• Mondo
  • Domenica 2 aprile 2023

Il primo giornalista americano arrestato in Russia dai tempi della Guerra Fredda 

Evan Gershkovich del Wall Street Journal è stato descritto come un giornalista attento e appassionato: tutt'altro che una spia

Evan Gershkovich (ANSA/WALL STREET JOURNAL)
Evan Gershkovich (ANSA/WALL STREET JOURNAL)
Caricamento player

Giovedì in Russia è stato arrestato Evan Gershkovich, corrispondente del Wall Street Journal in Russia, da dove da un anno raccontava la guerra in Ucraina. Gershkovich è stato fermato dai servizi segreti russi, che lo hanno accusato senza alcun fondamento di spiare per conto degli Stati Uniti. L’ultima volta che un giornalista americano fu arrestato in Russia era il 1986, in piena Guerra Fredda: in quel caso fu arrestato Nicholas Daniloff, corrispondente dello U.S. News & World Report, rilasciato due settimane dopo con uno scambio di prigionieri.

Negli ultimi giorni diverse persone che conoscono Gershkovich lo hanno raccontato e descritto come un giornalista molto bravo, appassionato e tenace: il ritratto che ne emerge rafforza la tesi dell’arresto per ragioni politiche, sostenuta in questi giorni da diversi suoi colleghi e analisti, e coerente con quanto successo mesi fa con l’arresto della cestista statunitense Brittney Griner. In quel caso Griner venne liberata in cambio del rilascio del trafficante d’armi Viktor Bout, detenuto negli Stati Uniti. Gershkovich «è diventato, essenzialmente, un ostaggio», ha scritto Margaret Sullivan, giornalista del Guardian e sua ex collega.

– Leggi anche: L’arresto di Evan Gershkovich in Russia

Gershkovich ha 32 anni. È nato nel 1991 a New York da genitori ebrei provenienti dall’Unione Sovietica, da cui erano fuggiti una decina d’anni prima per salvarsi dalle persecuzioni del regime. Con la Russia e la cultura russa Gershkovich ha sempre mantenuto un rapporto molto stretto: in casa sua si parlava il russo, e anche quando divenne giornalista raccontò in più occasioni di quanto la cultura russa avesse sempre fatto parte del suo vissuto. Nel 2018, per esempio, scrisse delle superstizioni russe che sua madre aveva sempre mantenuto in casa, come la credenza che il sale rovesciato sul tavolo portasse sfortuna, o del fatto che da piccolo amasse guardare i cartoni animati in russo anziché in inglese.

Gershkovich ha studiato filosofia al Bowdoin College, nel Maine, e iniziato la sua carriera giornalistica lavorando per alcune testate locali, per poi iniziare a collaborare col New York Times, tra il 2016 e il 2017. Iniziò a occuparsi più nello specifico di Russia quando fu assunto al Moscow Times, testata indipendente russa in lingua inglese, considerata una specie di palestra per molti importanti corrispondenti dalla Russia. Lavorò poi brevemente per l’agenzia di stampa Agence France-Presse (AFP) e poco più di un anno fa è stato assunto dal Wall Street Journal per occuparsi di Russia: Joshua Yaffa, un suo collega del New Yorker, ha raccontato di quanto Gershkovich fosse felice di potersi occupare di un paese per lui così importante per una testata così prestigiosa.

Gershkovich ha vissuto in Russia diversi anni. Chi lo conosce lo ha descritto come una persona estremamente curiosa, attiva e capace di immergersi in ogni tipo di contesto pur di raccontarlo nel modo migliore. Nel 2021, per esempio, rimase diversi giorni in una foresta della regione siberiana Jacuzia, dormendo in tenda e lavorando da lì, per documentare le conseguenze di alcuni incendi boschivi. Durante la pandemia trascorse alcuni giorni nei reparti dedicati ai pazienti affetti da coronavirus insieme agli studenti di medicina che il governo aveva impiegato, con pochissima formazione, per gestire l’emergenza: è un episodio che hanno citato diversi ex colleghi di Gershkovich per raccontare la sua bravura, soprattutto per come riuscì a conquistarsi la fiducia degli studenti e ad avere accesso alle realtà che riteneva importante documentare.

In Russia, tra l’altro, Gershkovich si è occupato di tanti temi diversi, coprendo ambiti molto specifici e spesso trascurati da buona parte della stampa: ha scritto per esempio della scomparsa dei salmoni dall’Amur, un lunghissimo fiume al confine tra Russia e Cina, e delle manifestazioni contro l’estinzione delle lingue minoritarie in alcune aree della Russia.

Chi lo ha conosciuto lo ha descritto anche come una persona divertente, mite e gentile, oltre che particolarmente socievole: ricordando il suo primo incarico come assistente al New York Times, quando Gershkovich aveva 25 anni, Sullivan l’ha descritto anche come una persona particolarmente matura per la sua età.

Come giornalista in Russia, Gershkovich si è trovato a fare i conti fin da subito con la poca libertà di stampa. Sul New Yorker, Yaffa ha scritto di come fino all’inizio della guerra questo fosse un problema in particolare per i giornalisti russi: erano soprattutto loro a subire pressioni e intimidazioni, mentre per molti anni rimase un certo margine di libertà per i corrispondenti occidentali. «I capi e i proprietari dei nostri media erano a New York, quindi non potevano essere facilmente messi sotto pressione o ricattati. Putin non può chiudere il Wall Street Journal o il New Yorker», ha scritto Yaffa. Gershkovich approfittò di questa posizione di privilegio per raccontare la Russia anche nei suoi aspetti più repressivi: per esempio durante la pandemia, quando intervistò anche una serie di statistici che temevano che il governo stesse manipolando i dati sui decessi da coronavirus.

Le cose sono cambiate con l’inizio dell’invasione dell’Ucraina: da allora Putin ha messo in atto una repressione ancora più severa sui mezzi d’informazione, per controllarli meglio e diffondere più facilmente e senza impedimenti la propria propaganda, che da oltre un anno presenta la guerra d’aggressione in corso come una operazione militare volta a “denazificare” l’Ucraina, una tesi falsa e anzi molto facile da smentire. Come altri giornalisti subito dopo l’inizio dell’invasione Gershkovich lasciò la Russia, per poi ritornarci mesi dopo quando la situazione sembrava più tranquilla.

La conoscenza che aveva di quei luoghi gli permise di far luce anche su alcune sfumature più difficilmente accessibili per i corrispondenti esteri. Raccontò per esempio di come in molti quartieri di Mosca la vita notturna sia proseguita come se niente fosse, nonostante l’invasione: «la polizia che pattuglia le strade di Mosca è ora armata di fucili d’assalto, ma è più occupata a distribuire multe per alcolismo in pubblico che a reprimere il dissenso», aveva scritto lo scorso luglio in un pezzo del Wall Street Jornal.

Gershkovich, hanno scritto alcuni suoi colleghi, sapeva di essere seguito e controllato ed era consapevole dei rischi che correva: «non era un ingenuo», ha scritto giorni fa sempre Yaffa, che lo ha definito «un giornalista coraggioso, impegnato e professionale». Aveva semplicemente deciso di restare in Russia perché riteneva che fosse importante raccontare quello che stava succedendo in un posto sempre meno frequentato dai giornalisti occidentali.

Gershkovich è stato arrestato in un ristorante di Ekaterinburg, nella Russia centro-occidentale. Sembra che stesse lavorando a un articolo sulle operazioni del gruppo Wagner, la compagnia di mercenari che sta combattendo al fianco dell’esercito russo in Ucraina e che è composta soprattutto da ex militari e detenuti a cui viene offerto uno sconto di pena in cambio dell’arruolamento. La portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha definito «ridicole» le accuse di spionaggio che gli sono state rivolte: in base alla legge russa Gershkovich rischia fino a vent’anni di carcere.