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  • Mercoledì 14 giugno 2023

Cosa diceva Cormac McCarthy le poche volte che si faceva intervistare

Che per lui era una perdita di tempo e che la scrittura, come il jazz, non si può spiegare, tra le altre cose

Lo scrittore Cormac McCarthy, a destra, durante una conversazione con lo scienziato David Krakauer nel 2017 (Canale YouTube di Karol Jalochowski)
Lo scrittore Cormac McCarthy, a destra, durante una conversazione con lo scienziato David Krakauer nel 2017 (Canale YouTube di Karol Jalochowski)
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Cormac McCarthy, il grande scrittore americano autore di La strada e Non è un paese per vecchi e più recentemente Il passeggero, morto martedì a 89 anni, era noto tra le altre cose per non fare presentazioni dei propri romanzi, non autografare copie dei suoi libri, non scrivere per i giornali e non avere rapporti con altri scrittori. Non si faceva nemmeno intervistare, salvo rare eccezioni. In 58 anni di carriera aveva accettato di parlare con un grande giornale solo tre volte, con il New York Times Magazine nel 1992, Vanity Fair nel 2005 e il Wall Street Journal nel 2009, e una sola volta in televisione, nel 2007 con la celebre conduttrice Oprah Winfrey, che aveva scelto La strada come lettura per il suo influente club del libro.

Proprio parlando con Winfrey della riluttanza a dare interviste disse: «Penso che non facciano bene alla testa. Si passa un sacco di tempo a pensare a come scrivere un libro, probabilmente non bisognerebbe parlare di come lo si fa, piuttosto bisogna farlo». Questo atteggiamento, sebbene comune anche ad altri scrittori, contraddistingueva McCarthy anche perché generalmente negli Stati Uniti gli autori molto apprezzati a livello letterario hanno anche una grande popolarità personale.

McCarthy non era timido, o schivo come altri famosi scrittori statunitensi, come J.D. Salinger, l’autore di Il giovane Holden, che dal 1965 al 2010, anno della morte, si rifiutò sia di apparire pubblicamente e di interagire con lettori e stampa, sia di pubblicare altri romanzi o racconti. O come Thomas Pynchon, che non ha mai voluto essere un personaggio pubblico e di cui sono note solo poche fotografie giovanili. Come disse a Winfrey, McCarthy non aveva nulla contro la stampa e i mass media, ma pensava che le interviste fossero una perdita di tempo per il suo lavoro.

Da quelle che concesse comunque si intuisce qualcosa di che persona fosse: in particolare lo scrittore appare come molto amichevole, un’immagine apparentemente molto distante dalla cupezza dei suoi libri che spesso parlano del male e della sua presenza ineluttabile nel mondo. Si capisce anche cosa pensava del suo lavoro, anche se rispondeva piuttosto laconicamente alle domande in merito.

«Non posso spiegare come si crea un romanzo», disse ad esempio nel 1973 al Kingsport Times-News, un giornale locale del Tennessee: «È come il jazz. I musicisti creano mentre suonano e forse solo quelli che lo sanno fare possono capirlo». A Winfrey disse che quando si metteva a scrivere non aveva un piano preciso: «Devi semplicemente credere in ciò da cui le parole arrivano», che nella sua idea era l’inconscio. Al Wall Street Journal nel 2009 disse di non essere interessato a scrivere racconti, ma solo romanzi, perché «tutto ciò che non richiede anni di vita e che non ti spinge verso il suicidio non mi pare valga davvero la pena».

Dal 1968, quando pubblicò il suo secondo romanzo Il buio fuori, al 1980, cioè un anno dopo l’uscita di Suttree, il quarto, McCarthy parlò in almeno dieci occasioni con giornali locali del Kentucky e del Tennessee, stati in cui aveva vissuto e aveva degli amici. Queste prime interviste sono state raccolte nel 2022 da un paio di studiosi dell’opera dello scrittore sulla rivista accademica specializzata The Cormac McCarthy Journal. In quella che diede al Maryville-Alcoa Times nel 1971 disse che non gli interessava il denaro e scrivere libri che vendessero molte copie – i suoi primi cinque libri non ne vendettero più di cinquemila ciascuno, nonostante i grandissimi apprezzamenti di critici studiosi di letteratura – ma solo la felicità: «Sono sostanzialmente molto egoista e voglio godermi la vita. Sto bene così».

Nel 1969, interrogato su quali consigli poteva dare ad aspiranti scrittori, disse solo: «Un consiglio pratico, direi, è quello di leggere. Devi sapere cosa è stato fatto. E devi capirlo». Tra gli autori da cui sentiva di essere stato influenzato citò Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj, William Faulkner, James Joyce e Herman Melville (Moby Dick era il suo libro preferito), «scrittori che hanno fegato». Nel 1992, parlando col New York Times Magazine in occasione dell’uscita di Cavalli selvaggi, aggiunse che per lui i bravi scrittori sono quelli che «si occupano delle questioni di vita e di morte». Tra questi non c’erano né Marcel Proust né Henry James, che McCarthy diceva di «non capire», di non ritenere «letteratura». «Molti scrittori che sono considerati bravi per me sono strani», disse.

Quando gli veniva chiesto come mai avesse deciso di scrivere, McCarthy citava la scrittrice Flannery O’Connor, che lapidariamente aveva risposto alla stessa domanda dicendo: «Perché sono brava a farlo».

Decise di farsi fare un’intervista dal New York Times Magazine solo dopo lunghe trattative tra la rivista e la sua agente, Amanda Urban, che gli promise che non avrebbe dovuto darne altre per molti anni. Sempre in quell’occasione disse di essere interessato a molte cose diverse, dai serpenti a sonagli alla filosofia di Ludwig Wittgenstein, e di essere contento di parlare più o meno di qualunque cosa piuttosto che della scrittura. «Tutto è interessante, penso di non essermi mai annoiato in cinquant’anni, non mi ricordo nemmeno come ci si sente».

Questa grande curiosità è anche quella che lo ha spinto negli ultimi decenni a lavorare al Santa Fe Institute, un istituto di ricerca teorica del New Mexico in cui fisici, biologi, informatici e altri scienziati studiano materie molto complesse usando approcci multidisciplinari. Al Santa Fe Institute era l’unico scrittore e passava una parte del suo tempo a stretto contatto con gli scienziati, facendosi spiegare i loro studi e riflettendoci sopra con loro: i suoi ultimi romanzi a essere pubblicati, ovvero Il passeggero, uscito in italiano a maggio, e Stella Maris, che arriverà in traduzione a settembre, devono molto a queste collaborazioni e parlano estesamente di fisica, matematica e linguaggio.

Nel 2005 a Vanity Fair disse: «Mi piace frequentare persone brillanti e interessanti e le persone che ci sono qui sono le più intelligenti e interessanti del pianeta». La scienza gli interessava perché a suo dire «rende più responsabili sul modo in cui si pensa» e «meno tolleranti per le cose non rigorose».

Nell’intervista al New York Times Magazine venne fuori anche il suo noto pessimismo: «Non c’è vita senza spargimenti di sangue. Penso che la credenza che la specie possa migliorare, che tutti possano vivere in armonia sia un’idea molto pericolosa. Quelli che sono afflitti da questa convinzione sono i primi che rinunciano alle loro anime, alla loro libertà. Il tuo desiderio che le cose vadano così ti rende schiavo e rende vuota la tua vita».

A Vanity Fair invece disse: «La maggior parte delle persone non ha mai visto la morte di qualcuno. Un tempo crescendo in una famiglia si vedevano morire tutti. Morivano nei propri letti, a casa, con tutti attorno. La morte è la questione principale. Per tutti. Non essere in grado di parlarne è strano».

Con Oprah Winfrey parlò tra le altre cose di dio, un tema ricorrente nei suoi romanzi, sempre con un punto di vista negativo. La conduttrice gli chiese se ci credesse: «Dipende dal giorno in cui me lo chiedi, ma a volte fa bene pregare. Non penso che si debba avere un’idea chiara su chi o cosa si stia pregando, lo si può fare anche avendo dei dubbi su tutta la faccenda».

All’epoca il suo ultimo libro uscito era La strada, che sebbene ambientato in un mondo post-apocalittico in cui l’umanità è stata quasi completamente distrutta, è anche il più “a lieto fine” dei suoi romanzi, e forse l’unico in cui ci sono chiaramente personaggi moralmente buoni. Winfrey gli chiese che insegnamento se ne dovesse trarre: «Semplicemente di avere a cuore le cose e le persone e apprezzarle. La vita è una gran cosa anche quando sembra brutta, dovremmo apprezzarla di più, essere grati. Non so a chi, ma dovremmo essere grati per ciò che abbiamo». Al Wall Street Journal nel 2009 disse che gli sarebbe piaciuto essere una persona spirituale, non tanto per la fede in una vita dopo la morte ma per essere una persona migliore. In quell’occasione ipotizzò anche che la bontà di una persona sia innata e che al massimo il mondo può rendere cattivi.

Sempre in quell’intervista disse del suo lavoro: «Il lavoro creativo spesso è mosso dal dolore. Può darsi che se non hai qualcosa in testa che ti fa impazzire non riesci a fare nulla. Non è un granché. Al posto di dio avrei fatto le cose diversamente. Delle cose che ho scritto alcune oggi non mi interessano più, ma mi interessavano prima che ne scrivessi. Quindi c’è qualcosa nella scrittura che le appiattisce. Le esaurisce». All’epoca McCarthy stava già lavorando su Il passeggero e Stella Maris, gli unici dei suoi romanzi che hanno una donna tra i personaggi principali, e disse che era da cinquant’anni che progettava di scrivere di una donna: «Non sarò mai abbastanza competente per farlo, ma a un certo punto bisogna provare».

Per l’uscita americana di questi ultimi libri McCarthy non si è fatto intervistare da giornalisti ma ha acconsentito a parlare col fisico Lawrence Krauss, capo dell’Origins Project dell’Arizona State University, in un video. La conversazione, che è avvenuta l’anno scorso, dura più di un’ora, ma è soprattutto Krauss a parlare: McCarthy spesso risponde a monosillabi, di frequente contraddicendo Krauss – che non ha effettivamente grandissime doti da intervistatore – e con un tono talvolta divertito. Un’altra conversazione tra McCarthy e uno scienziato, il biologo David Krakauer, era stata filmata nel 2017: in quel caso si era parlato soprattutto di isolamento, matematica e inconscio.