Sulla riduzione del cuneo fiscale il governo ha un po’ esagerato

Non è il «più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni» e i sindacati la criticano perché è solo temporanea

di Mariasole Lisciandro

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante il Consiglio dei ministri del primo maggio (Filippo Attili/Ufficio Stampa/LaPresse)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante il Consiglio dei ministri del primo maggio (Filippo Attili/Ufficio Stampa/LaPresse)
Caricamento player

Il governo di Giorgia Meloni ha approvato lunedì un decreto-legge che contiene, tra le altre cose, una riduzione temporanea dei contributi a carico dei lavoratori per i redditi medi e bassi, che ridurrà così il costo del lavoro e farà aumentare gli stipendi netti. Interviene sul cosiddetto cuneo fiscale, ossia la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quello che il lavoratore percepisce come stipendio netto: la misura punta ad aumentare il potere d’acquisto dei redditi medi e bassi, ridotto notevolmente dall’aumento dei prezzi di questi ultimi mesi.

Già il governo di Mario Draghi aveva introdotto una misura simile per salvaguardare i redditi dall’inflazione, ma in generale la riduzione del cuneo fiscale è un tema di cui in Italia si parla da decenni. Tutti sono d’accordo sul fatto che sia troppo alto e vada ridotto, tuttavia nella pratica farlo è complicato. In questo caso la riduzione prevista dal governo Meloni è stata criticata dai sindacati soprattutto perché è una misura temporanea, valida da luglio e fino al prossimo dicembre. Ma anche perché si inserisce in un decreto complessivamente duro nei confronti delle fasce più svantaggiate, e che prevede una sostanziale revisione del reddito di cittadinanza e l’allentamento delle regole per il rinnovo dei contratti a termine oltre i 12 mesi.

Il decreto del governo interviene sul cuneo fiscale con una misura che vale solo da luglio a dicembre: per i redditi fino a 25mila euro all’anno la riduzione sarà di 4 punti percentuali, e si aggiungerà a quella da 3 punti già in vigore nel 2022, pari in media a circa 96 euro lordi al mese in più in busta paga. Per i redditi fino a 35mila euro il taglio aggiuntivo sarà sempre di 4 punti, che si aggiungerà al precedente del 2 per cento, per una media di 99 euro lordi al mese. La misura dovrebbe costare in totale 4,1 miliardi di euro.

Il cuneo fiscale è la somma di due componenti principali, l’imposta sul reddito delle persone fisiche da un lato (IRPEF) e i contributi previdenziali e assistenziali dall’altro. Il dipendente si fa carico dell’imposta e di parte dei contributi, il datore di lavoro della restante parte dei contributi. La riduzione prevista dal governo Meloni impatterà solo la parte di contributi pagata dai dipendenti.

L’intervento è in continuità con quelli passati: lo scorso anno il governo Draghi aveva predisposto la stessa misura per proteggere il potere d’acquisto degli stipendi più bassi, il governo Meloni l’ha confermato nell’ultima legge di bilancio e l’ha ulteriormente potenziato con quest’ultimo decreto.

In linea di principio c’è un generale consenso sulla necessità di ridurre il cuneo fiscale e soprattutto sull’urgenza di farlo in questo momento storico, con l’inflazione che impoverisce i lavoratori con un reddito fisso. Il cuneo fiscale rappresenta un onere importante sia per le imprese, che devono far fronte a costi aggiuntivi al semplice stipendio del dipendente, ma anche per il lavoratore stesso, che vede ridursi la sua retribuzione netta a causa di imposte e trattenute.

Le risorse a disposizione del governo però erano piuttosto esigue e la misura rischia di avere un impatto relativo. Nonostante questo la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha rivendicato il taglio del cuneo fiscale come il «più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni». Come ha scritto il sito di fact-checking Pagella Politica, l’affermazione di Meloni è quantomeno esagerata: sia il governo Draghi che il governo di Matteo Renzi avevano adottato misure simili, stanziando peraltro risorse più consistenti.

È però la parte del decreto su cui il governo sta investendo di più politicamente, nonostante le altre due misure siano più incisive e soprattutto permanenti: una sostituisce il reddito di cittadinanza, il principale strumento di sostegno al reddito in Italia che verrà rimpiazzato con un più rigido “Assegno di inclusione”; l’altra ha cambiato le regole per il rinnovo dei contratti a termine oltre i 12 mesi, che con le regole attuali sono consentiti solo in casi eccezionali mentre con le nuove sarà possibile farlo più facilmente.

Anche per questi motivi i sindacati hanno contestato sia il taglio del cuneo fiscale che il decreto-legge nel suo complesso. Il segretario generale della CGIL Maurizio Landini ha detto che il taglio del cuneo fiscale risponde a una richiesta dei sindacati, ma ha criticato le modalità con cui è stato attuato perché «si tratta di una misura temporanea, non strutturale». Ha invece contestato completamente le altre due principali misure, la cancellazione del reddito di cittadinanza e quella che ha definito una «liberalizzazione» dei contratti a tempo determinato. Anche secondo Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della UIL, «il decreto aumenta la precarietà», mentre Luigi Sbarra, segretario generale della CISL, è stato più conciliante.

Le misure volte a ridurre il cuneo fiscale sono complicate da introdurre anche dal punto di vista politico, perché chi le attua deve decidere se tagliare le tasse ai lavoratori o alle imprese: si riducono gli oneri a carico delle aziende (come l’IRAP e i contributi) o le tasse sul reddito (per esempio l’IRPEF) a carico dai lavoratori? Il rischio è di scontentare l’una o l’altra categoria, e inoltre è un intervento assai costoso.

Nella storia italiana sono stati tanti gli interventi per ridurre la tassazione sul lavoro, ma tutti relativamente ridotti e spesso solo temporanei: e infatti l’effetto sui costi per le imprese e sulle buste paga è stato spesso trascurabile.

Quello più noto fu nel 2014, quando il governo guidato da Matteo Renzi introdusse il bonus IRPEF da 80 euro, un credito di imposta che il datore di lavoro corrispondeva direttamente in busta paga al lavoratore con un reddito annuale lordo fino a 24.600 euro. Fu un intervento tutto sommato apprezzato, perché i lavoratori si sono ritrovati in busta paga 960 euro l’anno in più, ma anche contestato perché ritenuto troppo “assistenzialista”. Nessun governo successivo lo ha mai revocato e oggi, per i redditi sopra ai 15 mila euro, è stato incorporato nelle nuove forme di detrazione fiscale per il lavoro dipendente.

Ma misure di questo tipo sono molto costose: quando fu introdotto, il bonus Renzi costava tra i 7 e i 10 miliardi di euro l’anno. Inoltre bisogna considerare che misure di questo tipo devono essere finanziate con fondi strutturali: significa che non si possono fare facendo ogni anno più debito pubblico o ricorrendo a entrate una tantum, ma si deve prevedere o una riduzione di altre spese o un aumento delle tasse per finanziare queste nuove misure.
Una riduzione del cuneo fiscale che abbia un impatto rilevante sui lavoratori e sulle aziende – e che funzioni quindi anche a livello politico – comporta un costo assai alto e non è facile da realizzare.

Un altro punto da considerare se si vuole tagliare il cuneo fiscale è come lo stato può colmare le mancate entrate che ne deriverebbero. Le imposte sui redditi da lavoro finanziano i servizi generali, come la sanità, la manutenzione delle strade, le scuole e così via; i contributi finanziano le pensioni e le molte tutele di cui beneficiano tutti i lavoratori, come l’assistenza sanitaria, i congedi per malattia e quelli parentali, la maternità e la paternità, la disoccupazione, l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Lo stato deve quindi trovare un’alternativa per continuare a erogare questi servizi, altrimenti c’è il rischio di doverli ridurre.

In Italia il cuneo fiscale è comunque molto alto: secondo i dati diffusi annualmente dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che considerano la retribuzione media di un lavoratore single, l’Italia è il quinto paese con il cuneo fiscale più alto, pari al 45,9 per cento del costo complessivo del lavoro, a fronte di una media del 34,6 per cento. Questo significa che se il costo complessivo del lavoro è pari a 100 euro, il dipendente percepisce come retribuzione netta solo 54,1 euro. La restante parte, ossia il cuneo fiscale, è a carico di dipendente e datore di lavoro: l’azienda paga 24 euro e il lavoratore 22,5.