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  • Martedì 3 gennaio 2023

Le divisioni dei Repubblicani americani sul nuovo speaker della Camera

Il candidato a vincerle, Kevin McCarthy, è trumpiano ma per alcuni nel partito non abbastanza: si vota oggi, tra molte incertezze

Kevin McCarthy (AP Photo/J. Scott Applewhite)
Kevin McCarthy (AP Photo/J. Scott Applewhite)

Martedì si riunisce per la prima volta la Camera americana rinnovata dopo le elezioni di metà mandato di novembre. Quello che dovrebbe essere il primo importante atto dell’assemblea, cioè l’elezione di un nuovo speaker (il presidente della Camera, di fatto), si sta trasformando in una crisi politica per il Partito Repubblicano, che alle elezioni aveva ottenuto una maggioranza risicata.

Il candidato a diventare speaker è Kevin McCarthy, un politico Repubblicano di lungo corso che da tempo fa parte della leadership del partito e negli ultimi anni si è molto avvicinato alle posizioni di Donald Trump. La sua candidatura è sostenuta da quasi tutti i deputati Repubblicani, ma la maggioranza del partito alla Camera è così piccola (222 voti contro i 212 del Partito Democratico) da rendere incerto l’esito del voto. A McCarthy servono 218 voti per diventare speaker, e ciò significa che basta che cinque Repubblicani votino contro di lui per perdere: attualmente, secondo vari conteggi, i Repubblicani contrari sarebbero una quindicina.

Sarebbe la prima volta in 100 anni che si verifica una cosa di questo genere, cioè una sconfitta nel voto per diventare speaker: successe l’ultima volta nel 1923.

McCarthy è stato leader del partito alla Camera dal 2014 a oggi, prima come leader della maggioranza e poi della minoranza. Sebbene abbia cominciato la propria carriera da Repubblicano tradizionale, dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza si è molto avvicinato alle sue posizioni, diventandone uno degli alleati più fedeli. Per questo, è considerato un candidato trumpiano e tutt’altro che moderato.

Ma un piccolo gruppo di Repubblicani radicali, anche loro fedeli a Trump ma convinti che il Partito Repubblicano vada riformato per essere ancora più estremista e indisponibile al dialogo con i Democratici, si oppone alla sua nomina a speaker, e minaccia di bloccarla: non è chiaro se l’obiettivo di questi Repubblicani radicali sia di ottenere concessioni da McCarthy, di fare una dimostrazione di forza o di spingere un candidato differente e ancora più di destra.

McCarthy sta cercando di negoziare con i suoi critici ormai da mesi, praticamente da quando è diventato noto il risultato delle elezioni di metà mandato. È ancora probabile che riuscirà a trovare un accordo e a farsi eleggere, facendo ampie concessioni agli estremisti (per esempio accettando che il suo mandato sia a termine, o di avviare i lavori su riforme e leggi particolarmente care all’ala destra del partito). Ma non è detto che ci riesca, e nel caso sarebbe una grave sconfitta per il Partito Repubblicano, oltre che un’umiliazione personale per McCarthy.

Le divisioni sulla nomina dello speaker non sono una novità nella politica americana, ma al momento dell’elezione si riesce sempre a trovare un accordo. Anche nella scorsa legislatura, per esempio, il nome della speaker uscente Nancy Pelosi era contestato all’interno del Partito Democratico, ma Pelosi fu comunque eletta al primo turno perché alcuni Democratici critici accettarono di astenersi e di non votare contro, abbassando così il quorum.

Se McCarthy dovesse essere eletto ma non al primo turno, sarebbe comunque un segnale di debolezza: significherà che il piccolo gruppo dei trumpiani radicali ha di fatto un ampio potere di ricatto su tutto il resto del partito.

Secondo la Costituzione americana, l’elezione dello speaker è il primo atto di una nuova Camera, ed è necessaria al proseguimento di tutto il resto: senza uno speaker, per esempio, i nuovi deputati non possono nemmeno fare la cerimonia di giuramento (anche se sono già attivi). Per questo, se la prima votazione non porta ad alcuna elezione, la si ripete finché non c’è consenso su un candidato. Tra un’elezione e un’altra i deputati hanno facoltà di parlare a favore dei loro candidati preferiti, ed è possibile che qualcuno si ritiri o che vengano fatti nomi nuovi.

Nel 1923 si trovò un accordo dopo nove votazioni. Nel 1856 servirono invece due mesi e ben 133 votazioni. Ma erano ovviamente altri tempi per la politica americana, che stavolta dovrebbe impiegarci molto meno anche se il primo turno fallisse.