Quelli che scoprono i paleotsunami

Gruppi di ricercatori studiano le tracce lasciate dai grandi maremoti del passato, dei quali non abbiamo spesso testimonianze scritte

Dettaglio di "Una grande onda al largo di Kanagawa" di Katsushika Hokusai (Wikimedia)
Dettaglio di "Una grande onda al largo di Kanagawa" di Katsushika Hokusai (Wikimedia)
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Si ritiene che alla fine dell’estate del 1420 un forte terremoto lungo la costa del Cile causò uno tsunami nell’oceano Pacifico che raggiunse le Hawaii e ancora più a ovest alcune aree del Giappone. Non esistono testimonianze scritte cilene su quell’evento, ma i sismologi stimano che la scossa ebbe una magnitudo compresa tra 8.8 e 9.4, quindi altamente energetica. Alcuni enormi massi smossi lungo la costa furono spinti nell’entroterra dalla forza dello tsunami, dove possono essere osservati ancora oggi.

Se a distanza di sei secoli abbiamo informazioni su cosa accadde nella parte meridionale del deserto di Atacama in Cile è grazie al lavoro dei gruppi di ricerca che studiano i “paleotsunami”, le grandi ondate che anticamente si verificarono sul nostro pianeta e che in mancanza di testimonianze scritte richiedono approfondite ricerche geologiche per essere ricostruite. È un ambito di studio relativamente recente e sul quale c’è qualche dubbio, ma che potrebbe offrire nuove importanti prospettive per comprendere gli effetti di eventi catastrofici, come terremoti ed eruzioni vulcaniche, che nel corso delle ere geologiche hanno plasmato il nostro pianeta.

La parola tsunami deriva dal giapponese, significa letteralmente “onda sul porto” e può essere considerata un sinonimo di maremoto, anche se in letteratura scientifica prevale quasi sempre l’impiego della sua versione giapponese debitamente traslitterata. Per motivi geografici e di rischio sismico, il Giappone è del resto uno dei paesi più esposti agli tsunami. Il paese ha inoltre una lunga storia ben documentata e di conseguenza registri e archivi che vanno molto indietro nel tempo, utili per ricostruire i grandi terremoti del passato. Alcune notazioni sull’evento sismico del 1420 sono state per esempio molto importanti per ipotizzare che cosa accadde all’epoca in Cile.

Tendiamo a considerare uno tsunami come una versione su scala più grande e potente di una normale onda del mare, ma in realtà ci sono profonde differenze. Nel caso delle classiche onde, l’energia che le produce proviene per lo più dai venti e riguarda la parte più superficiale dell’acqua. Per questo motivo le onde hanno dimensioni e velocità relativamente limitate, se confrontate con quelle di un maremoto.

Gli tsunami sono il prodotto di eventi altamente energetici che avvengono per lo più sott’acqua in prossimità del fondale marino: una potente eruzione vulcanica, una grande frana lungo un pendio su una dorsale oppure un forte terremoto. Lo strato d’acqua che si trova al di sopra si solleva rispetto al livello normale, poi torna ad abbassarsi per effetto della gravità, causando una dispersione dell’energia in orizzontale che produce l’onda vera e propria, che può raggiungere una velocità di svariate centinaia di chilometri orari.

(TED-Ed)

Lontano dalla costa uno tsunami può passare inosservato, perché si muove attraverso l’intera profondità dell’acqua, formando meno increspature rispetto a un normale moto ondoso. Quando però raggiunge acque meno profonde in prossimità della costa si verifica lo “shoaling”, il fenomeno che porta le onde ad aumentare in altezza relativamente al diminuire della loro velocità. In questa fase uno tsunami raggiunge il massimo della propria altezza, che in alcuni casi può superare i 30 metri. Spesso questa circostanza è anticipata dal ritirarsi temporaneo del mare lungo la costa, dovuto alla fase in cui si genera il grande sollevamento dell’acqua in prossimità del luogo in cui si è verificato il terremoto o la forte eruzione vulcanica.

Dopo aver investito la costa l’onda inizia lentamente a ritirarsi, portandosi dietro ciò che ha travolto o seppellendolo sotto altri detriti. Alcune tracce del suo passaggio spariscono in breve tempo, altre possono permanere a lungo ed essere alquanto evidenti, come si suppone nel caso dei grandi massi in Cile. È proprio dallo studio di queste tracce che i gruppi di ricerca ricostruiscono i paleotsunami, riuscendo in alcuni casi a identificare eventi sismici di grande potenza avvenuti in luoghi dove non c’era nessuno per documentarli.

Massi che si ritiene siano stati spinti dalla costa verso l’interno in seguito a uno tsunami (A. Scheffers – Tsunamiites)

Il gruppo di esperti di paleotsunami è ristretto, ma comprende ricercatori che hanno dedicato buona parte della propria carriera al loro studio. Sanno che per scoprire maremoti avvenuti centinaia o migliaia di anni fa devono scavare tra rocce e sedimenti, alla ricerca delle tracce lasciate dal passaggio della grande onda. Ritirandosi, lo tsunami deposita sul suolo rocce, conchiglie e altri detriti che vengono poi coperti da altri sedimenti, preservando quelle tracce nel tempo al di sotto di altre stratificazioni.

La presenza di uno strato con caratteristiche diverse da quelle che dovrebbe avere il terreno in una certa area è un buon indizio per andare alla ricerca di un paleotsunami. Il lavoro di indagine è più semplice nelle aree con suolo sabbioso e soffice, mentre è più complicato nelle zone rocciose dove le stratificazioni possono essere meno evidenti. Per questo oltre alle analisi del suolo i gruppi di ricerca cercano tracce di fossili o di minuscoli residui organici, come quelli delle diatomee (microalghe unicellulari), che possano offrire maggiori spunti per i loro studi.

Nel caso del terremoto del 1420, un gruppo di ricerca cileno era partito da ciò che c’era sotto uno dei massi da 40 tonnellate, che per secoli aveva fatto da fermacarte lasciando inalterati i sedimenti sottostanti. Le analisi avevano permesso di datare alcuni ritrovamenti organici tra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo. Confrontando le fonti, i ricercatori avevano notato la segnalazione di uno tsunami in Giappone nel 1420 con caratteristiche compatibili con la grande onda che aveva interessato la costa del Cile.

La Valle de la Luna nel deserto di Atacama è considerata uno dei luoghi più secchi del mondo (John Moore/Getty Images)

In altri casi le ricerche possono essere facilitate dalle tracce lasciate dalle nostre attività. Sempre in Cile, intorno a 3.800 anni fa antichi insediamenti lungo le coste furono abbandonati, con la costruzione di insediamenti di dimensioni paragonabili più nell’entroterra. Quelle osservazioni, insieme ad altri dati raccolti analizzando i sedimenti, risalgono a un periodo compatibile con un grande paleotsunami che si ipotizza interessò un’ampia area dell’oceano Pacifico meridionale. Non ci sono testimonianze nelle fonti scritte, ma si pensa che i maremoti interessarono oltre al Cile: le isole Cook, Tonga, Vanuatu e la Nuova Zelanda. Le ricerche sulle isole che si presume fossero state coinvolte devono essere ancora effettuate, quindi gli stessi gruppi di ricerca invitano a mantenere qualche cautela.

Ricostruire eventi naturali avvenuti migliaia di anni fa non è semplice, ci sono molte variabili e non sempre sono disponibili archivi e cronache per confermare quanto sembrano suggerire i dati. Le ricerche sul campo richiedono talvolta spedizioni costose e non alla portata di molti centri di ricerca, specialmente nei paesi più poveri esposti a rischio tsunami. Dati parziali o frammentari possono portare a identificare correlazioni che non esistono, riconducendo erroneamente effetti simili a una stessa causa.

Lo studio degli tsunami è comunque in espansione e negli ultimi 20 anni ha raccolto un crescente interesse, non solo da parte delle istituzioni scientifiche, ma anche dei governi. Una maggiore consapevolezza sui rischi che possono comportare i maremoti iniziò a maturare dopo lo tsunami nell’oceano Indiano a fine dicembre del 2004, che si stima causò la morte di circa 230mila persone. Un interesse che fu poi rinnovato nel 2011 dopo il terremoto di magnitudo 9.1 al largo della costa del Giappone, il cui tsunami causò quasi 20mila morti e un’emergenza nucleare.

L’arrivo dello tsunami a Koh Raya, Thailandia, il 26 dicembre 2004 (JOHN RUSSELL/AFP/Getty Images)

Prevedere uno tsunami con largo anticipo è impossibile con le attuali tecnologie e conoscenze. Le reti di rilevazione dei terremoti specialmente nell’oceano Pacifico consentono in alcuni casi di inviare un’allerta alla popolazione con decine di minuti di anticipo, talvolta ore. Sono avvertimenti basati su modelli e simulazioni, con livelli di accuratezza variabili e non sempre molto affidabili, ma che consentono comunque di attivare alcune procedure di evacuazione delle persone dalle coste. Il consiglio in questi casi è di raggiungere aree più rilevate all’interno, allontanandosi il più possibile dalla costa.

Effetti dello tsunami in Giappone del 2011 (Kyodo via AP Images)

Come per i terremoti, anche per gli tsunami si possono comunque ridurre eventuali effetti catastrofici con la prevenzione. Dopo il maremoto del 2011 in Giappone ci furono polemiche e molti si chiesero se non fosse stato sottovalutato il rischio, considerato che il paese è tradizionalmente esposto ai terremoti e agli tsunami. Parte dei piani di emergenza era basata su precedenti tsunami, che non avevano però avuto la portata di quello che aveva poi travolto le coste dodici anni fa. I sistemi per ridurre l’impatto dell’ondata, per esempio attraverso la costruzione di muri e ripari, non sono comunque sempre efficaci soprattutto nel caso di tsunami molto potenti.

Non tutti i maremoti hanno comunque lasciato tracce per essere scoperti, a distanza di moltissimo tempo da quando si erano verificati. Chi si occupa dei più antichi ritiene che ce ne furono comunque di a dir poco devastanti. Si stima che 1,4 milioni di anni fa circa un terzo del vulcano Molokai orientale nelle Hawaii collassò nell’oceano Pacifico, producendo uno tsunami che superò i 600 metri di altezza, con grandi conseguenze sulle coste dalla California e del Messico.