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  • Domenica 23 aprile 2023

I combattimenti in Sudan, fin qui

Sono iniziati come scontri a fuoco nella capitale, Khartum, e sono degenerati in una guerra che sta coinvolgendo quasi tutto il paese: i morti sono oltre 400

L'aeroporto di Khartum in un'immagine satellitare della scorsa settimana (Planet Labs PBC via AP)
L'aeroporto di Khartum in un'immagine satellitare della scorsa settimana (Planet Labs PBC via AP)
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Domenica la guerra in corso in Sudan, il grande stato africano che confina a nord con l’Egitto, è entrata nella sua seconda settimana. Era iniziata sabato 15 aprile, con scontri violenti tra l’esercito regolare, comandato dal presidente del paese Fattah al Burhan, e un gruppo paramilitare noto come Rapid Support Forces (RSF), che di fatto è un esercito parallelo ed è comandato dal vicepresidente Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti. Gli scontri sono rapidamente degenerati in una guerra, con bombardamenti, attacchi aerei e colpi di artiglieria. Nel corso dell’ultima settimana le violenze si sono allargate ben oltre la capitale, Khartum.

Finora negli scontri tra i due gruppi sono morte più di 400 persone e ci sono migliaia di feriti. Il rischio più grande è che si trasformi una guerra civile duratura in un paese già instabile e in cui sono in corso conflitti etnici.

Ad oggi il Sudan è governato da una giunta militare detta Consiglio Sovrano, che prese il potere con un colpo di stato militare nell’ottobre del 2021 e di cui fanno parte gli stessi al Burhan ed Hemedti. Il gruppo paramilitare RSF nacque dai cosiddetti janjawid, miliziani di etnia araba che nel corso della guerra nella regione del Darfur, cominciata nel 2003, furono accusati di genocidio.

Tra al Burhan ed Hemedti andava avanti da settimane un duro scontro politico sul destino del governo sudanese, e in particolare sulle condizioni con cui sarebbe dovuta avvenire la transizione a un governo civile. I disaccordi riguardavano vari punti, tra cui la condizione per cui le RSF avrebbero dovuto unirsi all’esercito sudanese creando un’unica forza armata sotto un unico comando. Nelle scorse settimane al Burhan ed Hemedti si erano rivolti accuse pesanti ed era ormai evidente che lo scontro politico sarebbe potuto sfociare in uno scontro militare in qualsiasi momento.

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La guerra è iniziata la mattina di sabato 15 aprile a Khartum, con colpi di artiglieria e alcune esplosioni. Le violenze sono cominciate soprattutto vicino a una base militare a sud della città, controllata dalle RSF, e poi si sono estese al palazzo presidenziale, alla sede della tv di stato sudanese e all’aeroporto. Sono tutte infrastrutture di cui entrambe le parti, l’esercito regolare e RSF, rivendicano il controllo.

Nei giorni immediatamente successivi i combattimenti si sono intensificati ed estesi ad alcune città vicine a Khartum, come Omdurman e Bahri. Proprio a Bahri, il giorno dopo l’inizio del conflitto, oltre alle esplosioni e agli scontri a fuoco sono iniziati anche bombardamenti aerei. I caccia dell’esercito regolare, che ha il controllo dell’aviazione, hanno colpito alcune delle basi delle RSF. I bombardamenti hanno distrutto edifici civili, infrastrutture, la sede del governo e quella del ministero dell’Istruzione e della Ricerca, in questo caso a Khartum.

Nei giorni successivi, i combattimenti hanno raggiunto altre città e regioni del paese, anche densamente popolate. Tra queste Kabkabiya, nella regione occidentale del Darfur, dove il giorno dopo l’inizio del conflitto sono stati uccisi tre impiegati del World Food Programme (WFP), un’agenzia dell’ONU che si occupa di assistenza alimentare: l’episodio ha spinto l’agenzia a sospendere temporaneamente le proprie attività in Sudan per ragioni di sicurezza.

I combattimenti si sono allargati anche a occidente, nelle città di Al Fasher e Nyala, e in aree e zone nell’est del paese: Kassala, Gedarif, Damazin e Kosti. Anche alcune città più a nord, come Merowe e Port Sudan, sono state coinvolte nel conflitto. Port Sudan si trova sul Mar Rosso, a circa 800 chilometri dalla capitale Khartum, e negli ultimi giorni è stata usata dai governi di Arabia Saudita e Giordania come punto di partenza per le evacuazioni dei propri cittadini.

All’aeroporto di Khartum, che ora è stato chiuso, un aereo passeggeri della compagnia Saudia, dell’Arabia Saudita, è finito in mezzo agli scontri a fuoco. Nel frattempo è saltata l’elettricità e mancata l’acqua in diverse parti del paese, e migliaia di persone sono fuggite dalle zone in cui i combattimenti erano più intensi. Lo hanno fatto a piedi, in auto o viaggiando in autobus, raggiungendo sia altre parti del Sudan che gli stati vicini: negli ultimi giorni, per esempio, sono arrivati circa 400mila rifugiati in Ciad, stato a ovest del Sudan con risorse insufficienti ad accogliere grandi quantità di persone.

Man mano che i combattimenti si intensificavano la situazione è diventata sempre più rischiosa anche per il personale diplomatico. Lunedì 17 aprile, appena due giorni dopo l’inizio della guerra, è stato aggredito nella propria abitazione di Khartum Aidan O’Hara, a capo della delegazione diplomatica dell’Unione Europea in Sudan.

Per questo una settimana dopo l’inizio del conflitto i governi di Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Cina e anche Italia si sono preparati per far evacuare i propri diplomatici e cittadini residenti in Sudan. Gli Stati Uniti hanno annunciato il completamento di una prima operazione di evacuazione nelle prime ore di domenica mattina. Sono state evacuate circa 100 persone con tre elicotteri atterrati vicino all’ambasciata statunitense di Khartum, che ora è stata temporaneamente chiusa. Anche il Canada ha già effettuato alcune evacuazioni, facendo arrivare i propri funzionari e diplomatici al porto di Jeddah, in Arabia Saudita.

Nel corso dell’ultima settimana ci sono stati due tentativi di tregua, entrambi falliti. La prima tregua era stata concordata il 18 aprile, tre giorni dopo l’inizio della guerra: doveva durare 24 ore e permettere di evacuare i feriti e i civili dai luoghi in cui si erano concentrati i combattimenti. Nonostante la tregua, però, sono continuati, soprattutto a Khartum.

La seconda tregua era stata invece concordata venerdì dopo complicate trattative. Doveva durare tre giorni, in occasione dell’Eid al Fitr, una delle feste più importanti della religione islamica che segna la fine del Ramadan, il mese in cui le persone musulmane si purificano digiunando dall’alba al tramonto. Inizialmente i combattimenti erano diminuiti di intensità, ma soprattutto a Khartum dopo poco erano ricominciati gli spari e gli attacchi aerei. Parlando della tregua, l’ex ministro degli Esteri sudanese, Mariam al-Mahdi, ha detto a BBC che «non ha avuto alcun effetto».

La situazione è molto critica in tutto il paese, ma è a Khartum che ci sono i problemi maggiori. Molti civili non possono lasciare la città per via dei combattimenti e sono bloccati nelle proprie case. Ci sono state anche interruzioni alle forniture di energia elettrica e di acqua, e iniziano a scarseggiare i viveri. Medici locali e rappresentanti della Mezzaluna Rossa, l’equivalente islamico della Croce Rossa, hanno raccontato che molti ospedali sono stati gravemente danneggiati negli scontri, e che mancano medicine e personale per curare tutte le persone che in questi giorni hanno bisogno di assistenza.

L’ong Medici senza frontiere scrive che la maggior parte dei feriti sono civili colpiti da proiettili vaganti, e che molti sono bambini, con fratture e ferite da arma da fuoco nelle gambe, nell’addome e nel petto. Molti di loro hanno bisogno di trasfusioni di sangue.

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Tag: sudan