisti e non solo quando pubblicano fatti di interesse pubblico. In questi casi il giudice deve stabilire se le informazioni che sono state pubblicate e per cui una persona si sente diffamata rispettano i principi del diritto di critica e di cronaca, garantiti dall’articolo 21 della Costituzione. Non ci sono regole assolute per deciderlo: ogni situazione particolare fa storia a sé.

Per quanto costituzionalmente garantiti, anche il diritto di critica e di cronaca infatti non sono esenti da limiti: presuppongono che ci debba essere un interesse pubblico dell’informazione divulgata e che questa venga esposta con correttezza, continenza (senza insulti o ingiurie, per esempio) e pertinenza (la notizia deve avere carattere di attualità, tra le altre cose). Nel diritto di cronaca si presuppone anche che i fatti esposti rispettino il criterio della verità, o di quella che viene definita “verità putativa”: il giornalista non deve cioè scrivere solo verità assolute, ma deve poter dimostrare di aver fatto tutto quanto in suo possesso arrivare a una verità sostanziale dei fatti (l’errore, insomma, è ammesso: purché in buona fede). Sono tutti concetti molto interpretabili e difficilmente definibili in assoluto, e per questo anche il reato di diffamazione a mezzo stampa suscita spesso lunghe dispute legali e molte discussioni.

Scrivere su un giornale che un politico o una politica ha una relazione fuori dal proprio matrimonio probabilmente non è di interesse pubblico, per esempio, ma potrebbe diventarlo se quel politico o politica usasse soldi pubblici per portare a cena la persona con cui ha una relazione; oppure se avesse costruito la sua carriera politica sul principio di sacralità del matrimonio.

La diffamazione diffusa per mezzo della stampa è considerata un reato più grave, la pena può arrivare a tre anni di reclusione e la multa è di almeno 516 euro. Fino a poco tempo fa per la diffamazione a mezzo stampa si teneva in considerazione anche l’articolo 13 della legge 47 del 1948 sulla stampa, che determinava obbligatoriamente «la reclusione da uno a sei anni in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato». Questo articolo è stato dichiarato illegittimo a giugno del 2021 dalla Corte Costituzionale, che ha invece ritenuto compatibile con la Costituzione l’articolo 595 del codice penale quando parla di diffamazione a mezzo stampa, visto che consente al giudice di usare la pena detentiva solo in casi di eccezionale gravità (e in tutti gli altri di limitarsi a una multa).

Oggi le conseguenze penali che possono derivare da una querela per diffamazione sono tutto sommato limitate: nella maggior parte dei casi queste querele vengono archiviate su proposta del pubblico ministero, e quindi non arrivano nemmeno a processo. Significa che i pubblici ministeri riconoscono che spesso l’impianto di questo tipo di querele è pretestuoso, e cioè che a volte vengono usate anche a scopo intimidatorio proprio approfittando della loro arbitrarietà. In caso di condanna, invece, il fatto che le pene massime siano piuttosto basse fa in modo che nella maggior parte dei casi non si arrivi alla reclusione e che questa venga sostituita con pene alternative.

– Leggi anche: Il grosso problema delle cause per diffamazione contro i giornalisti

Ai processi penali per diffamazione però possono spesso affiancarsi anche cause civili, che al contrario non possono essere archiviate. Le cause civili sono richieste di risarcimento per danni, che nei casi di diffamazione vengono avanzate dalla stessa persona che ha presentato la querela. Il risarcimento viene deciso in un processo civile separato, ma in molti casi l’esito può essere influenzato da ciò che si decide in sede penale. Anche in questo caso ci sono in ballo questioni molto soggettive: la richiesta di risarcimento per danni da diffamazione per esempio dipende dal valore che si dà alla propria reputazione o al proprio onore, quindi è molto variabile, e per questo si può sentir parlare di richieste per migliaia, decine di migliaia o anche centinaia di migliaia di euro.

Per questo, se le conseguenze di una condanna penale per diffamazione possono essere relativamente contenute, diversi esperti di diritto ritengono invece che i processi civili collegati e le grosse richieste di risarcimento possano avere esiti molto problematici. Processi di questo genere possono andare avanti per molti anni, essere molto dispendiosi e avere come risultato condanne che per molte persone sono insostenibili. Il rischio è che persone che hanno maggiori mezzi economici e influenza, per le quali processi del genere sono facilmente sopportabili e che hanno migliori avvocati, li usino a scopo intimidatorio e per limitare le critiche nei propri confronti. Nel caso in cui le persone accusate siano giornalisti, inoltre, lo scopo può essere direttamente limitarne il lavoro: sono documentati molti casi di questo genere.

Questi aspetti sono tra i motivi per cui le denunce per diffamazione presentate da Meloni o da altre persone con ruoli di potere ricevono molte critiche, al di là del merito della questione. Dall’altra parte c’è chi ritiene che l’inviolabilità del onore e della reputazione personale sia da difendere in ogni caso, e che soprattutto chi ricopre ruoli di potere abbia responsabilità nel fissare i limiti tra le opinioni lecite e quelle ingiustamente offensive. Nel caso delle accuse per diffamazione a Domani Meloni ha presentato una denuncia sia in sede penale che civile, con una richiesta di risarcimento per danni di 25mila euro. Per il momento invece il caso delle accuse a Brian Molko dei Placebo è solo penale.