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  • Martedì 27 giugno 2023

«Pensiamo sempre che ci deve pur essere, un colpevole»

Succede anche per i disastri dovuti al caso, riflette Roberto Alajmo a proposito di un romanzo di Thornton Wilder ripubblicato da Sellerio

Dettaglio della copertina di "Il ponte di San Luis Rey" di Thornton Wilder (Sellerio)
Dettaglio della copertina di "Il ponte di San Luis Rey" di Thornton Wilder (Sellerio)

Non tutti i fatti di cronaca hanno una spiegazione: continuamente sui giornali arrivano notizie di incidenti dovuti al caso, o in cui il caso ha avuto una parte importante. E in un certo senso il caso ha sempre una parte: l’incendio di un condominio, il deragliamento di un treno o l’implosione di un sommergibile hanno ovviamente cause fisiche, sequenze di eventi che hanno portato all’incidente, ma il perché tali incidenti siano avvenuti proprio nel giorno in cui certe persone si trovavano in quel condominio, su quel treno o in quel sommergibile è una coincidenza.

Accettarlo è difficile, tanto che a questo tema nel tempo sono state dedicate lunghe riflessioni. Una è un romanzo che uscì nel 1927 e che all’epoca ebbe un grandissimo successo di critica e di vendite, perché vinse un premio Pulitzer e fu il libro più venduto dell’anno successivo negli Stati Uniti: Il ponte di San Luis Rey di Thornton Wilder, appena ripubblicato in italiano da Sellerio nella traduzione di Maurizio Bartocci. Wilder immaginò che in seguito al crollo di un ponte e alla conseguente morte di cinque persone, un frate – che a sua volta aveva rischiato di essere sul ponte al momento del crollo – si mettesse a indagare per trovare un senso nascosto alla tragedia, un qualche collegamento tra le vittime che potesse spiegare perché fossero morte e lui no. Pubblichiamo la prefazione alla nuova edizione dello scrittore Roberto Alajmo, che tra le altre cose spiega l’influenza che Il ponte di San Luis Rey ebbe sul giornalismo novecentesco e quindi un po’ anche su quello di oggi.

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È un vento molto moderno quello che spazza via la polvere accumulata su Il ponte di San Luis Rey. Uscito nel 1927, il romanzo vinse il Premio Pulitzer l’anno successivo, restando per almeno un paio di generazioni un modello di narrativa strettamente imparentata col giornalismo, e questo sebbene Wilder si sia mantenuto le mani libere, rispetto alla quota di materiale storico che aveva a disposizione. Pur non essendo affatto un reportage, Il ponte di San Luis Rey è diventato un involontario modello per il cosiddetto New Journalism, non solo statunitense. Indro Montanelli ne prescriveva la lettura agli aspiranti cronisti. John Hersey lo citava esplicitamente come modello del suo Hiroshima, reportage che ricostruisce le vicende di sei sopravvissuti all’impatto della bomba atomica. In effetti lo stile di Wilder in questo romanzo possiede quel genere di asciuttezza conseguita dagli autori consapevoli della consistenza del materiale narrativo che si trovano a maneggiare. Inutile aggiungere spezie stilistiche a una vicenda che già possiede la potenza della vita e della morte.

Malgrado i citati estimatori, per questo romanzo, come per molti altri americani della sua generazione, all’immediato enorme successo internazionale ha fatto seguito, almeno fuori dal mondo anglosassone, un lento declino di popolarità. Invece, forse, in questi ultimi anni siamo in grado di capire meglio che mai l’intuizione di Thornton Wilder. Detto in estrema sintesi, è inutile cercare un disegno, provvidenziale o meno, nel destino di ogni uomo. Non c’è nessun disegno.

Un massacro, cinque vittime. E per quanto si possa sforzare, l’investigatore non riesce a risolvere il mistero. In fondo Il ponte di San Luis Rey può essere letto come un poliziesco dove il colpevole resta impunito e alla fine l’ordine del mondo non viene ripristinato. Rimane il Caos, banale anagramma della parola Caso. In definitiva bisogna rassegnarsi al fatto che molte delle cose che accadono nella vita degli uomini succedano per caso.

L’indagine frustrata di Fra’ Ginepro somiglia molto a una delusione che noi umani nell’epoca dei Grandi Progressi stiamo cominciando a conoscere. Così come lui cerca di ricostruire sulla base degli intrecci biografici delle vittime il disegno divino che presiede a un disastro apparentemente casuale, allo stesso modo noi stentiamo ad accettare che dietro ogni accadimento ci sia spesso solo il destino. Una dose madornale di puro e semplice destino. Fra’ Ginepro si accanisce a cercare la mano di Dio e ricondurla a un progetto comprensibile, noi ci sforziamo di trovare dietro ogni evento luttuoso una responsabilità riconducibile all’Uomo. Ci siamo convinti, sulla base degli enormi progressi della nostra epoca, di essere pienamente nel controllo degli eventi. Diciamola tutta: non siamo più disponibili ad accettare la nostra natura mortale.

Per questo dietro ogni disastro aereo vediamo un attentato, dietro ogni morte ospedaliera un errore medico, dietro ogni avversità un complotto contro di noi. Pensiamo sempre che ci deve pur essere, un colpevole. Attenzione: non che manchino attentati, errori medici e complotti, anzi. Ma non sempre, non solo. Senza contare che anche per rimanere vittima di un attentato serve una certa dose di semplice sfortuna. Se cade un pianoforte dal quinto piano la colpa è senz’altro dell’imperizia dei traslocatori, ma il fatto di essere o non essere proprio su quel marciapiede in quel preciso momento rimane una pura casualità. Semmai è difficile riuscire a soppesare, valutare e giudicare nelle giuste sedi la sfortuna delle vittime e la responsabilità dei colpevoli, senza che la prima attenui il peso della seconda. L’umana giustizia va esercitata senza sconti, ma è inutile sperare che possa farsi carico anche dell’incidenza del Fato.

Per gli antichi greci, che pure potevano contare su un’ampia scelta di divinità con cui prendersela, il Fato era quello che presiedeva alla vita e alla morte degli esseri umani. Magari c’era qualcuno degli Dei a dare una mano, ma era il Fato a fare sempre il grosso del lavoro. La stessa parola disastro etimologicamente fa riferimento a una cattiva predisposizione delle stelle.

Noi che abitiamo il pianeta Terra nel ventunesimo secolo, questo non riusciamo più ad accettarlo. Abbiamo sconfitto gravi malattie e allungato l’aspettativa di vita come nessuno mai aveva fatto nella storia dell’umanità. Immaginiamo di essere ormai pienamente padroni del nostro destino. E ci pare inconcepibile dover ancora sottostare ai voleri dello stesso banalissimo Fato che presiedeva all’esistenza degli Antichi. Se è vero che la morte di qualsiasi essere umano rappresenta uno spreco assurdo, noi questo spreco non siamo più disposti ad ammetterlo.

Da qui, in fondo, nasce la nostra infelicità: dal non sapere più accettare i voleri del Fato. Dal non trovare pace nella dimensione compresa fra avere molto e avere tutto.

Scrive Marguerite Yourcenar sulla scorta di Flaubert: «Quando gli Dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».

Forse, ora che Dio è morto e pensiamo di poterlo soppiantare con noi stessi, ci ritroviamo in un’identica solitudine.

E solo adesso ci rendiamo conto di quanto disperata sia, questa solitudine.

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