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  • Lunedì 1 maggio 2023

Com’è che il Perù è diventato il primo esportatore di mirtilli al mondo

È successo tutto in poco più di dieci anni, grazie all'intuizione di un ingegnere e alle opportunità del mercato

mirtilli
(AP Photo/ Robert F. Bukaty, File)
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Fino a poco tempo fa il Perù era un paese in cui le coltivazioni di mirtilli erano una rarità, per ragioni legate al clima e alle caratteristiche del territorio: nel giro degli ultimi dieci anni invece la produzione è aumentata moltissimo e il paese sudamericano è diventato il primo esportatore al mondo. Quello della produzione di mirtilli in Perù è un settore ancora giovane, ma si pensa che continuerà a crescere sempre di più: il suo sviluppo si deve soprattutto all’intuizione di un ingegnere e all’opportunità di colmare un vuoto di mercato.

Nel 2022 il Perù ha esportato più di 275mila tonnellate di mirtilli a fronte di una produzione nazionale di oltre 292mila, per un valore complessivo di circa 1,23 miliardi di euro: 16 volte le esportazioni del 2013, circa 17mila tonnellate. Per dare l’idea, secondo i dati citati dal World Economic Forum, una fondazione senza fini di lucro con sede a Ginevra, nel 2010 in Perù erano state prodotte solo 30 tonnellate di mirtilli: nel 2020 quasi 180mila. Anche in Italia, dove in estate si trovano i mirtilli provenienti dalle regioni del Nord o dalla Spagna e altri paesi europei, molti di quelli venduti in inverno arrivano da Perù e Cile.

L’agronomo Álvaro Espinoza, proprietario dell’azienda Sunberries Field, che produce mirtilli nel sud del Perù, ha spiegato a BBC News che dieci anni fa i mirtilli erano visti come «qualcosa di impossibile da coltivare» in Perù. Eppure in questi anni le coltivazioni di questi frutti hanno cominciato a sostituire gradualmente quelle tradizionalmente più diffuse, come uva e asparagi, e il paese è diventato uno dei primi produttori al mondo, assieme a Stati Uniti, Canada e Cile. Un’analisi dell’azienda di servizi bancari e finanziari canadese Scotiabank ha stimato che nella stagione 2022/2023 il Perù ne esporterà circa 285mila tonnellate, il 30 per cento in più rispetto alla stagione 2021/2022.

Le piante di mirtilli crescono bene in climi freschi, ma le zone del Perù con le condizioni ideali sono anche quelle più selvagge e difficili da raggiungere; quelle più pianeggianti, lungo la costa, dove ci sono le altre principali coltivazioni, sono invece troppo aride. Nonostante queste difficoltà, c’è una persona in particolare che ha avuto l’intuizione di sviluppare il settore nel paese: è Carlos Gereda, che negli ultimi vent’anni ha lavorato per trovare varietà di piante adatte a essere coltivate anche in zone più calde o aride della norma, e che di fatto ha reso possibile lo sviluppo del settore in Perù.

Gereda ebbe l’idea di dedicarsi alla coltivazione dei mirtilli nel 2002, quando alcuni amici di famiglia gli parlarono dei ricchi raccolti del Cile, uno dei principali produttori di questi frutti, che confina con il sud del Perù. Allora Gereda studiava ingegneria gestionale, ma era sempre stato appassionato di agricoltura. Grazie a una collaborazione con l’Istituto di biotecnologia dell’Università nazionale agraria La Molina, cominciò a clonare e a coltivare in Perù 14 varietà di piante autoctone del Cile: osservò che quattro di loro davano buoni risultati anche nel suo paese e che quella più resistente era la Biloxi, oggi una delle due più usate per la produzione assieme alla Ventura.

Nel 2007 Gereda fondò l’azienda Inka’s Berries, che oltre a coltivare mirtilli in quattro regioni del Perù cominciò a fornire le piante delle varietà più resistenti sia a piccoli produttori, come Sunberries Field, che a grosse multinazionali, come Camposol. La grande diffusione di piante più resistenti favorì l’aumento delle coltivazioni di mirtilli e la crescita della produzione. Il vantaggio più grosso però lo diede un altro tipo di opportunità.

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L’amministratore delegato di Camposol, José Antonio Gómez, ha spiegato che il successo dei mirtilli peruviani è legato a un vuoto nel mercato internazionale delle esportazioni. In Stati Uniti e Canada si raccolgono ad agosto e sono destinati perlopiù ai mercati nazionali, mentre in Cile il raccolto si fa a dicembre, il mese in cui comincia l’estate, e poi comincia a fare troppo caldo. Fino a qualche anno fa tra settembre e novembre la domanda dall’estero veniva soddisfatta solo in minima parte con i frutti prodotti in Argentina e Uruguay, venduti a prezzi molto elevati. Il Perù così puntò a produrre ed esportare i mirtilli anche in questo periodo.

Gómez ha raccontato a BBC News di non aver mai visto un prodotto crescere così in fretta nel suo settore. In dieci anni la richiesta è più che raddoppiata, dice, e oggi i mirtilli sono i principali prodotti commerciati da Camposol, che adesso è il primo esportatore del Perù: nel 2022 l’azienda ne ha raccolto circa 50mila tonnellate, che valgono poco più della metà dei suoi ricavi. Inka’s Berries invece impiega 600 dipendenti fissi, che nel periodo della raccolta diventano quasi 3mila, ed esporta prevalentemente verso Stati Uniti, Paesi Bassi, Hong Kong e Regno Unito da agosto a dicembre.

Il giornale peruviano El Peruano scrive che in media in Perù si producono 13 tonnellate di mirtilli ogni 10mila metri quadrati e che negli ultimi anni sono aumentati sia i terreni dedicati alle coltivazioni sia le regioni in cui si coltivano (Camposol per esempio ha una superficie coltivata di circa 30 chilometri quadrati e Inka’s Berries di 20). Nonostante le previsioni positive, Espinoza ha detto che il settore sta attraversando un periodo di difficoltà a causa dell’aumento dei costi di produzione: nella sua azienda sono cresciuti del 40 per cento, dice, in parte per via dell’aumento dei prezzi dei fertilizzanti a causa della guerra in Ucraina e in parte per quello dei costi di spedizione.

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