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  • Giovedì 11 maggio 2023

Il ruolo dei velocisti in un ciclismo con meno volate

Le tappe piatte, quelle con uno scontato arrivo in volata per ciclisti “alla Cipollini”, sono meno di un tempo e i velocisti si devono adattare

(Jasper Jacobs/Belga via ZUMA Press)
(Jasper Jacobs/Belga via ZUMA Press)
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La tappa di mercoledì del Giro d’Italia è stata vinta dal velocista australiano Kaden Groves. E anche la tappa di giovedì, con partenza e arrivo a Napoli, potrebbe finire con una volata. Tappe di questo tipo stanno però diventando più rare nel ciclismo contemporaneo. E anche quando ci sono arrivano in genere dopo tappe movimentate, con salite e percorsi che rendono la volata un esito probabile ma non, come spesso succedeva fino a uno o due decenni fa, qualcosa di praticamente certo e quasi perfino ineluttabile. 

Sta succedendo al Giro d’Italia, ma anche al Tour de France, e lo si vede anche in diverse corse di un giorno. Questa tendenza sta rendendo sempre più difficile la vita dei velocisti, ossia i corridori come Mario Cipollini, Alessandro Petacchi o Elia Viviani, dotati cioè di un grande spunto veloce da sfruttare nelle ultime centinaia di metri di un arrivo in genere pianeggiante e rettilineo.

«Sono lontani i tempi» aveva scritto L’Équipe a inizio anno «in cui la prima settimana del Tour de France era fatta tutta di tappe piatte come laghi, cosa che nel 1999 permise a Cipollini di vincere quattro tappe di fila già nei primi giorni». E già a fine 2022 Viviani, campione olimpico e vincitore di tappe a Giro, Tour e Vuelta di Spagna, aveva detto alla Gazzetta dello Sport «il velocista puro andrà a scomparire». Tra il 2003 e il 2005 Petacchi, ora commentatore Rai, vinse 24, 21 e 25 volate a stagione; mentre nel 2022 il velocista più vincente, l’olandese Fabio Jakobsen, ha vinto in 12 occasioni.

Le ragioni di questo cambiamento sono diverse e non tutte recenti. Anzitutto c’è il fatto che, per quello che viene raccontato come un diverso interesse degli spettatori, e quindi televisivo e di conseguenza anche di chi organizza le corse e ne decide i percorsi, si cerca di fare meno tappe tutte pianeggianti e su percorsi dove né il vento né certi tipi di terreno (per esempio gli sterrati o il pavé) possano creare grande scompiglio. Ci sono insomma, prima di tutto, meno tappe destinate a concludersi con grandi volate, e quindi meno opportunità per i velocisti.

C’entrano inoltre altri fattori, come la riduzione del numero di corridori che ogni squadra può portare al Giro o al Tour (erano nove fino a pochi anni fa e ora sono otto) e il fatto che sempre più squadre puntino alla classifica generale con almeno un loro corridore. Una delle conseguenze è che ci sono meno posti in squadra per i velocisti e soprattutto per i corridori scelti per assisterli e guidarli al meglio, attraverso i cosiddetti “treni” (Cipollini ne ebbe di molto efficaci), fino agli ultimi metri della corsa.

C’è poi il fatto che, non solo in conseguenza di queste evoluzioni, sono cambiati i corridori e l’approccio di molti di loro alle corse. Senza aver cambiato in modo rilevante il suo percorso, una grande classica come la Milano-Sanremo è passata negli ultimi anni dall’essere vinta spesso da velocisti — tra gli altri Cipollini e Petacchi — all’essere vinta o perlomeno contesa da corridori tra loro molto diversi, che velocisti lo sono solo in parte o che proprio non lo sono.

Un po’ per propensione di certi corridori (il belga Arnaud De Lie, ottimo in volata, ha detto all’Équipe che «odia essere descritto come uno che aspetta gli ultimi 200 metri») un po’ per necessità (ci sono sempre meno volate “pure” e predeterminate), i corridori hanno insomma dovuto adattarsi.

I velocisti di un tempo, con fisici e abilità pensate quasi solo in funzione delle volate (in particolare meglio quelle al termine di tappe quasi del tutto pianeggianti) sono ormai sempre più rari, soprattutto nella nuova generazione di ciclisti. Ormai, visto che anche le tappe che finiscono in volata lo fanno dopo percorsi vallonati, con diverse salite, i velocisti si sono dovuti adattare: tendono ora a essere più “ibridi” nelle loro qualità, ad avere fisici diversi, più adatti anche alle salite, e ad essere più duttili, capaci cioè di adattarsi a percorsi ed evoluzioni di corsa che non siano solo una volata di gruppo.

Le volate, tuttavia, continuano a restare una parte integrante del ciclismo. Richiedono, già da molti chilometri prima dell’arrivo, un lavoro tattico non indifferente e si prestano a essere sintetizzate e analizzate in ogni loro dettaglio, seppur con il rischio che di certe volate si finisca di parlare di più per cadute o incidenti che per il loro esito. È successo per esempio dopo la quinta tappa del Giro d’Italia, arrivata a Salerno dopo tanta pioggia e molte cadute con una volata che, tra le altre cose, ha mostrato quanto possa essere estremo il lavoro del velocista.

 

C’è inoltre il fatto che, specie durante le grandi corse a tappe, certi percorsi pianeggianti servono: agli organizzatori per spostarsi di zona in zona, e a certi corridori per prendersi un po’ di riposo, anche solo mentale, prima o dopo le tappe più movimentate.

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