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  • Lunedì 23 gennaio 2023

Il Príncipe, l’ultima periferia d’Europa

Il quartiere tutto musulmano della città di Ceuta, exclave spagnola in Marocco, è stato definito «il più pericoloso di Spagna»: è un posto con una storia particolare e complicata

di Valerio Clari

Una discarica abusiva nel quartiere Príncipe di Ceuta (foto Il Post)
Una discarica abusiva nel quartiere Príncipe di Ceuta (foto Il Post)
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Il Príncipe Alfonso è stato spesso definito dalla stampa spagnola e internazionale il “quartiere più pericoloso di Spagna”: è un barrio (quartiere in spagnolo) di Ceuta, exclave spagnola in Marocco, unico territorio d’Europa insieme a Melilla (altra exclave) che condivide un confine di terra con l’Africa.

È un posto particolare, con una storia complessa e un presente assai problematico. Per la sua posizione, la sua storia, la sua struttura sociale, tutti i problemi delle periferie europee si manifestano qui in forma intensa. Solo negli ultimi venti anni è passato da guerre fra narcotrafficanti a una fase di radicalizzazione islamica e legami col jihadismo, oggi per lo più superate. Il problema odierno, in un certo senso nuovo, è la criminalità comune, giovanile, meno organizzata ma altrettanto pericolosa: l’ultima morte violenta è di un paio di mesi fa, un militare ucciso da colpi di pistola. Le sparatorie avvengono però a frequenza settimanale. Le cause sono sempre le stesse: disoccupazione, abbandono scolastico, scarsa presenza dello stato, assenza di prospettive.

Il Príncipe è quasi totalmente abitato dalla comunità di religione musulmana ed è cresciuto nei decenni in modo spontaneo e di fatto abusivo, in cima a una collina.

Le strade percorribili in auto sono tre, oltre a quelle che gli girano intorno: il resto sono vicoli, discese e salite pedonali, scalette e case che quasi si toccano. Camminando si perde l’orientamento, finché fra le abitazioni non si apre una vista sul mare. Da lontano, per i colori delle case costruite sul bordo della collina, può sembrare un “caratteristico”  borgo marittimo. Da vicino, l’incanto si spezza in fretta: serrande chiuse di negozi abbandonati, molti rifiuti fra cui pescano i gabbiani, qualche gatto spelacchiato, carcasse di auto o oggetti bruciati.

La mattina è particolarmente tranquilla, dopo le sei di sera i bus non ci arrivano più. Con l’oscurità i bus diventavano oggetto di lanci di pietre. I bar sono non più di un paio: l’alcol non si beve, vanno forte tè e shisha, il narghilè. I residenti sembrano conoscersi tutti, si parla un dialetto che mescola arabo e spagnolo. Chi ci abita non lo definisce davvero pericoloso, chi non ci abita e ci passa viene notato. Da anni non ci sono più stazioni fisse di polizia e Guardia Civil nel quartiere: sono state chiuse e non tutte le chiamate ottengono risposta, aumentando il livello di insicurezza.

C’è solo una scuola elementare, i negozi di ogni genere sono pochi, le possibilità di trovare un lavoro legale praticamente nulle. Il centro di Ceuta è molto lontano, simbolicamente ma anche geograficamente: non è la classica periferia che arriva dopo chilometri di urbanizzazione continua. La Città Autonoma, come si definisce l’exclave spagnola in Marocco, è cresciuta seguendo la conformazione dei suoi 18 chilometri quadrati di terreno, circondati dal mare e dal Marocco, raramente pianeggianti. Il Príncipe sorge in alto, a una quarantina di minuti di cammino dal centro e dal porto, zona dove per lo più abita la comunità cattolica, e quella dei funzionari cittadini.

La città si fa vanto della convivenza pacifica sul suo territorio di quattro comunità religiose, ma due sono decisamente minoritarie, quella ebrea e quella indù, mentre cristiani e musulmani vivono in quartieri diversi, con trattamenti diversi.

Ceuta ha poco più di 80 mila abitanti, sta di fronte a Gibilterra, dall’altra parte dello stretto, i suoi confini terrestri sono recintati, per bloccare o limitare gli ingressi dei migranti nel territorio dell’Unione Europea. Dalle case del Príncipe si vede la frontiera, la spiaggia del Tarajal dove avvengono attraversamenti clandestini e la “valla”, la barriera che divide i territori europei dall’Africa. È alta fino a sei metri e prevede due diverse barriere: in mezzo ci passa una strada, a uso esclusivo di polizia, Guardia Civil (corrispondente dei nostri Carabinieri) ed esercito spagnolo.

Una vista della barriera che separa Ceuta dal Marocco (Photo by Alexander Koerner/Getty Images)

La città è spagnola dal 1668, quando il Portogallo, che l’aveva conquistata un paio di secoli prima, la cedette. Fu poi coinvolta in una guerra ispano-marocchina nel Diciannovesimo secolo e divenne parte del Protettorato spagnolo sul Marocco nella prima metà del Novecento. In quel periodo molti marocchini vennero arruolati per l’esercito spagnolo in divisioni speciali, le “tropas indigenas”, molto utilizzate anche durante la guerra civile con le forze nazionaliste del generale Francisco Franco, che sarebbe poi diventato dittatore. Quando il Marocco riguadagnò l’indipendenza, nel 1956, Ceuta diventò l’exclave attuale: a molti marocchini che vivevano in questi territori da anni fu permesso di rimanere.

Nello specifico, nel quartiere Príncipe erano stati posizionati una caserma prima e un forte poi: militari ed ex militari iniziarono a vivere in queste zone dando origine all’attuale sobborgo, che in quegli anni era abitato sia da cristiani che da musulmani. Questi ultimi nelle due exclavi spagnole (Ceuta e Melilla) non avevano una reale cittadinanza spagnola, né documenti, ma solo un permesso di residenza. Un limbo giuridico che sarebbe rimasto tale per decenni, fino agli anni Ottanta, nonostante i cittadini di origine marocchina dovessero non solo pagare le tasse, ma anche ad esempio svolgere il servizio militare.

Il Príncipe è cresciuto da allora in modo disordinato, autonomo e senza veri interventi statali: gli spagnoli “cristiani” con il passare degli anni si sono trasferiti altrove, mentre la popolazione musulmana ha spesso aggiunto piani alle case originarie. Oggi il quartiere ospita ancora una chiesa cattolica, ma almeno una decina di moschee.

Abdelkamil Mohamed (detto “Kamal”) è il presidente dell’Associazione dei Vicini del Príncipe, una cosa a metà fra un comitato di zona e una ong, che negli anni si è occupata anche di rifare la pavimentazione dei vicoli, di assistere le famiglie più in difficoltà o di raccogliere ogni tipo di lamentele. Racconta che suo nonno comprò la casa da un cristiano, che la madre è nata in quell’abitazione e ancora ci vive, che lui lavora e si sente a casa, ma che ha trasferito altrove la famiglia perché per i figli sarebbe stato un ambiente pericoloso: «Se riesci a permettertelo, è una cosa saggia da fare».

Il Príncipe ha circa 8500 abitanti censiti, più altre 1000-1500 persone che vivono senza documenti, per lo più di cittadinanza marocchina. La maggior parte degli abitanti è però spagnola da 3-4 generazioni.

Il quartiere ha problemi di infrastrutture di base: tutte le case hanno acqua corrente ed elettricità, ma la rete idraulica è obsoleta e spesso difettosa, i cavi della corrente si sovrappongono e intrecciano pericolosamente. Il sistema fognario prevede che tutti gli scarichi finiscano in un torrente che scende giù per la collina: a valle vengono trattati, nel tragitto causano chiaramente problemi igienici. L’illuminazione è carente. Kamal ha raccolto segnalazioni e stimato che servirebbero 100-120 lampioni: «Sembrano tanti, ma costano come una, massimo due, delle luci scenografiche della via centrale».

Poi c’è la questione rifiuti: i cassonetti sono mancati per anni, quando vengono collocati finiscono spesso bruciati nel giro di una settimana, in atti di vandalismo per nulla isolati. Il risultato è la nascita di discariche a cielo aperto. Una volta che sorgono, arriva gente anche da altre zone della città per lasciare lì rifiuti ingombranti senza troppi problemi.

Le strutture sono una parte del problema, ma non la principale: la popolazione del quartiere cresce, l’età media è sempre più bassa, ma le prospettive per chi nasce qui sono limitate. Il tasso di disoccupazione del Príncipe è il più alto di Spagna, quello di completamento del percorso scolastico il più basso, con pochi pari anche a livello europeo. I livelli di disoccupazione sono alti in tutta Ceuta, per un insieme di fattori.

La Città autonoma è stata governata negli ultimi vent’anni dal Partito Popolare, di centrodestra, e dallo stesso presidente/sindaco, Juan Jesús Vivas. Il suo governo ha in un certo senso estremizzato un’economia locale basata soprattutto sull’impiego pubblico, finanziato in maniera massiccia dallo stato.

In città la classe medio-alta è composta per lo più da funzionari di vari livelli, spesso provenienti dalla penisola, attirati da stipendi che possono essere anche di mille euro più alti rispetto al resto della Spagna. Le possibilità di impiego per gli altri sono collegate a contratti di nove mesi per opere pubbliche, che si ottengono iscrivendosi alle liste di disoccupazione: a Ceuta ci sono schiere di spazzini che lavorano a gruppi di otto-dieci, soprattutto per le vie del centro, e cantieri pubblici ovunque. Nel frattempo, però, hanno chiuso quasi tutte le poche aziende private che esistevano (birra, costruzioni, inscatolamento del pesce), il porto non può rivaleggiare con quelli marocchini, il turismo è limitato. Fino a prima della pandemia, quando i confini erano aperti ai residenti delle province vicine marocchine, la manodopera edile o per i lavori meno qualificati veniva tutta da oltre confine, perché più economica.

Al Príncipe i giovani non trovano lavoro perché poco qualificati e spesso non possono accedere nemmeno ai sussidi, perché le unità abitative “abusive” vengono considerate come una sola, anche se composte da più appartamenti. Basta un padre o un fratello che abbia un reddito per far saltare le graduatorie: il nucleo familiare viene considerato lo stesso. Fino al 2019 molti si mantenevano con quello che a Ceuta chiamano, con un eufemismo, “commercio atipico”, una sorta di contrabbando tollerato, in assenza di una reale dogana merci: la chiusura delle frontiere, inizialmente per questioni sanitarie legate al Covid, ha bloccato anche questa risorsa.

L’operazione di polizia dopo l’omicidio del militare a metà ottobre (Antonio Sempere/ via ZUMA Press)

Nel quartiere c’è una scuola primaria (elementare). Le secondarie (medie) sono a cinque chilometri di distanza, così come serve cambiare barrio per trovare un campo da calcio, una palestra, un posto dove fare sport. Il tasso di abbandono scolastico prima della fine del ciclo della scuola dell’obbligo è intorno al 24 per cento a Ceuta, ben oltre la media nazionale (17 per cento, peraltro la più alta in Europa), ma supera il 56 per cento al Príncipe. Dice Abdelkamil Mohamed: «I ragazzi qui si svegliano tardi, stanno in giro in piazza, hanno poco da fare, sono poco istruiti e quindi più facilmente condizionabili».

Negli anni una parte dei giovani del Príncipe è stata arruolata prima dalle organizzazioni di narcotrafficanti, poi dai reclutatori islamici: fra gli anni Novanta e i primi Duemila organizzazioni rivali criminali si contesero il mercato, soprattutto dell’hashish, che passava da qui per arrivare in Europa. In quegli anni le frequenti sparatorie al Príncipe erano soprattutto per regolamenti di conti e definizione di territori di influenza. Ora le tratte delle organizzazioni criminali bypassano Ceuta, la merce arriva direttamente sulle coste meridionali della Spagna.

Negli anni in cui il terrorismo islamico è stato maggiormente attivo in Europa, sia nell’organizzazione di attacchi sul territorio occidentale sia per il reclutamento per lo Stato Islamico, il Príncipe fu individuato come luogo di radicalizzazione e indottrinamento: già dal 2006 e fino al 2017 il quartiere fu oggetto di alcune operazioni speciali dell’antiterrorismo, condotte anche in modo spettacolare, con l’intervento di elicotteri. Attualmente le cronache locali raccontano delle ricerche da parte della autorità spagnole di una cittadina del Príncipe da rimpatriare dalla Siria: aveva aderito allo Stato Islamico sposando un combattente. Non è un caso isolato, ci sono precedenti sia di ragazze che di ragazzi, attualmente detenuti in Spagna dopo esser rientrati.

L’operazione antiterrorismo del 2013 a El Príncipe (EPA/REDUAN)

Secondo Abdelkamil Mohamed, a parte i ridotti casi di chi è passato all’azione, la fase della radicalizzazione è stata principalmente una moda: «Molti avevano video dell’ISIS sul telefono, il loro coinvolgimento era preoccupante ma si fermava lì. Tanto che ora quella fase sembra finita». Nel 2014 uscì anche una serie Netflix, ambientata nel quartiere, ma girata altrove dopo una veloce ricognizione, che fondeva le due tematiche: un agente antiterrorismo si innamorava della figlia di un narcotrafficante locale. La serie fu criticata a Príncipe, per le generalizzazioni e l’immagine tutta criminale che diede dei suoi abitanti.

Oggi la violenza continua però a essere presente e nasce dalla creazione di bande giovanili dedite alla piccola criminalità, pericolosamente armate e spesso implicate in atti di vandalismo, come succede in altre periferie d’Europa. Molto frequenti sono gli incendi dolosi, non solo dei cassonetti ma anche di auto, garage e di cantieri pubblici, specie quando vengono percepiti come “esterni”, di aziende legate alla politica di Ceuta.

I complessi tentativi di migliorare le condizioni di vita dei vicini sono frustrati anche da questa resistenza “interna”, oltre che dalla distanza della politica. La partecipazione elettorale nel quartiere e in generale nella comunità musulmana è piuttosto bassa, a maggio a Ceuta si terranno nuove elezioni, per le quali la maggiore minaccia per il ventennale governo di Vivas (peraltro uno dei tre sindaci più pagati di Spagna, con uno stipendio annuale di 96mila euro, ma fra i primi cinque anche se consideriamo i presidenti delle comunità autonome) dovrebbe arrivare dal partito di estrema destra Vox.

Da quattro legislature, dicono al Príncipe, si parla di grandi progetti per il quartiere in campagna elettorale, che scompaiono dopo le elezioni. Da decenni si attende l’approvazione del piano regolatore, che permetterebbe di ottenere riconoscimento legale sulle proprietà del quartiere, al momento legata a contratti informali. Negli ultimi decenni gli interventi governativi nella zona si sono limitati alla costruzione di alcuni grandi condomini di edilizia popolare, in cui sono stati concentrati abitanti provenienti anche da altre aree, mentre l’assistenza sociale è stata lasciata principalmente all’intervento del volontariato. La distanza economica e sociale dal resto di Ceuta e della Spagna invece di ridursi è quindi aumentata. Kamal dice: «Eravamo già l’epicentro dei problemi, ora sono in crescita il razzismo e la discriminazione, e quindi la disparità». Nulla lascia prevedere un’inversione di tendenza a breve.

– Leggi anche: L’altra exclave spagnola, Melilla