Che cos’è la “carne sintetica”

Che non è davvero sintetica: se ne parla a causa di un disegno di legge del governo che ha suscitato varie perplessità

(Getty Images)
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In seguito alla presentazione di un disegno di legge del governo, da un paio di giorni si discute molto della cosiddetta “carne sintetica”, che come vedremo non è sintetica. Il provvedimento nasce col proposito di vietare la produzione e la vendita di «alimenti e mangimi sintetici» ed è stato fortemente voluto dal ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida, che nei mesi scorsi si era detto in più occasioni contrario non solo alla “carne prodotta in laboratorio”, ma anche alle farine di insetti e alle etichette con avvisi per la salute sugli alcolici: tutti ambiti regolamentati o comunque sorvegliati dalle autorità di controllo dell’Unione Europea.

– Ascolta anche: La puntata di Ci vuole una scienza sulla “carne sintetica”

Il disegno di legge nella sua attuale forma contiene riferimenti a multe da 10mila a 60mila euro in caso di violazione dei divieti, che secondo Lollobrigida: «Intendono tutelare la salute umana e il patrimonio agroalimentare». Le nuove norme contengono però varie contraddizioni, compreso un divieto di produzione e vendita di prodotti ottenuti a partire da «colture cellulari o tessuti derivanti da animali vertebrati», una definizione che comprende di fatto anche la carne e i suoi sottoprodotti, consumati ogni giorno sia per scopo alimentare sia per i mangimi. Trattandosi di un disegno di legge, il testo riceverà probabilmente numerose modifiche nel corso dei vari passaggi in parlamento e ci sono dubbi sulla sua approvazione e applicazione.

Un certo interesse verso la “carne sintetica” era stato sollevato nei mesi scorsi da Coldiretti, associazione di rappresentanza nel settore agricolo in Italia molto influente soprattutto in ambito politico. Lo scorso anno, Coldiretti aveva avviato una petizione che chiedeva esplicitamente di vietare il “cibo sintetico”, con una definizione piuttosto vaga e non priva di ambiguità. La petizione era stata firmata dai dirigenti di molti partiti e aveva ricevuto l’appoggio del ministro Lollobrigida, diventando molto discussa sui giornali e online.

Per far conoscere la propria petizione, alcune sezioni di Coldiretti avevano preparato volantini nei quali si metteva a confronto il cibo “naturale” con quello “sintetico”. Il primo era illustrato con immagini bucoliche e idilliache, mentre il secondo con strumenti impiegati in laboratorio, uno scienziato in tuta da decontaminazione e scritte come «fa male all’ambiente» e «prodotto in un bioreattore». Il volantino diceva inoltre che il “cibo sintetico” «spezza lo straordinario legame che unisce cibo e natura», senza fornire però ulteriori spiegazioni.

In questi casi la parola “sintetico” viene spesso contrapposta a “naturale”, anche se in realtà è molto difficile dire che cosa non sia naturale, considerato che per ciò che viene prodotto in laboratorio si parte in fin dei conti da quello che già esiste in natura. In generale il termine “sintetico” viene impiegato per indicare il risultato di una sintesi al di fuori degli organismi viventi: un tessuto sintetico, come quelli degli abiti sportivi, per esempio, differisce dal cotone o dalla lana che derivano rispettivamente da una pianta e dal vello di varie specie di animali.

Nel caso della carne, a oggi nessuna delle alternative di cui parla il ministro Lollobrigida può essere considerata sintetica. Le ricerche nel settore proseguono da anni e con lo scopo di trovare metodi più sostenibili per produrla, che specialmente nel caso degli allevamenti di bovini comporta un grande consumo di energia e molte emissioni di gas serra. Questi allevamenti sono poco efficienti, di conseguenza si studiano possibilità alternative e a minore impatto ambientale, che ridurrebbero anche i problemi etici che si porta dietro l’attuale sistema di produzione di carne a livello industriale.

Alcune alternative sono già disponibili, ma non hanno nulla di sintetico. La cosiddetta “carne vegetale” o “finta carne” è basata sulla lavorazione di ingredienti come grano, olio di cocco, patate e altri vegetali con l’obiettivo di farle avere consistenza e aspetto della carne vera. Gli hamburger e le bistecche di questo tipo si possono acquistare nei supermercati o in alcuni fast-food e sono famosi soprattutto grazie a marchi come Impossible Foods e Beyond Meat.

Un altro metodo di produzione di carne alternativa prevede invece lo sfruttamento di alcuni funghi e microrganismi, che producono proteine sostituibili a quelle degli animali. Di per sé è una tecnologia nota da oltre un secolo e in origine era impiegata per produrre mangimi, partendo da lieviti che attraverso i loro processi di fermentazione producevano proteine. Tra i prodotti più conosciuti derivati da questa tecnica c’è il Quorn, che tecnicamente non è un vegetale, ma una sorta di muffa che viene poi impastata con albume d’uovo o con leganti derivati dalle patate nella sua versione vegana. Il Quorn se adeguatamente lavorato può assumere una consistenza che ricorda quella della carne, anche se il sapore e l’aspetto sono distanti da quelli di una bistecca.

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Proprio per via della mancanza di prodotti alternativi alla carne che si avvicinino all’esperienza di mangiare della carne, soprattutto rossa, da tempo si cerca di creare della carne in vitro, cioè partendo da cellule animali che vengono fatte crescere e differenziare per produrre tessuti, imitando di fatto ciò che avviene normalmente con la crescita di un essere vivente. È un ambito di ricerca piuttosto articolato e che ha portato a qualche risultato concreto, seppure su piccola scala e con esiti non sempre incoraggianti. Ci sono aziende in Israele, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti che hanno avviato la produzione, per lo più con un approccio dimostrativo per verificare la sostenibilità dei loro progetti. In Italia non ce ne sono.

Le tecniche più diffuse prevedono di partire da cellule staminali, che non sono quindi ancora specializzate e che hanno la potenzialità di differenziarsi nei vari tipi di cellule mature che costituiscono poi un tessuto. Le cellule non sono “sintetiche”, ma derivano da un prelievo effettuato da animali già vivi o da embrioni, a seconda dei casi e dei filoni di ricerca e sviluppo.

Isolate le cellule staminali idonee, si procede a inserirle in particolari contenitori nei quali è presente un terreno di coltura, di solito una soluzione che contiene sostanze nutrienti di vario tipo. In questo modo le cellule iniziano a crescere e a replicarsi, ma il procedimento non è sufficiente per arrivare a un tessuto paragonabile al muscolo di un animale, cioè alla carne che viene normalmente consumata. Le cellule hanno bisogno di una sorta di impalcatura che le sostenga, che permetta loro di respirare, continuare a proliferare e a differenziarsi. In pratica si deve trovare il modo di ricreare la struttura tridimensionale della carne, che è ciò che dà la consistenza e la capacità stessa del tessuto di non sfaldarsi durante la cottura.

Il processo deve essere poi ripetuto su una scala molto più grande e può coinvolgere l’impiego dei bioreattori, quelli citati nel volantino di Coldiretti. Nella sua forma più semplice, un bioreattore non è una novità: è un contenitore che mantiene una certa temperatura e a seconda dei casi garantisce un flusso costante di nutrienti. Viene impiegato da millenni in campo alimentare. La produzione di birra o di yogurt, che implica la presenza di microorganismi che rendono possibile la fermentazione, avviene in contenitori che sono di fatto bioreattori. Lo stesso vale per produzioni molto più sofisticate in ambito farmaceutico, per esempio per la produzione dell’insulina, molto importante per tenere sotto controllo alcune forme di diabete.

Le aziende che vogliono produrre carne in questo modo hanno finora incontrato difficoltà nel passare dalla modalità su piccola scala in vitro a quella su scale più grandi, utilizzando bioreattori che consentano di produrre molti chilogrammi di carne. Gli investimenti nel settore non mancano, proprio per le potenzialità del sistema e per l’interesse di chi vorrebbe continuare a mangiare carne, ma senza gli svantaggi ambientali e i problemi etici legati agli allevamenti tradizionali.

In generale, tutte le alternative alla carne bovina hanno minori conseguenze in termini di emissioni di anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera, i principali responsabili del riscaldamento globale. I prodotti come il Quorn o la “carne vegetale” hanno un impatto molto basso, inferiore anche a quello della carne prodotta in laboratorio. Stimare gli effetti sull’ambiente non è comunque semplice, e cambieranno probabilmente nel momento in cui alcune di queste soluzioni diventeranno più diffuse.

Il settore è ancora piccolo, coinvolge numerose startup e ci sono dubbi sulla loro capacità di sopravvivere, considerato che per ora si finanziano soprattutto grazie ai fondi di investimenti, che scommettono sul loro futuro. L’eventuale passaggio alla carne prodotta in modo alternativo è quindi ancora distante e per questo il disegno di legge voluto dal ministro Lollobrigida sembra più una scelta di comunicazione, che non avrà un particolare impatto sul settore alimentare.

Il riferimento per ciò che è considerato sicuro da consumare sono del resto i regolamenti dell’Unione Europea, che considerano novità alimentari (“novel food”) questo tipo di prodotti, cioè alimenti mai consumati all’interno dell’UE in quantità significative e tali da essere definibili “cibo”. Ogni nuovo specifico alimento deve quindi ricevere un’autorizzazione, vincolata a una valutazione da parte dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). Non è chiaro quale sia stata la considerazione da parte del ministro Lollobrigida su un pericolo imminente tale da approvare un disegno di legge «con procedura d’urgenza».

L’eventuale messa in vendita in futuro di prodotti di carne alternativa non implicherebbe inoltre la fine degli allevamenti tradizionali, ma aggiungerebbe una possibilità di scelta in più per chi consuma carne. Anche per questo iniziative di legge di questo tipo, che avrebbero un impatto su un settore emergente, potrebbero ricevere obiezioni da parte delle autorità europee.