Una cosa difficilissima che stiamo imparando a fare

Rimuovere l'anidride carbonica dall'atmosfera su larga scala è complicato, ma inevitabile per riparare il più grande guaio che abbiamo combinato

L'impianto Orca in Islanda (Climeworks)
L'impianto Orca in Islanda (Climeworks)
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La Hringvegur è la strada più importante dell’Islanda: copre buona parte del perimetro dell’isola e non a caso il suo nome significa letteralmente “strada anello”, o “tangenziale” per i meno romantici. A est della capitale Reykjavík, la desolazione delle terre scure vulcaniche attraversate dalla Hringvegur è interrotta dagli sbuffi bianchi di vapore acqueo di una delle tante centrali geotermiche dell’isola. Parte dell’energia elettrica prodotta viene impiegata a poca distanza per alimentare Orca, il più grande impianto al mondo per la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, per dimostrare la fattibilità di una delle tecnologie che dovremo usare contro il cambiamento climatico.

Ridurre il più possibile le emissioni di gas serra derivanti dalle attività umane è essenziale per evitare che la temperatura media globale continui ad aumentare, ma non è sufficiente. Come ha segnalato l’ultimo rapporto di sintesi sul clima delle Nazioni Unite diffuso lunedì 20 marzo, dovremo rimuovere dall’atmosfera le enormi quantità di anidride carbonica (CO2) che abbiamo immesso dall’inizio dell’epoca industriale per mantenerci sotto una soglia in cui gli effetti del cambiamento climatico saranno più gestibili. La quasi totalità degli studi scientifici lo segnala da tempo, ma sia rimuovere l’anidride carbonica in eccesso nell’atmosfera sia ridurne la produzione è complicato, soprattutto per come sono organizzate le nostre società e i modi in cui produciamo energia.

Secondo il documento dell’ONU – che riassume le migliaia di pagine del Sesto rapporto di valutazione 2021-2022 – la rimozione della CO2 non è solamente un’opzione, ma una necessità. Oltre a eliminare l’eccesso di anidride carbonica già immessa, servirà per controbilanciare le emissioni che non potremo fare a meno di produrre in settori come l’agricoltura, il trasporto aereo, alcuni processi industriali e altri ambiti in cui la decarbonizzazione è attualmente troppo onerosa.

Stimare la quantità di anidride carbonica da rimuovere per evitare che si superino i 2 °C di aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale non è comunque semplice. Il limite deriva dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015, che aveva fissato una soglia più ottimistica a 1,5 °C, entro la quale non riusciremo a rimanere con gli attuali andamenti.

Un ampio studio realizzato dall’Università di Oxford sui processi di rimozione della CO2 su scala globale ha stimato che dovremmo raddoppiare le quantità di questo gas che togliamo dall’atmosfera (circa 2 miliardi di tonnellate all’anno) per contenere l’aumento della temperatura entro limiti accettabili nei prossimi decenni. La quantità rimossa equivale a circa il 5 per cento dei quasi 37 miliardi di tonnellate di anidride carbonica emessi in un anno derivanti solo dall’impiego dei combustibili fossili e del cemento.

È una quantità enorme da rimuovere, se consideriamo che l’impianto di Orca in Islanda riesce a toglierne circa 3.700 tonnellate in un anno: meno dello 0,0002% dei due miliardi indicati dallo studio di Oxford. L’impianto ha soprattutto lo scopo di dimostrare la fattibilità di un sistema di cui si parla da molto tempo. In generale, del resto, le tecnologie per eliminare parte della CO2 dall’atmosfera esistono, ma non è sempre chiaro quanto siano praticabili su larga scala e quali rischi potrebbero comportare per l’ambiente.

L’impianto Orca di Climeworks in Islanda (Climeworks)

Orca è stato realizzato da Climeworks, un’azienda fondata nel 2009 a Zurigo che da tempo sperimenta soluzioni per la cattura atmosferica dell’anidride carbonica. Dopo averne sviluppate alcune in Svizzera, i suoi responsabili hanno pensato all’Islanda sia per la presenza degli impianti geotermici che consentono di produrre energia elettrica in modo sostenibile, sia per la possibilità di sfruttare le caratteristiche geologiche dell’isola per conservare l’anidride carbonica estratta dall’atmosfera.

Dalla strada anello, Orca è a malapena visibile e non colpisce molto, sembra un comune impianto di aerazione, come quelli che si vedono spesso sopra gli stabilimenti industriali o i palazzi che ospitano uffici. La sua costruzione è costata poco meno di 10 milioni di euro, ma Climeworks pensa in grande e sta già costruendo a poca distanza un nuovo impianto che si chiama Mammoth e che rimuoverà nove volte l’anidride carbonica che riesce a filtrare Orca.

Almeno concettualmente, il sistema di cattura della CO2 non è complicato ed è alquanto lineare. Alcune grandi ventole aspirano l’aria e la fanno passare attraverso un filtro altamente poroso al quale si legano le molecole di anidride carbonica. In un certo senso il filtro si comporta come una spugna quando viene in contatto con l’acqua: la intrappola e la trattiene.

(Climeworks)

Quando il filtro è saturo, cioè ha raccolto tutta la CO2 che poteva, lo scompartimento in cui si trova viene isolato dall’ambiente esterno e portato a una temperatura di 100 °C, in modo da potere estrarre l’anidride carbonica: nella sua forma gassosa viene convogliata in alcune tubature fino al vicino impianto di trattamento gestito da Carbfix, una collaborazione tra centri di ricerca e aziende per la conservazione della CO2 nel sottosuolo. Il gas viene combinato con l’acqua, producendo di fatto acqua gasata, che viene poi iniettata in profondità nelle rocce vulcaniche (basalti) islandesi. L’acqua gasata reagisce con il calcio e il magnesio presente nello strato roccioso e l’anidride carbonica rimane intrappolata nei basalti, senza che si producano sostanze secondarie pericolose.

Campioni di rocce dopo il trattamento (Carbfix)

Il sistema funziona, ma non tutti i luoghi della Terra presentano le stesse condizioni, come un sottosuolo che possa intrappolare facilmente l’anidride carbonica o impianti che producano energia elettrica senza emissioni. Inoltre, il livello stesso di efficienza di Orca e in generale dei sistemi per la cattura diretta della CO2 sono vincolati dalla bassa concentrazione di questo gas nell’aria. In media c’è una molecola di anidride carbonica ogni 2.500 molecole di aria che abbiamo intorno (per lo più ossigeno e azoto). L’impianto in Islanda deve filtrare circa due milioni di metri cubi di aria per ottenere una tonnellata di anidride carbonica: il processo è molto lento se non si dispone di una batteria potente di ventole.

Gli stessi filtri sono difficili da sviluppare e Climeworks lavora continuamente alla ricerca di nuove fibre e materiali per migliorarne la resa. Fare ricerca è costoso e la società funziona come una startup, raccogliendo finanziamenti dagli investitori che scommettono sul suo futuro e sulla sostenibilità del modello economico che sta provando a costruire. Nel 2022, Climeworks ha ricevuto nuovi investimenti per circa 600 milioni di euro, rimanendo una delle startup meglio posizionate in un settore nato da poco e in cui iniziano a esserci i primi concorrenti.

La cattura diretta non è comunque l’unico modo per rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera, anche se rimane l’ambito in cui ci sono i maggiori investimenti visto il suo potenziale. Un altro sistema ritenuto promettente è quello del “biochar”, un materiale che si ottiene attraverso la pirolisi, cioè un processo di decomposizione termochimica realizzato fornendo calore in assenza di ossigeno.

Gli esperimenti dimostrativi svolti finora, specialmente negli Stati Uniti, prevedono l’impiego del materiale vegetale che rimane al termine della raccolta nei campi agricoli, come per esempio le parti inutilizzate della pianta del mais. Solitamente questo viene incenerito o lasciato nei campi a decomporsi, un processo che fa sì che l’anidride carbonica raccolta naturalmente dalle piante durante la loro crescita venga nuovamente immessa nell’atmosfera. L’idea è di evitare che ciò accada, raccogliendo il materiale di scarto e sottoponendolo a pirolisi a una temperatura di alcune centinaia di °C. Superata la parte di avvio del processo in cui è necessaria una fonte di energia esterna, in seguito il sistema può sostenersi da solo sfruttando il calore che via via produce il materiale sottoposto a pirolisi.

Produzione del biochar (TED Talk)

A seconda delle metodologie applicate, si ottengono vari prodotti derivanti dalla pirolisi. Il principale è appunto il biochar, una sostanza granulare che assomiglia al comune carbone. I granuli sono prodotti anche grazie a reazioni che hanno coinvolto parte della CO2, presente nel materiale di scarto di partenza, che non finirà quindi nell’atmosfera. Il biochar ha la capacità di trattenere acqua, di conseguenza il suo impiego è considerato promettente proprio nei campi agricoli per migliorarne la resa. Gli studi sui potenziali benefici sono ancora in corso, ma anche in questo caso un numero crescente di startup sta valutando come sfruttare questo principio per ridurre la CO2 in circolazione.

Gli altri prodotti derivanti dall’impiego della pirolisi in questo settore sono una sostanza oleosa, il bio-oil, e una gassosa. Mentre questa può essere impiegata come combustibile, a patto poi di raccogliere la CO2 derivante evitando che finisca nell’atmosfera, il bio-oil può essere conservato nei pozzi di petrolio e di gas ormai esausti. Charm, società statunitense che sta sperimentando molto nel settore, ha annunciato di avere raccolto in meno di un anno circa 5.500 tonnellate di anidride carbonica.

Su larga scala soluzioni di questo tipo potrebbero contribuire sensibilmente alla rimozione di CO2 dall’atmosfera, ma ci sono ancora dubbi sull’efficienza, considerato che il materiale di scarto deve essere raccolto e trasportato agli impianti di pirolisi, con ulteriore produzione di emissioni visto che la maggior parte dei mezzi agricoli funziona ancora bruciando combustibili fossili.

Tra le altre strade percorribili citate nel rapporto delle Nazioni Unite c’è la bioenergia con cattura e conservazione dell’anidride carbonica (BECCS). L’idea di partenza non è molto diversa da quella del biochar e parte dall’assunto che gli alberi sono un sistema formidabile per sottrarre la CO2 dall’atmosfera e conservarla. Ma piantare semplicemente nuovi alberi non sarebbe sufficiente e potrebbe anzi rivelarsi pericoloso in alcune circostanze: non tutti i luoghi della Terra sono adatti a ospitare foreste e alcune zone sono più soggette di altre agli incendi, che porterebbero a reintrodurre nell’atmosfera l’anidride carbonica che anno dopo anno gli alberi avevano conservato nel legno.

(SDIS 33 via AP, La Presse)

La BECCS prevede che gli alberi vengano bruciati per produrre calore per le reti di teleriscaldamento oppure per la produzione di energia elettrica, ma che al tempo stesso la CO2 che si produce venga da subito catturata a conservata nel sottosuolo, con una sorta di cattura diretta immediata (oppure con la pirolisi). In questo modo il bilancio dell’anidride carbonica è negativo, perché quella rimossa dalle piante non potrà più finire nuovamente nell’atmosfera. Non tutti sono convinti che possa funzionare su larga scala: la resa energetica dalla combustione del legno non è alta e molta energia dovrebbe essere impiegata per i sistemi di cattura della CO2 prodotta a valle del processo.

Tra chi studia i sistemi di rimozione dell’anidride carbonica c’è chi fa progetti ancora più in grande, immaginando soluzioni che almeno sulla carta sembrano meno complicate, ma che richiederebbero un grande dispendio di risorse per essere realizzate. La più discussa e con qualche potenzialità deriva dall’accelerare un processo che avviene naturalmente e che riguarda le rocce vulcaniche. Sono presenti un po’ dappertutto sulla Terra e pian piano rimuovono CO2 dall’atmosfera attraverso la loro degradazione. È un processo che si verifica in migliaia di anni, ma che può essere accelerato polverizzando le rocce vulcaniche e spandendole sui campi, che avrebbero intanto a disposizione preziosi minerali per migliorare la loro resa.

Parte di queste sostanze finirebbe poi nei fiumi e potrebbe contribuire a mitigare un altro grave effetto dell’aumento di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera: l’acidificazione degli oceani. In condizioni normali, più o meno un quarto della CO2 nell’atmosfera finisce negli oceani dove a contatto con l’acqua diventa acido carbonico. Se la concentrazione di anidride carbonica aumenta, diventa maggiore anche la sua presenza nell’acqua marina con conseguenze per gli ecosistemi marini.

Un’ipotesi è che l’aggiunta su grande scala di sostanze che rendono meno acidi (alcalini) gli oceani, come i silicati delle rocce vulcaniche, potrebbe ridurre il problema in caso di alto assorbimento di anidride carbonica da parte degli oceani. Altri metodi proposti riguardano la fertilizzazione oceanica, in modo che le minuscole specie vegetali presenti al suo interno (il fitoplancton) aumentino e gli oceani abbiano una più alta capacità di assorbire anidride carbonica.

Lo sbiancamento dei coralli è uno degli effetti del riscaldamento globale (C. Jones/GBRMPA via AP)

Sempre secondo le analisi dell’Università di Oxford, l’alcalinizzazione degli oceani è una tecnica dall’alto potenziale di mitigazione in termini di sottrazione dell’anidride carbonica, ma interventi su così larga scala su ecosistemi delicati come quelli oceanici potrebbero portare a risultati inattesi e pericolosi. Una ricerca pubblicata lo scorso ottobre ha messo inoltre in dubbio l’efficacia di soluzioni di questo tipo, oltre ai rischi per le molte specie animali e vegetali che popolano gli oceani.

Al di là degli eventuali effetti indesiderati, vari sistemi di sottrazione di anidride carbonica dall’atmosfera richiedono l’impiego di molta energia per funzionare, e al momento i principali metodi per produrla derivano dallo sfruttamento dei combustibili fossili che portano alla produzione di grandi quantità di anidride carbonica. Ci sono di conseguenza dubbi sulla possibilità di portare progetti come quello di Orca in Islanda su larga scala, se non potranno essere alimentati da fonti energetiche rinnovabili.

I più ottimisti ritengono che queste difficoltà potranno essere superate man mano che le tecnologie di rimozione della CO2 diventeranno più disponibili e diffuse, con una riduzione dei loro costi. Segnalano come le obiezioni che si fanno oggi ad alcuni di quei metodi ricordino quelle che si facevano in passato quando veniva messo in dubbio il passaggio all’eolico e al solare, come fonti alternative per produrre energia elettrica in modo più sostenibile. I prezzi si sono sensibilmente ridotti negli ultimi anni e si sono aperte nuove opportunità di mercato, che potrebbero emergere anche per la rimozione dell’anidride carbonica.

Come ripetono ormai da tempo gli studi e i rapporti sul clima, non c’è una soluzione per il riscaldamento globale: solo la combinazione di più approcci e sistemi potrà consentirci di ridurre gli effetti dell’aumento della temperatura media globale, ormai inevitabili e con i quali ci dovremo confrontare per generazioni. I sistemi per rimuovere la CO2 saranno davvero utili solo se nel frattempo ridurremo il più possibile le emissioni di questo e degli altri gas serra, cercando di arrivare il prima possibile a un bilancio negativo nel quale sarà più l’anidride carbonica a essere sottratta rispetto a quella che viene emessa. Mentre leggevate questo articolo, comunque, una minuscola parte è già finita nelle profondità dell’Islanda.