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  • Domenica 4 giugno 2023

La prigione in cui è rinchiuso Evan Gershkovich

Il giornalista del Wall Street Journal arrestato a marzo è a Lefortovo, dove da oltre un secolo il governo russo rinchiude i suoi oppositori

Una parte della prigione di Lefortovo, a Mosca (AP Photo, File)
Una parte della prigione di Lefortovo, a Mosca (AP Photo, File)
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Nella prigione di Lefortovo, a Mosca, è detenuto da oltre due mesi Evan Gershkovich, il giornalista americano del Wall Street Journal arrestato lo scorso marzo con accuse di spionaggio per conto degli Stati Uniti. Gershkovich è il primo giornalista statunitense arrestato in Russia dai tempi della Guerra Fredda e la prigione in cui è detenuto è nota per essere da oltre un secolo uno dei principali luoghi di detenzione di oppositori politici e giornalisti critici nei confronti del governo russo.

La prigione di Lefortovo fu costruita nel 1881 e per qualche decennio fu usata soprattutto per detenuti comuni condannati a pene brevi. Dal 1917, anno della rivoluzione bolscevica, acquisì una funzione più politica: la polizia segreta sovietica del regime di Iosif Stalin la usava per rinchiudere, interrogare, torturare e spesso uccidere gli oppositori del regime. Spesso agli interrogatori e alle esecuzioni partecipava personalmente Lavrentiy Beria, a lungo capo del Commissariato del popolo per gli affari interni (il NKVD, l’equivalente del ministero dell’Interno sovietico), noto per aver organizzato purghe e deportazioni durante il regime.

Dopo la morte di Stalin, nel 1953, la prigione di Lefortovo fu usata prima dal KGB, i servizi segreti sovietici, che ci rinchiusero dissidenti e sospettati di spionaggio, e poi dal regime del presidente russo Vladimir Putin.

Negli ultimi anni al suo interno sono stati rinchiusi diversi personaggi molto noti, spesso con accuse di spionaggio ritenute pretestuose e politicamente motivate. Tra gli altri Alexander Litvinenko, il dissidente russo morto a Londra nel 2006 dopo essere stato avvelenato, Paul Whelan, un ex marine del Michigan imprigionato nel 2018, l’ex giornalista russo Ivan Safronov, nel 2020, e ora Gershkovich, arrestato lo scorso 29 marzo in un ristorante di Ekaterinburg, nella Russia centro-occidentale. Sembra che stesse lavorando a un articolo sulle operazioni del gruppo Wagner, la compagnia di mercenari che sta combattendo al fianco dell’esercito russo in Ucraina.

In teoria la prigione di Lefortovo è riservata ai detenuti in custodia cautelare, quindi non ancora processati, ma nei fatti c’è chi è rimasto per anni. Safronov ci è stato oltre due anni, e al Washington Post ha raccontato: «Lo scopo è quello di isolare una persona, di “congelarla” per ottenere confessioni».

La prigione di Lefortovo si trova nella zona nord-est di Mosca, nell’ovest della Russia. È composta da una serie di lunghi edifici assemblati: le celle sono sul lato destro, in un insieme di edifici a quattro piani a forma di “K”. Può contenere circa 200-300 detenuti: chi ci è stato, ex detenuti o i loro legali, l’hanno descritta come una «capsula del tempo sovietica», ha scritto il Washington Post, per l’aspetto che ha, tra pavimenti malandati, odore di polvere e vecchi ritratti appesi ai muri: uno di questi è di Felix Dzerzhinsky, rivoluzionario bolscevico e capo della polizia segreta sovietica.

La prigione di Lefortovo vista da Google Maps

Vadim Prokhorov, un avvocato russo che ha difeso diverse persone rinchiuse all’interno della prigione di Lefortovo, ha detto che le regole al suo interno «sono le più rigide di tutte le prigioni in Russia». Le condizioni di detenzione prevedono un rigido isolamento, in alcuni aspetti simile a quanto previsto in Italia dal 41-bis, il regime detentivo previsto dall’omonimo articolo dell’ordinamento penitenziario e spesso chiamato “carcere duro”.

Una volta arrestati e portati alla prigione di Lefortovo, i detenuti vengono sottoposti a 10 giorni di quarantena e poi vengono trasferiti nelle celle, preferibilmente da soli. Le celle sono piccole, circa 8 metri quadrati l’una. Al loro interno c’è una branda, qualche scaffale, una piccola finestra in alto con le sbarre, un orinatoio separato solo da un piccolo paravento, un lavandino, un piccolo frigo, un tavolo e una sedia inchiodati al pavimento e una televisione che trasmette solo canali di stato.

I prigionieri possono uscire per un’ora al giorno al massimo, e possono lasciare la cella solo per interrogatori, udienze e visite mediche. Safronov ha detto che i detenuti sono autorizzati a fare solo una doccia a settimana. Le telefonate sono permesse, ma devono essere autorizzate volta per volta: Safronov ha detto che siccome non ammise di essere colpevole gli fu permesso di fare solo una telefonata in due anni di detenzione.

(YURI GRIPAS/KRT (KRT10) via ANSA)

Secondo chi ha raccontato la prigione – i detenuti in lettere o disegni, ex detenuti e avvocati in interviste – tutto al suo interno è pensato per intimidire chi ci vive e “piegarlo” psicologicamente. Le celle dei detenuti hanno uno spioncino: in un suo libro di memorie Valentin Moiseyev, diplomatico russo arrestato nel 1998 con accuse di spionaggio e detenuto per oltre tre anni, ha scritto che durante la sua prigionia gli agenti ci guardavano dentro ogni due o tre minuti.

Sempre Moiseyev ha raccontato che i pavimenti degli edifici in cui sono collocate le celle sono ricoperti da lunghi tappeti: «non sono lì per bellezza o per piacere agli occhi dei prigionieri, ma perché i passi non rompano il silenzio assoluto della cripta, che è opprimente e fa fischiare le orecchie», ha scritto. Safronov invece ha raccontato che durante l’ora d’aria la direzione fa partire la musica molto alta in tutti gli ambienti per impedire il più possibile ai detenuti di parlare tra loro.

Nella prigione di Lefortovo c’è una biblioteca, apparentemente ben fornita, e regolarmente controllata dagli agenti per evitare che all’interno dei libri vengano inserite note o messaggi tra i detenuti.