Il 25 aprile di mio nonno, gerarca

«Non era una festa per tutti. La trascorrevamo nel silenzio selvatico delle montagne d’Abruzzo. Era la giornata della reticenza. Avrei scoperto solo alle medie, sul libro di storia, chi era stato il padre di mio padre, e la vera ragione per la quale non si presentasse mai all’uscita di scuola. Non era semplicemente “morto in guerra”. Eccolo lì il suo cadavere, le braccia penzoloni, la corda intorno agli stivali, il cognome a stampatello sulla pensilina di piazzale Loreto»

Il segretario del Partito fascista repubblicano e fondatore delle Brigate nere Alessandro Pavolini con Vincenzo Costa, federale del Partito fascista di Milano, passano in rassegna gli squadristi della VIII Brigata Nera Aldo Resega, Milano, estate 1944
Il segretario del Partito fascista repubblicano e fondatore delle Brigate nere Alessandro Pavolini con Vincenzo Costa, federale del Partito fascista di Milano, passano in rassegna gli squadristi della VIII Brigata Nera Aldo Resega, Milano, estate 1944
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Sono nato il 24 aprile. E ho un fratello che è nato il 26 aprile, un anno dopo. Il 25 a casa nostra c’era un buco, niente festa. Anzi circolava persino il sospetto di essere nati entrambi in quella data lì in mezzo, ma essere stati registrati all’anagrafe un po’ prima e un po’ dopo. Eravamo fratelli divisi dal 25 aprile per evitare l’assurda coincidenza di festeggiare i nostri compleanni in un giorno che in famiglia, se non propriamente di lutto ostentato, era di dolorosi privati ricordi, visto che il padre di mio padre, Alessandro Pavolini – comandante generale delle Brigate nere, in quanto segretario del Partito fascista di Salò, quindi principale nemico di ogni partigiano – per realizzare la liberazione a cui verrà intitolata la festa del 25 aprile, viene fucilato a Dongo e appeso a testa in giù a piazzale Loreto.

Il 25 aprile non era una festa per tutti. Lo trascorrevamo nel silenzio selvatico delle montagne d’Abruzzo. Era la giornata della reticenza. Avrei scoperto solo alle medie, sul libro di storia, chi era stato mio nonno, e la vera ragione per la quale non si presentasse mai all’uscita di scuola. Non era semplicemente “morto in guerra”. Eccolo lì il suo cadavere, le braccia penzoloni, la corda intorno agli stivali, il cognome a stampatello sulla pensilina, la vernice colava un po’. E la foto urlava, letteralmente. Ogni volta che la guardavo sentivo le grida della folla intorno. Degli italiani. Ho cominciato a scriverne quando ho avuto la stessa età di quel cadavere, quarantadue anni. Incontri, interviste, letture per decifrare la rabbia di quella folla che gli sputava addosso, ma anche per cercare di capire le idee e le speranze che avevano portato mio nonno a credere nel fascismo fino al suo tragico esito, e con lui non erano in pochi, e sicuramente erano stati in tantissimi. Perché quella passione tenace per il fascismo? Intorno a questa domanda sono cresciute per me vere e proprie amicizie, con scrittori e intellettuali che dialogavano con il fascismo quotidianamente, incantati da Fiume, come Aurelio Picca, o dalle bonifiche del Ventennio, come Antonio Pennacchi. O come Uri Cohen, italianista israeliano che conosceva gli scritti di Alessandro Pavolini meglio di me e si accaniva a interrogarmi sui destini della famiglia prima e dopo il 25 aprile.

Ecco, la liberazione, se pure era avvenuta, non aveva espulso noi in quanto famiglia dal corpo del paese, non contavamo origini aliene, nessuno di noi provenendo da altrove aveva invaso alcunché, bensì come in quasi tutte le famiglie italiane avevamo esperienza di una spinosa frontiera interna lungo la quale correre avanti e indietro mantenendo integro l’affetto per adorate prozie ebree – la cognata di Alessandro Pavolini si chiamava Marcella Hannau – o l’ammirazione per zii dirigenti comunisti.
E perché questa corsa riuscisse serviva equilibrio. A tratti equilibrismo.

Si era consumata una guerra civile, anche se questa verità è stata a lungo rifiutata, che veniva da lontano, dalle divisioni e dalle violenze del biennio rosso e forse ancora più indietro dalla frattura di fronte all’intervento nella Grande Guerra, e forse ancora prima, dalla questione delle questioni che si chiama Patria. Tutte cose per cui ci si è uccisi tra fratelli, cioè tra persone cresciute insieme. Una sorta di ininterrotto cruento rubabandiera per intestarsi la qualifica di “patriota” cioè colui che fa del bene alla comunità nazionale contro coloro che ne sono il male al punto da doverne essere eliminati, come minimo perché traditori.

Rubabandiera è un vecchio gioco. Quasi soltanto un modo di dire. La posta in palio è talmente irrisolta da essere ormai scaduta e inservibile, regressiva in un mondo globale. Eppure. Patria, patria, patria, si sente echeggiare ovunque, come se questa guerra civile si dovesse ancora combattere, come se fosse ancora possibile consumare vendette e regolamenti di conti. Leggere Fenoglio, Calvino, Bassani, Vittorini, Pavese, Meneghello… non basta? Son loro a raccontare di una guerra civile e di una liberazione difficile. Son loro a dirci che se all’inizio di una guerra può assegnarsi una data, quando le prime vittime giacciono sul selciato e la catena di violenze tra fazioni è instaurata, la fine invece è un periodo, che dura perlomeno quanto l’esistenza di chi ha vissuto il conflitto, a diverso titolo, e quindi a differenti profondità soffrendone gli effetti.

Festa della Liberazione, se può esistere, fa parte del romanzo delle generazioni. Perché se è vero che, quando si trattava di ricomporre la comunità degli italiani nell’immediato dopoguerra, c’è stato chi per forza ha chiuso sbrigativamente i conti – secondo antropologie meridiane inclini a un umanissimo, arraffazzonato compromesso – oggi invece la vita pubblica ha come protagoniste generazioni di nipoti e pronipoti adulti e vaccinati che avvertono (dovrebbero avvertire?) una spinta inversa, la necessità di penetrare ogni reticenza e di conoscere in che modo si era stati fascisti, in che modo ad esempio gli italiani avevano contribuito alla deportazione degli ebrei loro vicini di casa (ora sappiamo che la metà degli arresti è stata resa possibile dalle nostre delazioni) o avevano ferocemente imposto la colonizzazione nel Corno d’Africa. E soprattutto voler finalmente tener conto di quanto il caso, l’opportunismo, la fortuna abbiano agito sulla forza delle idee e il coraggio di fronte ai bivi della Storia. Poterne parlare infine apertamente, anche perché non più portatori di responsabilità né di ferite dirette, ma soltanto di una trasmissione di traumi familiari, diluiti ormai nel tempo.

Resistenza, nella prospettiva di queste generazioni che si adoperino a dismettere eredità reticenti o di rivalsa, può diventare espressione persino di rimprovero, per come gli italiani di allora siano solo in minima parte stati in grado di contrastare l’affermarsi e il consolidarsi del proprio fascismo, non siano riusciti cioè a resistere all’abuso e alla violenza politica, alla propaganda più bieca e alla soppressione del dissenso, praticando la cessazione della libertà di stampa, di associazione, di istruzione, di espressione, di culto, di circolazione… in cambio di cosa? Perché così pochi e così tardi?

Mio padre non mi ha mai neppure comprato una pistola giocattolo. La possibilità dello squadrismo e poi della indubitabile scia di sangue che aveva accompagnato la breve e intensa esistenza del padre oltre che come evidenza storica, la spiegava quasi come metafisica. La politica, il potere, uccidono. Starne lontani è sano. E la storia la scrivono i vincitori. Punto. In una parte profonda della sua infanzia resta come un’offesa insanabile e il 25 aprile di ogni anno ne sente ancor più il bruciore. Il romanzo che ho scritto (Accanto alla tigre) voleva essere una lunga lettera a lui e inglobare parte della sua risposta. Ma per buona parte ho fallito. Sembra impossibile capirsi fino in fondo, come tra padri e figli succede sempre.

Liberazione si potrà avere solo partendo dalla condivisione dei valori di fondo per i quali il 25 aprile intende essere festeggiato, che sono quelli sintetizzati mirabilmente dalla Costituzione. E tra questi valori c’è l’antifascismo. Cioè la riscossa da quel poco resistere, anzi da quel tiepido o entusiasta abbracciarsi in un regime totalitario. Se infatti il 2 giugno è diventato una festa per tutti è perché i valori monarchici possiamo ritenere infine non abbiano più presa su nessuno (a parte qualche terrapiattista neoborbonico).

Ma la comunità nazionale italiana fatica a stare dentro il perimetro dei valori costituzionali. Se per certo l’eguaglianza, stabilita con giustificato eccesso dopo le leggi razziste del ’38-’39, è un fatto così poco condiviso da invocare corsie di preferenza (privilegi) per “italiani” rispetto agli stranieri “clandestini”, se persino la libertà d’espressione e di associazione viene concepita secondo sfumature e distinguo al cospetto di poteri che mantengono opacità caratteristiche dei regimi parademocratici, se la parola antifascismo si inceppa sulle labbra, di quale festa per tutti parliamo?

Durante uno dei miei primi lavori, trenta anni fa, mi sono trovato a condividere la stanza con Andrea Salerno, giornalista e autore televisivo che vanta una nonna ebrea russa fuggita alle guardie zariste e un nonno ebreo esule negli Stati Uniti, poi espulso nel cinquanta per comunismo. Lavoravamo entrambi in quel momento per Enzo Siciliano, scrittore a cui anche solo la parola fascista faceva tremare le gambe per come gli era rimasto dentro lo spavento che uccidessero suo padre, nascosto in qualche soffitta romana fino all’arrivo degli americani.

Ecco ricordo molto bene che trascorremmo le giornate intorno alla festa della Liberazione raccontandoci le reciproche storie familiari, a me interessavano molto quelle di Andrea e viceversa. Anzi a ognuno interessavano quasi più le storie dell’altro che le proprie, in fondo come dovrebbe essere normale, non per espiazione, ma per assecondare la caratteristica degli umani di rispecchiarsi nel destino altrui come potesse essere anche il proprio. Il 25 aprile eravamo allegramente insieme alla manifestazione. I nostri padri avrebbero faticato a fare lo stesso. I nostri nonni si sarebbero sparati l’un l’altro.

Ne ho discusso spesso con mio padre e con la sorella maggiore, mia zia che all’epoca di Salò era più grandicella e smaniava di far parte delle “ausiliarie”. Avevano visto per la prima volta il padre, all’epoca del processo di Verona che mandò a morte anche Ciano, suo amico e sodale, rientrare in casa con lo sguardo fosco, ma per loro il suo comportamento – a molti incomprensibile – era lineare e chiaro: non era stato lui a cambiare, ma gli avvenimenti a spingerlo ad affrontare un’altra realtà. Non li meravigliava affatto la sua fedeltà al nuovo impegno. Sapevano che aveva preso una strada pericolosa, dove sarebbe andato avanti fino in fondo. Trasmetteva loro un senso alto dello stare al mondo. Una via romantica per la quale ciò per cui si muore colora l’intera esistenza. Per noi, l’incredibile fortuna del tempo toccato in sorte, finora, è stata viverla nelle pagine di Jack London e Salgari. Senza dover metterla alla prova.

Un tempo, le feste per essere tali andavano preparate, richiedevano in molti casi di mutare abitudini consolidate per qualche settimana, richiedevano rinunce adeguate all’atteso scatenamento dionisiaco. Se quella del 25 aprile fosse preceduta da giornate dedicate all’ascolto, una pratica collettiva di storia riparativa, forse chissà… Conosco solo questa possibilità. Che le vittime raccontino la loro storia ai carnefici, ma anche viceversa. E che anche tutte quelle storie di mezzo che fanno la realtà di un mondo, fuori da eroi e martiri, siano possibili nella loro concreta drammaturgia di affetti, perdite, frustrazioni e miserie umane. Sollecitare la memoria, mantenere lo sguardo fermo, dedicare ancora attenzione a chi trema per quei ricordi, piangere alle parole dei condannati a morte della Resistenza, scoprire il ruolo che ebbero in questa lotta le donne, gli ebrei. Studiare la vita alle prese con la Storia.

I corpi di un tale Gelormini, Benito Mussolini, Claretta Petacci, Alessandro Pavolini e Achille Starace in piazzale Loreto a Milano il 29 aprile 1945 (foto Vincenzo Carrese)

Lorenzo Pavolini
Lorenzo Pavolini

È vicedirettore della rivista Nuovi Argomenti. Ha pubblicato Senza rivoluzione (Giunti, 1997), Essere pronto (peQuod, 2005), Accanto alla tigre (Marsilio/Feltrinelli 2019, finalista Premio Strega), Tre fratelli magri (Fandango 2012), Si sente in fondo? Avventure dell’ascolto (Ediesse, 2013), L’invenzione del vento (Marsilio 2019, finalista premio Flaiano). Ha collaborato con Rai Radio 3 per 25 anni. Nel 2022 collabora con Massimo Popolizio alla drammaturgia di M, il figlio del secolo, dal romanzo di Antonio Scurati. È regista del reading e del podcast di Benedetta Tobagi, La resistenza delle donne. Per il CDEC ha realizzato il podcast Vivere da resistente, storie di partigiani ebrei. Con Davide Sapienza è autore del podcast Nelle tracce del lupo (RaiPlay Sound).

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