Il film tedesco che ha vinto 4 Oscar

“Niente di nuovo sul fronte occidentale” è stato il secondo più premiato, pur essendo un film di guerra non troppo ambizioso né particolarmente originale

Niente di nuovo sul fronte occidentale
Una scena del film “Niente di nuovo sul fronte occidentale”
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C’è stato un momento, durante la 95esima cerimonia dei premi Oscar che si è tenuta domenica sera a Los Angeles, in cui è sembrato che il film tedesco sulla Prima guerra mondiale Niente di nuovo sul fronte occidentale potesse vincere gran parte dei premi per cui aveva ottenuto le sue nove candidature, incluso quello per il miglior film. Dopo aver vinto come miglior film internazionale, infatti, durante la serata si è aggiudicato anche i premi per la fotografia, la scenografia e la colonna sonora. Come miglior film ha poi vinto, come da pronostico, Everything Everywhere All at Once, ma Niente di nuovo sul fronte occidentale è stato comunque il secondo film più premiato.

Non succede spesso che un film tedesco recitato perlopiù da attori sconosciuti e diretto da un regista tedesco che lavora soprattutto per la televisione, Edward Berger, vinca quattro premi Oscar. Niente di nuovo sul fronte occidentale infatti è solo il quarto film prodotto in Germania a vincere il premio per il miglior film internazionale nella storia degli Oscar: una categoria in cui Italia e Francia, per capirci, hanno vinto rispettivamente 14 e 12 volte. Dallo stesso romanzo da cui è tratta la sceneggiatura, inoltre, erano già stati tratti due film, entrambi statunitensi: uno del 1930 che vinse l’Oscar per il miglior film, e un altro del 1979.

Il film, adattamento di un omonimo romanzo molto conosciuto del 1928, scritto dall’ex militare tedesco Erich Maria Remarque, racconta la storia di un adolescente tedesco che nel 1917 mente sulla sua età per potersi arruolare volontariamente nell’esercito e rimanere vicino ai suoi tre compagni di scuola più cari. Inizialmente animato da un grande idealismo e fervore nazionalista, come ogni altro soldato in partenza, rimane però sconvolto dalla violenza della guerra dopo essere stato spedito al fronte occidentale per difendere la linea di trincea dai contrattacchi delle forze anglo-francesi.

Presentato a settembre al Toronto International Film Festival, Niente di nuovo sul fronte occidentale ha avuto una distribuzione nelle sale molto limitata. Era stato reso disponibile alla fine di ottobre su Netflix, che ne aveva acquisito i diritti di distribuzione già in fase di produzione ma che non sembrava averci puntato più di tanto per cercare di impressionare l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, l’associazione che assegna gli Oscar, che è notoriamente poco generosa con Netflix.

Ma ci sono diverse ragioni per cui, nonostante queste caratteristiche apparentemente sfavorevoli e nonostante non sia stato unanimemente apprezzato dalla critica, Niente di nuovo sul fronte occidentale è riuscito a vincere quattro Oscar (e non solo: a febbraio è stato tra i più premiati di sempre ai BAFTA, i più importanti premi britannici per il cinema).

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Una è la presa che le storie di guerra hanno dimostrato di avere da sempre sui membri dell’Academy: il premio più importante, quello per il miglior film, è stato vinto da un film di guerra 16 volte. La prima volta risale alla prima cerimonia degli Oscar in assoluto, nel 1929: vinse un film muto, Ali, proprio sulla Prima guerra mondiale. La volta più recente, nel 2009, fu quando vinse The Hurt Locker della regista statunitense Kathryn Bigelow.

Poche cose sono «intrinsecamente drammatiche o cinematografiche come la battaglia», sia l’atto stesso che le conseguenze, ha scritto qualche giorno fa sul New York Times il critico Jason Bailey, suggerendo che Niente di nuovo sul fronte occidentale potesse vincere il premio come miglior film. I film di guerra, secondo Bailey, sono inoltre un genere che più facilmente di altri si adatta «ai tempi e agli stati d’animo in costante cambiamento del paese».

Sotto molti aspetti, da quello narrativo a quello estetico e fotografico, Niente di nuovo sul fronte occidentale sembra inoltre richiamare due film molto presenti nell’immaginario comune e apprezzati dal pubblico. Uno è Salvate il soldato Ryan, uno dei più famosi successi del regista statunitense Steven Spielberg, uscito nel 1998 e ambientato durante la Seconda guerra mondiale. Vinse cinque premi Oscar ed è ancora oggi citato come uno dei film di guerra più emozionanti e influenti dei nostri tempi, non soltanto per la violenza delle scene ma in generale per aver “codificato” un certo stile dei film di guerra molto riconoscibile per la scarsa saturazione dei colori e l’uso della camera a mano.

L’altro film a cui Niente di nuovo sul fronte occidentale sembra fare riferimento è 1917, film del 2019 diretto dall’inglese Sam Mendes e discretamente apprezzato per la straordinaria complessità tecnica delle riprese. Anche quello raccontava una fase della Prima guerra mondiale sul fronte occidentale, e rimase impresso nella memoria di molti per la scena della corsa dei due caporali britannici protagonisti attraverso le linee di trincea. Ottenne dieci candidature ma vinse soltanto tre premi minori, nell’edizione ricordata per il successo di Parasite.

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La fama, il valore storico e l’influenza sul cinema del romanzo di Remarque sono considerati un altro fattore del successo di Niente di nuovo sul fronte occidentale, che è il primo adattamento cinematografico tedesco mai realizzato a partire da questo libro. Come ha ricordato la storica inglese Bethany Wyatt, ricercatrice della Northumbria University a Newcastle specializzata in studi sulla Prima guerra mondiale, il libro di Remarque è uno dei testi più conosciuti in assoluto da generazioni di storici, studiosi di letteratura e studenti: un punto di riferimento fondamentale per la narrazione di qualsiasi storia di giovani soldati morti a milioni nei sanguinosi sviluppi della Prima guerra mondiale.

All’epoca in cui uscì, il romanzo fu considerato innovativo perché descriveva la violenza e la crudeltà sul campo di battaglia, senza partigianerie e senza far proprio uno stile narrativo da genere eroico e d’avventura allora dominante nel racconto della guerra. Conteneva per la prima volta spunti che sarebbero poi diventati motivi ricorrenti nel cinema di genere, tra cui la paura della giovane recluta idealista e inesperta alle prese con la disperazione della guerra, o la manipolazione psicologica dei soldati mandati in trincea.

Proprio la distanza fisica ed emotiva tra il campo di battaglia e i luoghi in cui i capi rifiutano di arrendersi o trattano per la pace è uno degli aspetti che la sceneggiatura del film mostra con una certa libertà, integrando parti di racconto non presenti nel romanzo e alternate con un ritmo molto serrato alle scene di battaglia nel montaggio del film.

In una di queste parti recita peraltro l’unico attore famoso del film, il tedesco Daniel Brühl, che interpreta il politico e diplomatico tedesco Matthias Erzberger, noto per aver firmato l’11 novembre 1918 l’armistizio di Compiègne, che mise fine ai combattimenti, mentre era su un vagone ferroviario fermo in un tratto lungo i boschi della regione francese della Piccardia. Qui Erzberger appare come l’unico tedesco non impegnato sul campo di battaglia che abbia a cuore la fine della guerra, mentre altri sembrano badare soltanto ai croissant serviti ai diplomatici sul vagone.

Gli aspetti per cui Niente di nuovo sul fronte occidentale riesce bene a descrivere l’«esperienza sensoriale» della guerra in trincea sono molti, secondo Wyatt, e non riguardano soltanto la violenza. Tra questi ci sono: l’eccitazione per l’arrivo della posta, l’umorismo usato per rendere più sopportabili i momenti di maggiore desolazione e tristezza, la gioia per il cibo nei rari momenti in cui non scarseggia, e infine la paura dei soldati gravemente feriti o mutilati per il proprio futuro una volta congedati. Tutti aspetti che rendono il film uno degli esempi recenti più potenti del cinema di guerra, ha scritto Wyatt, e per cui potrebbe essere considerato il «migliore di sempre sulla Prima guerra mondiale».

Niente di nuovo sul fronte occidentale sembra inoltre essere stato apprezzato dall’Academy almeno in parte proprio per le ragioni per cui è invece stato criticato da alcuni in Germania. In un’intervista con lo Spiegel, nel 2022, il regista Berger disse che la memoria della Prima guerra mondiale fu a lungo «sostituita nei ricordi dei tedeschi dalle atrocità commesse nella Seconda», e che per questo motivo è trascorso così tanto tempo prima di un adattamento tedesco del romanzo di Remarque.

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Inoltre, disse Berger, per i tedeschi il cinema di guerra non è mai stato un genere «sinonimo di narrazione di storie eroiche», diversamente da come lo è stato per inglesi e americani, perché i tedeschi non avevano niente di positivo a cui collegare quelle storie. «Per noi ha molto a che fare con la vergogna, con i sensi di colpa e il dolore, e questo è esattamente ciò che volevamo trasmettere», disse Berger.

In questo sta anche il limite del film, aveva scritto il critico Alex Ross sul New Yorker lo scorso febbraio, riprendendo in parte molte altre critiche – anche tedesche – e segnalando come Niente di nuovo sul fronte occidentale mostri fin troppo esplicitamente l’intenzione costante di aderire a un cinema di genere hollywoodiano. In particolare le aggiunte nella sceneggiatura rispetto al libro di Remarque, e cioè la parte sui negoziati, sono state interpretate da molti come una risposta al bisogno di inserire un “buono” e altri stereotipi a tutti i costi e assecondare un impianto narrativo da blockbuster.

Per Ross anche la colonna sonora segue una certa tendenza attuale a utilizzare suoni brevi e amplificati per enfatizzare alcune scene. Scritta dal compositore tedesco Volker Bertelmann, la colonna sonora ha vinto l’Oscar ed è stata generalmente apprezzata per lo stile minimalista e la capacità di suscitare un’angosciante sensazione di inquietudine e pericolo imminente.

Uno dei temi principali e più suggestivi, quello a cui allude Ross, è composto da tre brevi accordi pesantemente distorti ma ottenuti a partire dal suono di uno strumento del XIX secolo, l’armonium, una specie di organo ad aria i cui mantici sono azionati tramite pedali (quello di Bertelmann era della sua bisnonna).