In Umbria gli spazi femministi sono a rischio

Da anni sindaci e giunta regionale di destra provano a depotenziarli, come mostra la storia della Casa delle Donne di Terni, che potrebbe diventare presto un centro per anziani

di Giulia Siviero

Manifestazione femminista a Roma, 8 marzo 2022 (Cecilia Fabiano/ LaPresse)
Manifestazione femminista a Roma, 8 marzo 2022 (Cecilia Fabiano/ LaPresse)
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In Italia ci sono regioni e comuni governati da partiti di destra che negli ultimi anni hanno promosso politiche contro la libertà e l’autodeterminazione delle donne, per esempio approvando mozioni che finanziano i movimenti antiabortisti, limitando l’accesso all’aborto farmacologico e appoggiando progetti che nella forma parlano di natalità e maternità, ma che concretamente sostengono la cosiddetta “famiglia tradizionale”, tutelano «la vita umana fin dal concepimento» e consentono ai cosiddetti movimenti per la vita di entrare nei consultori pubblici. In alcuni casi, come sta accadendo a Terni, in Umbria, stanno sottraendo spazi ad associazioni di donne che da anni lavorano per l’autodeterminazione femminile e sul contrasto e la prevenzione della violenza di genere.

Lo scorso 25 novembre il comune di Terni, amministrato dal 2018 dalla destra, ha messo a bando gli spazi in cui dal 2014 ha sede la Casa delle Donne, un posto unico nella regione, che tra le altre cose ospita uno sportello che offre accoglienza e consulenza legale gratuita a chi ha subito violenza di genere. Nel nuovo bando del comune per la riassegnazione degli spazi dove da nove anni si trova la Casa si chiede di creare un centro per favorire «l’invecchiamento attivo», cioè quell’insieme di pratiche che spingono gli anziani a essere attivi a livello personale e sociale in varie attività come ad esempio turismo, giardinaggio, musica o volontariato.

Nel 2021, tramite un’altra gara di appalto, la gestione del centro antiviolenza istituzionale presente in città (quindi non la Casa delle Donne) venne assegnata a un’associazione legata alla Caritas: confessionale e non “di settore”, diversamente da quello che prevedono le norme che si occupano di questi temi, come la Convenzione di Istanbul (il testo più avanzato e il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica e che l’Italia ha ratificato), l’Intesa stato-regioni e anche una legge regionale umbra del 2016.

La Casa delle Donne
La Casa delle Donne si trova in via Aminale, nel pieno centro di Terni, tra il palazzo del Comune e il Duomo. È molto grande e dal 2014 è diventato un luogo di riferimento importante per le femministe e per le donne, ma non solo, della città. Lì sono stati organizzati nel tempo laboratori, corsi di formazione, presentazioni di libri, spettacoli, concerti e mostre, con l’obiettivo di raccontare e spiegare temi come la contraccezione, l’aborto o l’educazione sessuale, oltre che migliorare la consapevolezza sulle varie manifestazioni di tutte le forme di violenza che colpiscono le donne.

Nella Casa c’è poi una scuola popolare, per aiutare bambine e bambini delle elementari e delle medie a fare i compiti, anche quelli appartenenti a famiglie che non possono permettersi ripetizioni private o che hanno genitori che non parlano bene l’italiano. Spesso, poi, lo spazio viene messo a disposizione per assemblee pubbliche o riunioni di associazioni studentesche e movimenti che non hanno una sede. Ci sono un laboratorio sartoriale e uno di maglia e uncinetto dove si fanno cappelli di lana e coperte per le donne che fanno chemioterapia o per le persone di Terni che vivono per la strada.

E, infine, alla Casa delle Donne c’è lo sportello antiviolenza aperto quattro giorni a settimana in cui le donne vengono accolte, possono trovare un servizio di consulenza legale gratuita e hanno la possibilità di partecipare a gruppi di “auto mutuo aiuto” dove trovare un sostegno quotidiano. Tutto questo secondo pratiche nate all’interno dei movimenti femministi già negli anni Settanta, che usano ad esempio una metodologia «basata sulla relazione tra donne». In teoria queste attività vengono svolte anche dai centri istituzionali, che però poi nella pratica finiscono spesso per adottare percorsi diversi. È anche per questo motivo che la Casa delle Donne è oggi un posto unico a Terni.

Tutte le attività della Casa vengono realizzate senza contributi pubblici, tramite la partecipazione a bandi di fondazioni e enti privati, ma soprattutto grazie all’autofinanziamento e a ciò che si ricava dalle attività svolte.

La Casa, racconta la presidente Paola Gigante «è stata aperta l’8 marzo del 2014 attraverso una convenzione triennale con il comune, allora amministrato dal centrosinistra». Nel 2018 le elezioni furono vinte da Leonardo Latini sostenuto da Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Popolo della Famiglia. Nel gennaio del 2019 il nuovo sindaco comunicò all’associazione che gestisce la Casa delle Donne che a scadenza di convenzione, dunque entro la fine di quello stesso anno, lo spazio di via Aminale sarebbe stato messo a bando.

Dopo manifestazioni e proteste sostenute da altre associazioni del territorio, durante l’estate del 2019 furono raccolte e depositate più di 2mila firme che chiedevano continuità per l’esperienza della Casa. Poi tutto si fermò a causa della pandemia. In quel periodo la Casa non chiuse mai e anzi continuò a lavorare con il proprio sportello antiviolenza, anche perché fu proprio durante il lockdown che si registrò un forte aumento della violenza domestica. «Sportello e consulenze legali» dice Gigante «non hanno mai smesso di essere in presenza, e la linea telefonica della Casa è rimasta sempre attiva per tutte coloro che ne hanno avuto bisogno». Finito lo stato di emergenza fu pubblicato il bando del comune, che Gigante definisce oggi «un attacco politico».

Il bando non è specifico sugli spazi di via Aminale, ma riguarda una serie di locali comunali. Per la sede dove si trova ora la Casa delle Donne richiede un affitto di quasi 3mila euro e, racconta Gigante, «non compaiono mai né la parola “donne” né qualsiasi riferimento alla prevenzione e al contrasto alla violenza di genere o alle attività fatte in questi anni dalla Casa». Il bando parla di spazi la cui finalità sia quella di favorire l’invecchiamento attivo e il benessere delle persone.

Il bando dice che la cifra fissata per l’affitto si potrebbe scontare anche totalmente qualora venissero realizzate attività rivolte alla cittadinanza che non siano già svolte dall’amministrazione comunale. Il fatto è che nel comune di Terni esiste già un centro antiviolenza istituzionale, quello gestito dall’associazione legata alla Caritas. L’attività dello sportello antiviolenza della Casa potrebbe dunque sovrapporsi a quella del centro istituzionale, secondo la logica del bando stesso, ma solo formalmente: nella sostanza infatti non è così, per la diversità degli approcci e delle pratiche adottate dai due centri (ci arriviamo).

L’associazione che gestisce la Casa ha comunque scelto di partecipare al bando con il sostegno di altri enti e associazioni presenti nel territorio (il termine per la presentazione dei progetti è scaduto il 15 febbraio). Anche nel caso in cui l’associazione che gestisce la Casa delle Donne dovesse vincerlo, i problemi non sarebbero finiti: «Resterebbero la questione economica, 3mila euro sarebbero difficilmente sostenibili, ma anche i possibili ostacoli o limiti nella programmazione che potrebbero esserci imposti», spiega Gigante.

Nel frattempo qualcosa si è mosso a livello regionale. I consiglieri regionali del PD Tommaso Bori e Simona Meloni hanno infatti depositato un’interrogazione per permettere alla Casa di continuare a esistere e a fare quello che fa oggi. In diverse interviste hanno spiegato che sarebbe stato opportuno seguire l’esempio della regione Lazio, che attraverso una convenzione ha riconosciuto il valore di “bene comune” alla Casa Internazionale delle Donne di Roma che rischiava lo sfratto, assicurandone così la continuità.

Il 7 marzo, durante la seduta del Consiglio regionale, l’interrogazione di Bori e Meloni è stata discussa e l’assessore alle Politiche sociali Luca Coletto, della Lega, ha accolto la loro proposta di avviare una discussione sul futuro della Casa. L’amministrazione comunale, invece, non ha ancora fatto sapere nulla.

I centri antiviolenza
A Terni i servizi di contrasto della violenza contro le donne comprendono un servizio di pronta emergenza, un centro antiviolenza, cioè una struttura in cui sono accolte a titolo gratuito le donne e i loro figli minorenni vittime di violenza, una casa rifugio, cioè un un alloggio sicuro per le donne che subiscono violenza e per i loro bambini, e infine delle case di semi-autonomia, servizi di residenzialità intermedia tra la casa rifugio e il domicilio autonomo: a sostegno dunque di una completa indipendenza delle donne fuoriuscite da un percorso di abusi e violenze. Questo sistema è gestito da circa un anno dall’associazione di volontariato San Martino, legata alla Caritas: tra i primi soci dell’associazione ci sono la Diocesi di Terni e varie parrocchie. Ma non è sempre stato così.

Dal 2014 il sistema era affidato a Liberamente Donna, associazione che fa parte di Di.Re, la rete italiana dei centri antiviolenza nati dalle esperienze dei movimenti femministi e che rispettano i requisiti previsti dalla Convenzione di Istanbul.

Sono centri che forniscono un’accoglienza completa, che accompagna la donna fino al riottenimento della propria autonomia, che agiscono sulla formazione e dunque sulla prevenzione, e per i quali l’approccio femminista e di genere nella risposta alla violenza è fondativo. È proprio questa tipologia di associazioni che, nel corso del tempo, ha messo a punto la metodologia dell’accoglienza basata sulla relazione tra donne, oggi requisito fondamentale per la normativa nazionale. Tra le altre cose, le stesse norme stabiliscono anche che i centri antiviolenza siano gestiti da associazioni di settore, con esperienza e competenze specifiche.

Nel 2021, mentre Liberamente Donna stava gestendo più di 200 percorsi, ospitava 5 donne e 9 minori, il comune di Terni pubblicò una gara d’appalto “lampo”, della durata di circa venti giorni, per l’affidamento dei servizi di contrasto della violenza di genere: scadenza 21 dicembre del 2021, decorrenza dal primo gennaio del 2022.

Secondo la rete Di.Re, quella gara d’appalto aveva però diversi problemi: anzitutto era basata su un unico criterio, quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa; e poi non faceva alcun riferimento alle buone prassi riconosciute dalla norme nazionali e internazionali già citate sul tema. Tra le altre cose, non riconosceva la metodologia della relazione tra donne e non valorizzava la partecipazione delle associazioni femminili e femministe che per prime in Italia avevano aperto i centri antiviolenza.

Per tutti questi motivi Liberamente Donna decise di non partecipare alla gara, che venne poi vinta dall’associazione San Martino, legata alla Caritas. «Da più di un anno, dunque, il centro antiviolenza, le case rifugio e la pronta emergenza contro la violenza di genere vengono gestite a Terni da un’associazione confessionale», dice Sara Pasquino, avvocata di Ru2020-Rete Umbra per l’Autodeterminazione.

«Le amministrazioni della destra stanno demolendo l’esperienza dei centri antiviolenza in Umbria», aveva denunciato alla fine dello scorso anno Elisabetta Piccolotti, deputata umbra di Alleanza Verdi e Sinistra, aggiungendo che l’affidamento alla San Martino era avvenuto secondo lei «in violazione delle norme regionali e in un contesto in cui le utenti hanno invece molteplici e diversi orientamenti culturali e religiosi». Poche settimane prima, centinaia di persone avevano preso parte a una manifestazione contro le scelte politiche fatte a livello regionale e locale per «depotenziare» i centri antiviolenza del territorio.

Il caso di Terni comunque non è isolato. In Italia i centri antiviolenza sono pochi e hanno a disposizione poche risorse, spesso erogate con meccanismi lenti, disomogenei e poco trasparenti. Da tempo la loro gestione viene affidata tramite gare d’appalto a organizzazioni, fondazioni o cooperative “neutre”: che si occupano di altro, che stanno fuori dalla Convenzione di Istanbul e fuori rispetto ai percorsi di autodeterminazione e autonomia delle donne portati avanti da chi lavora e ha esperienza su questo da decenni. Bandi o gare d’appalto come quelle di Terni stanno cioè via via svuotando questo tipo di servizi delle competenze e delle metodologie acquisite e costruite in anni di esperienza.

– Leggi anche: Il problema con i finanziamenti dei Centri antiviolenza

Nel migliore dei casi, sostengono le operatrici dei centri Di.Re, queste realtà non di settore «affrontano la questione solo in termini assistenziali». Nel peggiore, la affrontano «con la stessa visione della violenza di chi la provoca», dice Simona della Casa delle donne Lucha y Siesta di Roma. Come spiegato nell’ultima relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, risulta che solo la metà dei centri antiviolenza presenti in Italia sia gestita da organizzazioni specializzate esclusivamente in violenza contro le donne.

Il manifesto valoriale della regione
Nel 2019, durante la campagna elettorale per il rinnovo del presidente e della giunta regionale dell’Umbria, la candidata del centrodestra Donatella Tesei, esponente della Lega, aveva firmato un “Manifesto valoriale” promosso da sette associazioni antiabortiste per sostenere «la famiglia naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna» e «la vita, dal concepimento fino alla morte naturale».

– Leggi anche: Breve storia del successo dei movimenti antiabortisti italiani

Una volta eletta, e coerentemente con quanto sottoscritto, Tesei aveva abrogato una legge regionale approvata dalla precedente amministrazione di centrosinistra che prevedeva l’assunzione della pillola RU486 per l’aborto farmacologico in day hospital, senza dover passare da un ricovero ospedaliero di tre giorni (pratica quest’ultima che di fatto rappresenta un ostacolo per molte donne). Erano seguite proteste a livello nazionale, e a quel punto il ministero della Salute aveva deciso di aggiornare le linee di indirizzo sulla RU486 annullando l’obbligo di ricovero in ospedale, estendendo a nove settimane di età gestazionale la somministrazione del farmaco, e prevedendone la somministrazione in consultorio o in ambulatorio.

La giunta regionale aveva deciso di accogliere le nuove linee di indirizzo con una delibera, ma nei fatti la procedura farmacologica non è mai stata introdotta nei due ospedali più grandi dell’Umbria, quelli di Perugia e di Terni.

La decisione di Tesei di adeguarsi alle linee di indirizzo è stata comunque molto criticata dalle associazioni del “Manifesto valoriale”, che hanno trovato un’altra strada per cercare di limitare l’accesso all’interruzione di gravidanza: hanno presentato un progetto di legge che prevede per esempio la possibilità per i cosiddetti “movimenti per la vita” di entrare nei consultori pubblici e guadagnare ampio spazio nella gestione delle politiche familiari. La proposta è ora alla discussione in Commissione, che a metà gennaio ha concluso le audizioni delle associazioni di settore.

Le decine di associazioni e di movimenti riuniti sotto il nome di Ru2020-Rete Umbra per l’Autodeterminazione ritengono che, accanto a quel progetto di legge, regione Umbria, comune di Perugia e comune di Terni, tutti governati dalle destre, negli ultimi anni abbiano fatto diversi interventi per depotenziare l’autodeterminazione delle donne e tutte le realtà che lavorano in questa direzione. La gara d’appalto per il centro antiviolenza e il bando per la Casa delle Donne ne sono solo gli ultimi esempi.