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  • Domenica 16 luglio 2023

Perché le copertine dei libri ambientati in Africa si somigliano

Spiegato dal congolese Alain Mabanckou, per superare gli stereotipi delle immagini delle acacie con il sole che tramonta sulla savana

Copertine di libri ambientati in Africa in edizioni in inglese (Tweet di Simon Stevens)
Copertine di libri ambientati in Africa in edizioni in inglese (Tweet di Simon Stevens)
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Nelle librerie europee e americane i romanzi ambientati in un paese africano o scritti da autori africani si identificano spesso con facilità perché le loro copertine tendono ancora a somigliarsi e a esplicitare moltissimo la provenienza geografica: molte riproducono tramonti sulla savana e anche quando hanno altri soggetti sono tendenzialmente gialle o arancioni. Esistono insomma degli stereotipi per le copertine dei libri con qualche legame con l’Africa, un fatto più volte notato dagli scrittori provenienti da questi paesi.

Alain Mabanckou, che è congolese ma vive negli Stati Uniti, ne aveva parlato nel 2016 al Collège de France, importante scuola superiore universitaria di Parigi, in una conferenza ora pubblicata da E/O nel libro Otto lezioni sull’Africa di cui riportiamo un estratto.

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A colpire di più, quando si ha fra le mani una qualche copertina di opere di autori africani, sono spesso le immagini scelte. Si ripetono da un editore all’altro e, di conseguenza, ci portano a leggere una certa Africa. In genere sono un invito a un viaggio lontano, come nei secoli passati, quando quell’illustrazione doveva farci sognare e prometterci una passeggiata esotica in un universo palpitante in cui il mistero, l’avventura, la magia e la stregoneria erano garantite. Nella lezione inaugurale ho ricordato quanto la letteratura esotica, secondo Jean-François Staszak, avesse uno scopo preciso, scopo che aveva decretato il suo successo di allora: quella letteratura “tenta di riprodurre un viaggio che è stato già fatto: quello da cui provengono testi o immagini così attraenti che si vuole andare a vederle dal vero”.

La riproduzione di una simile rappresentazione esotica deriva dall’inconscio coloniale, e l’obiettivo della copertina del libro è di “fare molto africano”, di aderire al repertorio dei cliché per rassicurare i lettori del fatto che li aspetta un’avventura nei tropici. Ecco allora che la maggior parte di questi ingredienti viene impiegata nella vendita sfrenata di un simile “prodotto”: si promette una lingua francese presumibilmente mescolata con gioiosi africanismi, una saporita oralità, figurata e soleggiata, e viene garantita la scoperta di un’Africa sconosciuta, allo stesso tempo tenera e violenta, nella quale l’eroe trasporterà i felici lettori al cuore del continente nero, fra magia, sacrifici umani e fedeltà agli oscuri dèi delle foreste misteriose.

Nel suo scritto Come scrivere d’Africa, che io e Michel Le Bris abbiamo incluso nel volume collettivo L’Afrique qui vient, lo scrittore keniano Binyavanga Wainaina (1971-2019) affermava con ironia che scrivere di Africa è semplice, e offre qualche suggerimento a chi dovesse essere a corto d’idee:

Nel titolo, usate sempre le parole “Africa”, “nero”, “safari”. Nel sottotitolo, inserite termini come “Zanzibar”, “masai”, “zulu”, “Zambesi”, “Congo”, “Nilo”, “grande”, “cielo”, “ombra”, “tamburi”, “sole” o “antico passato”. Altre parole utili sono “guerriglia”, “senza tempo”, “primordiale” e “tribale”. Mai mettere in copertina (ma neanche all’interno) la foto di un africano ben vestito e in salute, a meno che quell’africano non abbia vinto un Nobel. Usate, piuttosto, immagini di persone a torso nudo con costole in evidenza. Se proprio dovete ritrarre un africano, assicuratevi che indossi un abito tipico masai, zulu o dogon. Nel testo, descrivete l’Africa come se fosse un paese caldo, polveroso con praterie ondulate, animali e piccoli, minuscoli esseri umani denutriti. Oppure caldo e umido, con popolazione di bassa statura che mangia scimmie. Non perdetevi in descrizioni accurate, l’Africa è grande: cinquantaquattro nazioni e novecento milioni di persone troppo impegnate a soffrire la fame, morire, combattere o emigrare per aver il tempo di leggere il vostro libro. Il continente è pieno di deserti, giungle, altipiani, savane e molti altri paesaggi, ma questo non interessa ai vostri lettori. Fate delle descrizioni romantiche, evocative, senza esagerare con i dettagli […]. Ricordatevi di dire che gli africani hanno la musica e il ritmo nel sangue, e che mangiano cose che nessun altro uomo è in grado di mangiare. Non citate mai riso, carne e grano: preferite, tra i piatti tipici del continente nero, cervello di scimmia, capra, serpente, vermi, larve e ogni sorta di selvaggina. E ricordatevi anche di aggiungere che voi siete riusciti a mangiare questi cibi e anzi che avete imparato a farveli piacere, perché voi ci tenete.

Max Roy, in Du titre littéraire et de ses effets de lecture [Sul titolo letterario e i suoi effetti di lettura], si chiede:

Chi non conosce certi titoli di libri che non ha mai letto ma di cui sa o sospetta l’importanza? Eppure, qualunque lettore apprende presto o tardi a diffidare dei titoli dei libri. Sono imperfetti, fuorvianti o manipolatori. Chi non ha mai provato sorpresa o delusione alla lettura di un’opera dal titolo invitante?

Simili interrogativi potrebbero essere formulati anche riguardo l’immagine apposta sulla copertina di un libro pubblicato da un autore africano. Anche quando si decidesse di cambiarla, questo non lo salverebbe dal peggio, perché quei cambiamenti, giustificati dalla temperie o dalla buona coscienza del tempo, non bastano da soli a cancellare i pregiudizi dell’illustrazione precedente, ma riattualizzano lo stereotipo, lo adattano al gusto del momento. È quello che accade per esempio nel caso della copertina di Un bambino nero di Camara Laye, che nel 1953 era praticamente neutra, con semplicemente il titolo scritto in nero su sfondo bianco. Più tardi, nel 2007, quando mi verrà affidato il compito di scrivere la prefazione della riedizione del libro, l’editore tornerà a una suggestione più “africana”: un bambino nero in movimento, a piedi nudi su una strada polverosa, con un cerchio e un bastone in mano, e la camicia aperta dal vento. Ovviamente non manca la flora, perché bisogna che il lettore si ritrovi nel continente al primo sguardo e che s’immagini in pochi secondi la vita di quel bambino proposto dall’iconografia e che sarà, nella testa del lettore, il narratore che apre l’autobiografia:

Ero bambino e giocavo vicino a casa di mio padre. Quanti anni avevo? Non me lo ricordo di preciso. Dovevo essere ancora molto giovane: cinque anni, forse sei. Mia madre era nella bottega, accanto a mio padre, e sentivo le loro voci, rassicuranti, tranquille, mescolate a quelle dei clienti della fucina e al rumore dell’incudine. Avevo smesso di giocare all’improvviso; l’attenzione, tutta la mia attenzione, era stata catturata da un serpente che strisciava attorno alla casa e che pareva davvero passeggiare attorno alla casa; e subito mi ero avvicinato…

L’atmosfera è insomma data. E sembra confermare la promessa della copertina, diversa da quella della versione originale del libro o di altre versioni che si trovano in tascabile e che mettono in primo piano piuttosto il candore e l’innocenza di quel bambino o attraverso un’espressione seria o con un sorriso il cui spandersi sul suo volto non può che spingerci ad aprire le prime pagine e a trovare lo strisciare di quel serpente nero, simbolo di una cosmogonia ben definita in cui il regno animale e la specie umana si fondono e si completano per essere più in armonia con gli antenati, coloro che non sono mai andati via, coloro che si aggirerebbero attorno a noi, che ci proteggerebbero o che ci punirebbero quando ci scostiamo dalle regole elementari della vita in comunità…

Le copertine stereotipate resistono anche nella nostra epoca, e succede che certi editori, attingendo senza dubbio dagli stessi repertori fotografici, ricorrano alla stessa rappresentazione, come possiamo vedere con Il ricordo dell’amore, il romanzo di Aminatta Forna, britannica di origine sierraleonese, e Aminata, romanzo del canadese Lawrence Hill. Entrambi i libri riprendono infatti l’immagine della stessa donna – quel fotografo dev’essere diventato ricco –, e la sola cosa a differenziarle è la direzione verso cui rivolge il suo sguardo il personaggio femminile africano mostrato. Ed è la stessa immagine che sceglieranno le edizioni Présence Africaine per la pubblicazione di Aminata in traduzione francese, solo che quest’ultima casa editrice ha aggiunto due cicatrici discrete sul volto del personaggio, per accentuare la sua africanità…

Come spiegare un tale atteggiamento? Due anni fa, Le Courrier International ha ripreso un articolo pubblicato dal sito Africa is a Country e intitolato “Littérature africaine: des couvertures de livres bien trop cliché” [Letteratura africana: copertine di libri troppo stereotipate]. L’articolo ricordava, presentando vari esempi, come le copertine della letteratura africana non potessero fare a meno di presentare i simboli che il pubblico americano si aspettava: un’acacia, il sole che tramonta sulla savana oppure, nel caso dei libri dal Maghreb, una donna con il velo.

A una domanda su questo argomento, Peter Mendelsund, direttore artistico di una delle più grandi e prestigiose case editrici americane, Knopf, attribuì la responsabilità alla pigrizia del mondo editoriale americano che, riguardo l’Africa, preferisce ricorrere a ciò che assicurerebbe il successo e che il pubblico si aspetterebbe: «Nel momento in cui il manoscritto è pronto per entrare in produzione c’è la forte tentazione di seguire un percorso già segnato. Se qualcuno osa fare qualcosa di diverso, e il libro non si vende, si sa già con chi prendersela: il tizio che non ha messo l’acacia in copertina».

È così che, nel 2006, al momento della pubblicazione negli Stati Uniti del romanzo Metà di un sole giallo della nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, anche quell’autrice ha avuto diritto alla sua acacia in copertina! L’albero in questione venne evitato dall’editore francese di Ngozi Adichie, Gallimard, che aveva saggiamente optato per una copertina più neutrale: un chiaroscuro molto contrastato, con un’apertura su un sole nascosto come durante un’eclisse.

Traduzione di Lorenzo Alunni
© 2023 by Edizioni e/o

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In Italia E/O è uno degli editori che propongono di più narrativa scritta da autori e autrici africane (ha anche organizzato un festival di letteratura africana che si terrà dal 28 settembre al primo ottobre a Città di Castello) e nel tempo le loro scelte per le copertine sono cambiate. «Pubblicare letterature poco conosciute vuol dire anche lavorare per aggiungere complessità a un certo immaginario», spiega l’editore Sandro Ferri: «Quando negli anni Settanta abbiamo cominciato a pubblicare letteratura africana, le nostre copertine erano spesso elaborazioni grafiche a partire da fotografie, sempre piuttosto realistiche. Era un’epoca in cui non eravamo invasi dalle immagini come oggi, era difficile vedere i paesaggi di paesi lontani o le persone che vi abitavano. Oggi le immagini sono dappertutto, e non sono più solo espressione di uno sguardo esterno ma vengono prodotte da chi in quei paesi ci vive e vuole raccontarli, e questo cambia le cose».

Scegliere una copertina ora significa cercare di «tradurre la storia del libro in un linguaggio visivo che sia allo stesso tempo attraente e fedele alla voce dell’autore». Ferri fa l’esempio di alcune copertine recenti: «Il silenzio del coro di Mohamed Mbougar Sarr in copertina ha solo una nuvola rossa, anche se parla di migranti e delle loro storie. Quella di I tuoi figli ovunque dispersi di Beata Umubyeyi Mairesse riprende quella francese, con dei pattern grafici tradizionali, ha senso perché racconta una vicenda profondamente radicata nella storia del Ruanda ma parla anche di memoria e di esilio, del vivere la propria cultura in un altro posto. Quella di Sotto gli alberi di Udala di Chinelo Okparanta non ha nessun riferimento all’ambientazione nigeriana del racconto, ma è una pura interpretazione grafica della trama, una storia d’amore fra due donne in un posto dove queste relazioni non sono accettate, a cui abbiamo voluto dare il massimo risalto».