Piangere serve a qualcosa?

Il pianto emotivo è una cosa tipicamente umana: secondo vari studi serve a ripristinare un equilibrio, ma non è detto che faccia stare meglio

Nancy Reagan, 4 giugno 1984, Dublino (AP Photo/David Caulkin)
Nancy Reagan, 4 giugno 1984, Dublino (AP Photo/David Caulkin)
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Piangere è un’espressione emotiva universale e tipicamente umana. Quando altri animali lacrimano, infatti, lo fanno per lubrificare gli occhi oppure in presenza di un’infezione o di un altro fattore esterno. Gli esseri umani sono gli unici a produrre lacrime associate a emozioni, oltre a quelle basali, che servono a lubrificare gli occhi, e a quelle riflesse, provocate da irritazioni o altri fattori fisici (anche affettare una cipolla, per esempio).

Anche escludendo il pianto infantile, utile a sollecitare l’attenzione e le cure degli adulti, piangiamo per motivi molto diversi tra loro: sia per esperienze estremamente negative, come un lutto, sia per quelle estremamente positive, come un matrimonio o una nascita. Ma piangiamo anche per ragioni meno eccezionali: quando guardiamo un film, ascoltiamo una canzone o osserviamo un’opera d’arte. Proprio la varietà delle emozioni a cui è associato fanno del pianto un fenomeno di studio affascinante e complesso, pertinente a varie discipline, dalla neurobiologia alla psicologia evolutiva alle scienze del comportamento.

Dei motivi per cui piangiamo e delle funzioni del pianto si è detto molto, spesso con affermazioni più perentorie di quanto sarebbe opportuno. Nella ricerca scientifica sul tema – più cauta, in generale, e fino a qualche tempo fa relativamente limitata – il pianto è un fenomeno associato, in popolazioni e culture diverse, a esperienze di separazione, perdita e impotenza, e al senso di sopraffazione rispetto a una forte emozione, negativa o positiva che sia. Secondo una delle ipotesi più condivise nelle scienze umane e sociali, dall’antropologia alla psicologia, il pianto risponde al bisogno di ripristinare un equilibrio psichico dell’individuo sottoposto a emozioni intense.

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Un gruppo di ricercatori e ricercatrici di università e istituti in Norvegia, Germania, Portogallo, Serbia e Paesi Bassi ha riportato in uno studio preprint (quelli che devono ancora essere sottoposti alla peer-review) i risultati di una ricerca sul pianto per emozioni positive condotta su oltre 13 mila persone adulte in 40 paesi diversi. Secondo la ricerca il pianto di gioia tende a verificarsi principalmente in quattro circostanze: in momenti di straordinario trasporto affettivo, come i matrimoni o altri incontri (55 per cento dei casi); per il conseguimento di un risultato importante (29 per cento); per l’emozione che si può provare di fronte a una travolgente bellezza naturale o artistica (8 per cento); e per divertimento (3 per cento).

Le donne tendono inoltre a piangere con maggiore frequenza degli uomini, secondo dati emersi nella letteratura scientifica fin dagli anni Ottanta e confermati da ricerche più recenti. La differenza relativa al genere è un fatto costante, riportato in diversi studi e presente fin dall’infanzia, ma tende a essere più o meno ampia a seconda dei paesi. È più pronunciata, secondo uno studio del 2011, nei paesi con maggiore libertà di espressione ma in cui le norme culturali sui ruoli di genere esercitano un’influenza più evidente, rispetto ai contesti in cui si piange meno spesso in generale.

Uno dei coautori di gran parte degli studi più citati è lo psicologo olandese Ad Vingerhoets, docente del dipartimento di psicologia medica e clinica alla Tilburg University, nei Paesi Bassi, un autore noto di ricerche e libri sulle funzioni del pianto emotivo negli adulti. In un gruppo piuttosto ampio di studiosi, Vingerhoets è tra i sostenitori più autorevoli dell’ipotesi degli effetti «auto-calmanti» del pianto. In base a questa ipotesi il pianto è inteso come il risultato di una serie di «processi omeostatici di regolazione dell’umore e di riduzione dello stress».

Questa funzione del pianto, secondo Vingerhoets e altri, spiegherebbe perché si verifica sia in condizioni di gioia che di tristezza: perché in entrambi i casi è una reazione a esperienze emotive estreme, per quanto diverse, che rendono necessario ripristinare un equilibrio emotivo funzionale. Un’emozione negativa travolgente può essere fondamentale in alcune circostanze critiche o di pericolo, perché stimola l’impulso ad agire con prontezza. Ma mantenere questo stato emotivo anche una volta superata la crisi non sarebbe né efficiente né piacevole, così come sarebbe estenuante e invalidante rimanere in uno stato di estasi prolungata e non essere in grado di svolgere altre attività.

Il pianto associato a emozioni estremamente intense sarebbe in pratica un tentativo di ripristinare condizioni normali, una sorta di formattazione emotiva, come ha scritto Arthur Brooks, che cura una popolare rubrica e un podcast sull’Atlantic. Il che non implica che piangere sia una manifestazione necessariamente positiva, in ogni circostanza.

Se costante o troppo frequente, il pianto emotivo può anzi essere il segno di un problema di salute mentale (il disturbo ciclotimico, per esempio), perché segnala un’esposizione continua e sregolata a emozioni estreme, sia positive che negative, che determinano un’alternanza di stati psichici di esaltazione (ipomania) e di depressione. E anche in assenza di patologie esistono casi e contesti in cui piangere può provocare disagio e imbarazzo, anziché sollievo e riduzione dello stress, e può quindi essere una reazione indesiderata e che si preferisce evitare.

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Un’altra funzione associata al pianto emotivo fa riferimento agli effetti sociali e relazionali. Da questa prospettiva il pianto è considerato l’evoluzione di un’espressione umana non verbale che segnala un disagio, riduce l’aggressività nel gruppo e promuove comportamenti di aiuto e soccorso all’interno della specie. Esiste peraltro una differenza di genere anche in relazione a questo aspetto: uno studio recente ha mostrato come l’osservazione del pianto di una persona possa determinare una maggiore disponibilità ad aiutare nel caso di coppie femminili o miste che nel caso di coppie maschili.

Cosa le persone pensino degli effetti del pianto – se produca o meno un beneficio palpabile, al netto dell’effetto auto-calmante – è legato anche al contesto sociale e alla reazione concreta delle persone al pianto di un membro del gruppo. Il fatto che le persone riferiscano di stare meglio dopo aver pianto è abbastanza noto sul piano aneddotico, ma le prove di benefici riferiti dopo esperimenti utilizzati per studi scientifici sono meno numerose.

In uno studio condotto nel 2008 da Vingerhoets con il ricercatore Jonathan Rottenberg e la ricercatrice Lauren M. Bylsma, entrambi della University of South Florida, furono analizzati oltre 3mila casi riferiti di episodi di pianto. Le persone intervistate descrivevano cosa succedeva intorno a loro quando piangevano e gli effetti del pianto sul loro umore. La maggior parte dichiarò di aver provato benefici sull’umore dopo aver pianto, ma un terzo non riferì alcun miglioramento. E un decimo dei partecipanti riferì di essersi sentito peggio, dopo aver pianto.

Una delle variabili fondamentali nella valutazione dei benefici era il sostegno sociale che le persone avevano ricevuto oppure no mentre piangevano, notarono i ricercatori. Quelle che lo avevano ricevuto avevano maggiori probabilità di segnalare benefici dell’umore. E quelle che avevano invece provato emozioni sociali negative come vergogna e imbarazzo avevano meno probabilità di segnalare benefici sull’umore.

I risultati di molte ricerche recenti sul pianto, sia quelle sulla funzione auto-calmante, sia quelle che associano la percezione di un beneficio al sostegno della rete sociale, sono peraltro coerenti con la ricerca antropologica sulle funzioni del pianto rituale: uno degli argomenti di studio dell’etnologo, antropologo e filosofo Ernesto De Martino, tra i più influenti pensatori italiani del Novecento.

Come descritto da De Martino in ricerche da lui condotte nelle comunità rurali del sud Italia negli anni Cinquanta, il pianto è un elemento centrale nei rituali funebri. La morte di una persona cara e il cordoglio che provoca determinano infatti il rischio di una crisi potenzialmente irreversibile dell’individuo: il rischio cioè di sviluppare incapacità e inabilità sociali ed emotive permanenti, fuoriuscendo di fatto dalla comunità. Il rituale, e il pianto che ne fa parte, è il modo in cui le culture tradizionali riducono il rischio della crisi e proteggono i membri della comunità, cercando di rendere familiare un evento rischioso e dall’esito non del tutto prevedibile.

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