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  • Martedì 7 febbraio 2023

Gli eccezionali profitti delle società petrolifere

Quelli dello scorso anno hanno superato ogni record, al punto da creare imbarazzi politici: e potrebbero ancora esserci forti guadagni

(Matthew Horwood/Getty Images)
(Matthew Horwood/Getty Images)

Dall’inizio della guerra in Ucraina i prezzi del petrolio sono aumentati tantissimo e le società energetiche hanno guadagnato molto, mentre famiglie e imprese hanno avuto notevoli difficoltà. Le quotazioni del petrolio sono ora lontane dai picchi raggiunti all’inizio della guerra e durante la scorsa estate, ma l’embargo europeo al petrolio russo raffinato iniziato domenica potrebbe far risalire nuovamente i prezzi.

La contrapposizione tra l’enorme successo delle società petrolifere e le difficoltà dei consumatori suscita da mesi sentimenti ambivalenti: da una parte ci sono società private che vendono legittimamente una materia prima il cui prezzo aumenta per ragioni indipendenti dal loro volere, traendone un profitto; dall’altra ci sono i consumatori che subiscono questi rincari su vari fronti, quando vanno a fare rifornimento ma anche quando comprano prodotti a prezzi superiori perché sono aumentati i costi di trasporto, che si sono riversati sul prezzo dei beni.

Per questo molti governi occidentali hanno imposto tasse straordinarie sugli extra profitti delle società energetiche, in modo che parte del loro guadagno aggiuntivo potesse essere redistribuito sotto forma di aiuti e sussidi verso chi stava pagando tantissimo l’energia.

Il prezzo del petrolio è aumentato tantissimo rispetto a tre anni fa. A causa della pandemia i paesi produttori avevano ridotto l’offerta di greggio per adeguarsi a un consumo molto ridotto, visto che i viaggi e gli spostamenti erano vietati. Quando sono poi state rimosse le restrizioni l’offerta dei paesi produttori non è aumentata tanto quanto la domanda, rendendo di fatto il petrolio un bene più scarso e costoso. I paesi produttori, poi, vogliono continuare a tenere alte le quotazioni per guadagnarci, e non intendono aumentare l’offerta. Oltre a questo motivo strutturale, la guerra in Ucraina ha aggravato la situazione: la Russia era uno dei più importanti produttori al mondo di petrolio e l’Occidente ha imposto sanzioni proprio sulle sue esportazioni per colpirla a livello economico. Lo scorso anno le quotazioni sono salite oltre i 100 dollari al barile, un valore che non si vedeva da anni. Dalla fine dell’estate però i prezzi si sono assestati verso gli 80 dollari: per fare un confronto, nella primavera del 2020 il prezzo era di circa 20 dollari al barile.

Le società petrolifere, quindi, hanno guadagnato molto di più che in passato, perché le loro spese (per l’estrazione, la raffinazione, la vendita) sono rimaste di fatto le stesse. Su tutta la filiera produttiva, dall’estrazione fino alla vendita alla pompa di benzina, le aziende hanno ottenuto guadagni eccezionalmente alti.

Secondo i calcoli di Reuters, i profitti delle più grandi società energetiche occidentali (Shell, BP, TotalEnergies, Chevron, ExxonMobil) hanno raggiunto nel 2022 i 200 miliardi di dollari. Si parla proprio di profitti, ossia di quanto venduto al netto dei costi di produzione, quindi potenzialmente pronti per essere distribuiti agli investitori. I profitti della società Shell sono stati pari a 39,9 miliardi di dollari, il doppio rispetto al 2021 e i più alti dei suoi 115 anni di storia. Il gruppo americano ExxonMobil ha registrato profitti per 55,7 miliardi nel 2022, oltre due volte il risultato del 2021. BP ha più che raddoppiato i suoi utili rispetto al 2021, raggiungendo quasi i 28 miliardi di dollari.

Nel 2023 i profitti dovrebbero scendere a 158 miliardi, una cifra comunque ben superiore a quelli del 2021. La stima è fatta sui prezzi attuali, circa 80 dollari al barile, ma l’inizio dell’embargo al petrolio russo raffinato potrebbe far salire nuovamente le quotazioni e quindi i profitti delle società.

I profitti delle cinque maggiori società energetiche occidentali, in miliardi di dollari (Reuters)

Anche le società italiane hanno guadagnato dalla guerra. Eni ha chiuso il terzo trimestre del 2022 con utile netto pari a 3,73 miliardi di euro, in aumento del 161 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021. Nei primi 9 mesi del 2022 ha registrato utili per 10,8 miliardi, il 311 per cento in più rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente.

Molti governi occidentali hanno quindi imposto una cosiddetta windfall tax, una tassa straordinaria che si applica a discrezione dei governi verso determinate imprese che stanno traendo un vantaggio da circostanze impreviste ed eccezionali. Sono state quindi introdotte un po’ ovunque tasse sugli extra profitti delle società petrolifere, ma in generale di tutte le società energetiche, che si sono molto arricchite per gli effetti della guerra in Ucraina. L’obiettivo di questa tassa è raccogliere fondi per finanziare misure a favore di chi è stato svantaggiato dalla situazione, come cittadini e imprese che si ritrovano a pagare tantissimo di carburanti ed energia in generale.

L’Italia è stata uno dei primi paesi ad applicarla. La misura è stata decisa a marzo 2022 dal governo di Mario Draghi e prevedeva una tassa una tantum sugli utili extra delle aziende del settore energia, gas e petrolio, pari al 25 per cento. Il ministero dell’Economia contava di incassare dalla misura 10,5 miliardi di euro lo scorso anno, ma poi, per una serie di ragioni legate anche alla difficoltà di calcolo di quanto dovuto, le aziende hanno preferito non pagare contando sull’incostituzionalità della norma, e lo stato aveva incassato poco più di un miliardo. Il governo attuale per quest’anno ha deciso di aumentare la tassa dal 25 al 50 per cento.

L’Unione Europea a settembre ha annunciato l’introduzione di una tassa simile, che ha chiamato però “contributo di solidarietà”, dovuto dai produttori di fonti fossili, in aggiunta alle tasse nazionali. Prevede un prelievo di almeno il 33 per cento su qualsiasi profitto imponibile del 2022 e del 2023 che superi di almeno il 20 per cento i profitti medi ottenuti tra il 2018 e il 2021.

Anche il Regno Unito ha imposto una sua tassa sugli extra profitti: l’attuale primo ministro Rishi Sunak l’aveva introdotta in misura pari al 25 per cento quando era ancora Cancelliere dello Scacchiere (il corrispondente del nostro ministro dell’Economia) durante il governo di Boris Johnson; è stata poi aumentata al 35 per cento dall’attuale Cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt. Tuttavia il governo di Sunak è stato molto criticato per non essere stato ancora più duro nei confronti delle società energetiche: per mesi la società Shell, che ha la sede nel Regno Unito, ha detto che non aveva alcuna intenzione di pagare la tassa perché le sue attività erano quasi tutte all’estero. Giovedì ha però annunciato di aver finalmente pagato 134 milioni di sterline al governo inglese e oltre 500 milioni all’Unione Europea.

Dal punto di vista dell’equità, tutti gli economisti sono concordi nel dire che sia molto sensato un prelievo straordinario dagli enormi profitti fatti da queste società grazie alla guerra, proprio nell’ottica di raccogliere fondi per finanziare misure a sostegno di famiglie e imprese, il cui conto energetico, tra carburanti e bollette, è notevolmente aumentato.

Ci sono comunque dei rischi. Le aziende tassate possono adottare comportamenti elusivi e poco trasparenti per non pagare quanto dovuto: possono spostare le sedi fiscali e possono minacciare di non investire più o addirittura di ritirare investimenti nei paesi dove queste tasse vengono richieste, con il conseguente costo sociale derivante dalla perdita di reddito e posti di lavoro. La società americana ExxonMobil, il maggior fornitore europeo di petrolio, ha fatto causa all’Unione Europea contro il contributo di solidarietà richiesto proprio per questo motivo: secondo i vertici dell’azienda, una tassa sugli extra profitti scoraggerebbe gli investimenti. Molti hanno fatto però notare che questi extra profitti spesso sono serviti a pagare lauti dividendi agli azionisti e non a finanziare l’espansione del business.