La destra sapeva chi è Carlo Nordio

Le divergenze col resto del governo erano prevedibili conoscendo la sua storia, che è proprio il motivo per cui è stato scelto

(Mauro Scrobogna/LaPresse)
(Mauro Scrobogna/LaPresse)

Poco dopo l’arresto del boss mafioso Matteo Messina Denaro, le posizioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio contro la divulgazione delle intercettazioni e la sua nota intenzione di volerne riformare e ridurre l’utilizzo per i reati minori hanno spiazzato il governo, e hanno deviato in parte il dibattito pubblico in un momento in cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni avrebbe preferito si parlasse solo dell’operazione dei carabinieri, per intestarsene il merito almeno a livello di immagine.

La posizione di Nordio sulle intercettazioni non è nuova, l’ha articolata spesso da quando è andato in pensione e ha smesso di fare il magistrato. Negli ultimi giorni Nordio ha detto ancora che la possibilità di utilizzare le intercettazioni «per reati gravissimi» di mafia e terrorismo vada mantenuta, ma che secondo lui non dovrebbe essere più possibile farle per i reati minori. Nordio ha messo in discussione sia le leggi che stabiliscono quando e come possono essere usate nelle indagini (secondo lui se ne fanno troppe), sia il noto fenomeno della loro diffusione non autorizzata dalle procure alla stampa.

«Non vacilleremo, non esiteremo, la rivoluzione copernicana su questa forma di abuso delle intercettazioni che fa finire sui giornali conversazioni di persone totalmente estranee alle indagini, magari selezionate e manipolate, è un punto fermo del nostro programma». Ma le intercettazioni non sono l’unica questione su cui Nordio ha orientamenti diversi rispetto alla maggioranza parlamentare e al governo, anche per le peculiarità della sua carriera.

Carlo Nordio è molto apprezzato dalla destra perché trent’anni fa indagò sui comunisti in Veneto, e perché fu uno dei pochi pubblici ministeri a criticare i metodi con cui venivano condotte le indagini dai suoi colleghi durante il famoso scandalo di Tangentopoli, negli anni Novanta. Nel gergo e nelle semplificazioni della politica e del giornalismo, quindi, Nordio viene spesso definito “garantista”: una persona rispettosa delle garanzie delle persone indagate o imputate.

Questa sua caratteristica lo ha reso gradito a Silvio Berlusconi e a Forza Italia, che storicamente si sono sempre proclamati garantisti, anche se nei fatti hanno difeso i diritti di certi imputati molto più di altri (cioè, in sostanza, applicano il garantismo principalmente ai reati dei cosiddetti “colletti bianchi”, e più raramente si sono occupati dei diritti dei detenuti e degli imputati comuni). Allo stesso tempo, però, Nordio è piuttosto distante dalle posizioni sulla giustizia di Fratelli d’Italia e della Lega, che chiedono spesso un approccio giustizialista, cioè più duro nei confronti di alcuni reati anche a danno dei diritti delle persone imputate o condannate, un aumento delle pene, un uso più largo della carcerazione.

Le stesse definizioni di “garantista” e “giustizialista” comunque hanno molti limiti. Malgrado il suo essere considerato “garantista”, infatti, i primi provvedimenti sulla giustizia del governo di cui Nordio fa parte sono stati la conferma dell’ergastolo ostativo e l’introduzione di un nuovo reato. Inoltre, quando era pubblico ministero, Nordio aveva condotto inchieste e indagini trovandosi in più di qualche caso a comprimere le garanzie degli imputati. In un caso del 2000 che all’epoca fece molto discutere, per esempio, convalidò il sequestro dell’auto di un ragazzo di 25 anni che era stato fermato mentre si trovava con una prostituta, e per questo era stato messo sotto indagine per favoreggiamento della prostituzione; il ragazzo si suicidò poco dopo. In quel caso Nordio criticò i carabinieri che avevano eseguito il sequestro e si giustificò dicendo che l’ordine di convalidarlo era venuto dal ministero dell’Interno.

Soprattutto in tempi recenti e nei suoi numerosi editoriali sul Messaggero, il ministro Nordio ha sostenuto posizioni non molto popolari all’interno di alcune correnti della magistratura: per esempio che le carriere dei pubblici ministeri (cioè i magistrati che indagano: la pubblica accusa) e le carriere dei giudici (cioè i magistrati che esprimono le sentenze) andrebbero separate, o che la carcerazione preventiva andrebbe limitata. Nell’agosto del 2019, quando il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle erano in procinto di allearsi, Nordio scrisse che il prezzo da pagare per quell’alleanza era il «ripudio di quella timida tendenza garantista che in questi ultimi anni il PD era andato assumendo proprio sulla giustizia».

Nordio in visita al carcere di Regina Coeli, a Roma (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Per comprendere l’inedito posizionamento politico di Nordio e delle sue idee, bisogna fare un passo indietro. Prima degli anni Novanta in Italia era soprattutto la sinistra a difendere i diritti delle persone indagate o imputate, e a vedere nella magistratura l’espressione di un potere oppressivo, da limitare. La destra invece aveva sensibilità opposte. Durante gli anni di Tangentopoli, cioè gli scandali di corruzione e le inchieste giudiziarie che dal 1992 in avanti portarono alla fine dei vecchi partiti, questo schema si capovolse. Da una parte i magistrati diventarono popolari e per certi versi inattaccabili anche per la sinistra post-comunista, che peraltro vedeva soprattutto i suoi avversari essere oggetto di arresti, indagini, processi; gli attentati della mafia contro magistrati famosissimi e apprezzati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino rafforzarono questa nuova sensibilità. Dall’altra parte, l’ascesa politica di Silvio Berlusconi, il suo aver raccolto l’eredità dei vecchi partiti di governo e i suoi molti problemi con la giustizia spostarono il centrodestra di allora verso posizioni più ostili alla magistratura e ai suoi poteri.

Nordio ebbe un ruolo in queste vicende, ma il suo recente avvicinamento alla destra italiana ha a che fare più con la sua storia che con le sue idee sulla giustizia.

Per gran parte della sua carriera Carlo Nordio – che ha quasi 76 anni ed è un magistrato in pensione – ha fatto il sostituto procuratore a Venezia, rifiutando incarichi dirigenziali perché, come disse lui stesso, preferiva fare i processi piuttosto che stare dietro a una scrivania. L’inchiesta per cui divenne un personaggio pubblico è quella relativa alle cooperative agricole in Veneto, le cosiddette “coop rosse”, iniziata nel 1993. Era un filone di indagini collegato a Tangentopoli.

La tesi di Nordio era che il Partito Comunista Italiano utilizzasse le cooperative in Veneto come strumento per raccogliere fondi pubblici, da dirottare poi nelle sue casse. Una volta completato il passaggio di denaro, sempre secondo l’accusa, le cooperative venivano fatte fallire. Nordio condusse l’indagine in modo interventista e aggressivo, con un atteggiamento che pure in seguito avrebbe rimproverato ai magistrati di Tangentopoli: sequestrò i bilanci delle Feste dell’Unità, per esempio, e si mise contro la dirigenza del partito erede del PCI, il PDS, secondo cui la teoria di Nordio non stava in piedi perché era basata sul solo fatto che i vertici del partito non potessero «non sapere», senza che ci fossero altre prove.

Alla fine l’indagine non ebbe molti risultati concreti: una parte confluì in altre inchieste, mentre fu lo stesso Nordio a chiedere l’archiviazione per alcuni indagati, tra cui importanti politici ex comunisti come Achille Occhetto e Massimo D’Alema. Dal momento però che all’epoca i magistrati ricevevano un’attenzione esagerata da parte dei media, a Nordio restò attaccata la fama di “quello che aveva indagato sui comunisti”, mentre il resto delle inchieste di Tangentopoli si era concentrato prevalentemente sulla Democrazia Cristiana e sul Partito Socialista.

Nordio nel 1995 dopo un’audizione al Consiglio superiore della magistratura (ANSA)

C’è almeno un’altra inchiesta per cui il ruolo di Nordio viene spesso ricordato, oltre a quella sulle “coop rosse”: quella del 2014 sul Mose, la monumentale opera pubblica di Venezia che è stata in costruzione per decenni, e che oggi protegge la città dall’acqua alta. L’inchiesta riguardò gran parte della classe politica locale, di centrodestra, portò a numerosi arresti e alla condanna per corruzione dell’ex presidente del Veneto, Giancarlo Galan di Forza Italia. Nonostante questo, comunque, Nordio restò uno dei pochi magistrati apprezzati dalla destra italiana. Fratelli d’Italia nel 2022 lo propose prima come candidato presidente della Repubblica e poi come ministro della Giustizia.

Una volta arrivato al governo sono emerse da subito contraddizioni e polemiche: Nordio è un ministro di destra e con un passato di battaglie legali contro la sinistra, ma ha anche una grande autonomia politica dai partiti che sostengono il governo. Tutto questo era ampiamente noto così come erano note le posizioni sulla giustizia di Lega e Fratelli d’Italia, ed era prevedibile che queste differenze avrebbero potuto portare a tensioni e disaccordi.

Si possono fare soltanto ipotesi sulle ragioni di questa scelta da parte di Meloni. Al di là della stima personale che Meloni dice da tempo di avere verso Nordio, una spiegazione è che Fratelli d’Italia e Meloni non volessero lasciare un ministero importante come quello della Giustizia agli altri partiti della coalizione, che avevano candidati altrettanto titolati per svolgere quel ruolo: la Lega proponeva l’avvocata Giulia Bongiorno mentre Forza Italia l’ex presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, anche lei avvocata.

L’unica strada per Meloni era proporre un ministro “tecnico” ma riconducibile alla destra e ritenuto autorevole anche dai suoi alleati: Carlo Nordio rispondeva perfettamente a questi requisiti, nonostante le sue idee non fossero del tutto in linea con quelle di Fratelli d’Italia e della Lega.

In parte questa contraddizione è stata ammessa dallo stesso Nordio in un’intervista con Repubblica, commentando la decisione del governo di nominare sottosegretario al suo ministero Andrea Delmastro Delle Vedove, espressione delle idee più dure e securitarie di Fratelli d’Italia: «Siamo entrambi convinti che il garantismo significhi da un lato l’affermazione della presunzione d’innocenza e dall’altro la certezza della pena. Certo, io ho sempre enfatizzato maggiormente il primo aspetto, e lui il secondo, ma il risultato algebrico è uguale».

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