In Italia si parla da anni di ridurre il cuneo fiscale

È un classico tema da campagna elettorale, e un taglio temporaneo è anche nel decreto "Aiuti bis": ma gli interventi concreti sono pochi

di Mariasole Lisciandro

(Oliver Berg/dpa)
(Oliver Berg/dpa)
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Giovedì sera il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto “Aiuti bis”: vale circa 17 miliardi di euro e contiene tante misure a sostegno di imprese e famiglie, che si ritrovano ad affrontare grossi rincari del costo della vita a causa dell’inflazione di questi mesi. Tra le altre cose, il governo ha deciso di potenziare ed estendere il taglio del cuneo fiscale, in breve del costo del lavoro, che era stato già previsto per quest’anno.

Il cuneo fiscale è una questione di cui in Italia si parla da decenni, e su cui sono intervenuti moltissimi governi: è anche un tema molto trattato nelle campagne elettorali, e questa piccola riduzione decisa nel decreto “Aiuti bis” potrebbe accentuarne la discussione.

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L’intervento deciso dal governo è temporaneo e introduce una riduzione dell’1,2 per cento dei contributi pagati dai lavoratori con un reddito fino a 35 mila euro, che si somma allo sconto dello 0,8 per cento fissato dalla legge di bilancio 2022 per i dipendenti pubblici e privati. Il totale del taglio sale così al 2 per cento da luglio a dicembre, con un costo per lo stato pari a 1,2 miliardi.

Il sindacato UIL ha fatto una simulazione sugli aumenti che i dipendenti vedranno in busta paga fino alla fine dell’anno. Hanno tenuto conto della vecchia ipotesi di una riduzione dell’1%, ma un taglio dell’1,2% non dovrebbe produrre risultati molto diversi: 15,47 euro lordi in più al mese per un dipendente del settore privato con uno stipendio medio di 20.111 euro lordi all’anno. Molti hanno giudicato queste cifre come marginali, come il segretario generale della UIL Pierpaolo Bombardieri, che in un’intervista al Fatto Quotidiano ha parlato di «elemosina» a lavoratori e pensionati.

Il taglio del cuneo fiscale si ripropone da anni nella discussione politica quando si parla di riduzione delle tasse. La campagna elettorale appena iniziata è già piena di impegni dei partiti in questo senso.

Cos’è il cuneo fiscale
Il cuneo fiscale è la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quello che il lavoratore percepisce come stipendio netto. È la somma di due principali componenti: l’imposta sul reddito delle persone fisiche da un lato (IRPEF) e i contributi previdenziali e assistenziali dall’altro. Il dipendente si fa carico dell’imposta e di parte dei contributi, il datore di lavoro della restante parte dei contributi.

In Italia il cuneo fiscale è molto alto: secondo i dati diffusi annualmente dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che considerano la retribuzione media di un lavoratore single, l’Italia è il quinto paese con il cuneo fiscale più alto, pari al 46,5 per cento del costo complessivo del lavoro, a fronte di una media del 34,6 per cento. Questo significa che se il costo complessivo del lavoro è pari a 100 euro, il dipendente percepisce come retribuzione netta solo 53,5 euro. La restante parte, 46,5 euro, ossia il cuneo fiscale, è a carico di dipendente e datore di lavoro: l’azienda paga 24 euro e il lavoratore 22,5.

Si può pensare al cuneo fiscale anche in rapporto alla retribuzione netta: se lo stipendio netto è di 100 euro, a questi vanno sommati altri 42 a carico del lavoratore e 45 a carico dell’impresa. Il cuneo fiscale è quindi di 87 euro in Italia, quasi quanto un’altra retribuzione intera.

Secondo i calcoli di Enzo De Fusco e Giorgio Pogliotti sul Sole 24 Ore, il cuneo fiscale reale in Italia è ben più alto del calcolo OCSE, che si basa solo su una media. Analizzando i bollettini delle entrate fiscali, a fronte di 300 miliardi di salari lordi corrisposti in media ogni anno nel settore privato, lo stato incassa circa 100 miliardi di contributi previdenziali e 80 miliardi di imposta sul reddito (IRPEF), per un totale di 180 miliardi di euro a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori. Il cuneo fiscale reale nel settore privato si attesta quindi al 60 per cento.

Tutti sono d’accordo nel ridurlo, ma perché non si fa?
Il cuneo fiscale rappresenta un onere enorme sia per le imprese, che devono far fronte a costi aggiuntivi al semplice stipendio del dipendente, ma anche per il lavoratore stesso, che vede erosa la sua retribuzione netta a causa di imposte e trattenute.

Ridurre questi oneri avrebbe molti vantaggi. Se si riducono i costi del lavoro a carico delle imprese, per queste diventerà più conveniente assumere e stabilizzare e si darebbe un buon impulso al mercato del lavoro; se si tagliano gli oneri per i dipendenti, il loro reddito disponibile aumenterà ed è probabile che questi spenderanno più in consumi e investimenti.

Quindi, è facile intuire come la riduzione del cuneo fiscale metta in teoria tutti d’accordo: sindacati e imprese lo chiedono da sempre e i partiti politici lo promettono da anni.

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Nella storia italiana sono stati tanti gli interventi per ridurre la tassazione sul lavoro, ma tutti piuttosto marginali e spesso solo temporanei, tant’è che l’effetto sui costi per l’impresa e sulle buste paga era spesso trascurabile.

Nel 2014 il governo guidato da Matteo Renzi introdusse il bonus IRPEF da 80 euro, un credito di imposta che il datore di lavoro corrispondeva direttamente in busta paga al lavoratore con un reddito annuale lordo fino a 24.600 euro. Quest’ultimo è stato un intervento particolarmente apprezzato dai lavoratori, che si sono ritrovati in busta paga 960 euro l’anno in più. Nessun governo successivo lo ha mai revocato, anche perché il costo di farlo in termini di popolarità sarebbe stato piuttosto alto. Il bonus Renzi è stato poi potenziato negli ultimi due anni, e oggi, per i redditi sopra ai 15 mila euro, è stato incorporato nelle nuove forme di detrazione fiscale per il lavoro dipendente.

Ma misure di questo tipo sono molto costose: quando è stato introdotto, il bonus Renzi costava tra i 7 e i 10 miliardi di euro l’anno. Inoltre, bisogna considerare che misure strutturali devono essere finanziate con fondi altrettanto strutturali. Significa che non si possono fare facendo ogni anno più debito pubblico, ma si deve prevedere o una riduzione di altre spese o un aumento delle tasse per finanziare queste nuove misure.
Una riduzione del cuneo fiscale che sia effettivamente visibile dai lavoratori e dalle aziende – e che funzioni quindi anche a livello politico – deve essere per forza di cose molto costosa e ambiziosa. Dunque, non è di facile realizzazione.

Un altro punto da considerare se si vuole tagliare il cuneo fiscale è come lo stato può colmare le mancate entrate che ne deriverebbero. Le imposte sui redditi da lavoro finanziano i servizi generali, come la sanità, la manutenzione delle strade, le forze dell’ordine e così via; i contributi finanziano le pensioni e le molte tutele di cui beneficiano tutti i lavoratori, come l’assistenza sanitaria, i congedi per malattia e quelli parentali, la maternità, la disoccupazione, l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Lo stato deve quindi trovare un’alternativa per continuare a erogare questi servizi, altrimenti il rischio è vedere pensioni più basse o quello di dover rinunciare a forme di tutela a cui i lavoratori sono ormai abituati.

Anche dal punto di vista politico non è un intervento facile. Chi lo attua deve decidere se tagliare le tasse ai lavoratori o alle imprese: si riducono gli oneri a carico delle aziende (come l’IRAP e i contributi) o le tasse sul reddito (per esempio l’IRPEF) a carico dai lavoratori? Il rischio è di scontentare l’una o l’altra categoria.

La storia italiana è piena di annunci vaghi sul taglio del cuneo fiscale, e anche in questa campagna elettorale non sembrano mancare.

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Una proposta ambiziosa era arrivata in primavera da Confindustria, con un costo totale per lo stato pari a 16 miliardi di euro l’anno, per due terzi a favore dei lavoratori (10,7 miliardi) e un terzo delle imprese (5,3 miliardi). Il beneficio massimo, per una retribuzione da 35 mila euro lordi, sarebbe stato di 795 euro netti all’anno. I sindacati e tutti i partiti politici si dimostrarono d’accordo e il presidente di Confindustria Carlo Bonomi replicò in modo provocatorio: «Tutti i leader dei partiti sono d’accordo, allora fatelo lunedì».

Il segretario del Partito Democratico Enrico Letta a giugno aveva proposto un taglio molto ambizioso del cuneo fiscale, che avrebbe portato ai lavoratori una mensilità netta in più all’anno, da finanziarsi con generici fondi derivanti dalla lotta all’evasione.
Anche per Azione, +Europa e Italia Viva tutte le risorse recuperate dalla lotta all’evasione fiscale dovranno essere reimpiegate per la riduzione del carico fiscale.

La coalizione di destra propone invece una riduzione a tre delle aliquote IRPEF, ossia al 15, 23 e 33 per cento, una cosiddetta “flat tax” per il ceto medio e il superamento dell’IRAP. La flat tax, peraltro, è da sempre al centro del programma fiscale della Lega.

Visto che ancora non ci sono programmi precisi, le proposte sono molto vaghe, non indicano quale parte del cuneo tagliare né come finanziare la misura. Viste tutte le decisioni scomode che si devono prendere quando si vuole introdurre una misura di questo tipo, la vaghezza risulta anche una strategia elettorale.