Google deve preoccuparsi di ChatGPT?

In molti prevedono che le intelligenze artificiali che conversano con gli utenti sostituiranno i motori di ricerca, ma sembra ci vorrà ancora del tempo

(DALL•E)
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A fine novembre OpenAI, un’organizzazione senza scopo di lucro di ricerca sull’intelligenza artificiale, ha presentato al pubblico ChatGPT, un software pensato per conversare con gli utenti attraverso una chat. Questo tipo di strumento, comunemente detto “chatbot”, esiste da tempo ma ChatGPT si è fatto notare per le grandi capacità di generare contenuti testuali d’ogni tipo, producendo risposte molto credibili e sorprendenti. 

Sin dai primi giorni della sperimentazione con ChatGPT, molti utenti hanno notato che le capacità espressive del chatbot vanno ben oltre la generazione di risposte più o meno realistiche: grazie alla varietà di contenuti su cui il modello è stato allenato, riesce spesso a fornire risposte utili a domande di vario tipo. Un recente articolo pubblicato dall’Atlantic è arrivato a mettere in guardia dalle conseguenze che l’utilizzo di massa di servizi simili potrà avere nella didattica, visto che già oggi ChatGPT sembra capace di generare in pochi secondi un saggio breve abbastanza buono da ottenere la sufficienza – con qualche modifica da parte dell’utente.

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Il fatto che basti scrivere un breve comando e premere un pulsante per ricevere una risposta su qualsiasi argomento (o quasi) ha portato alcuni esperti a ipotizzare che intelligenze artificiali come ChatGPT possano diventare una grande minaccia per Google e altri motori di ricerca, che dalla fine degli anni Novanta organizzano e distribuiscono i contenuti nella rete. In futuro, infatti, chiedere consigli e informazioni a un chatbot potrebbe diventare più veloce e pratico rispetto a inserire una stringa di termini di ricerca nella barra di Google, sperando di ottenere la risposta desiderata tra i molti risultati.

Le nuove possibilità offerte dalle IA arrivano proprio in una fase delicata per il motore di ricerca, che da qualche anno è criticato per la crescente importanza data agli annunci pubblicitari nel mostrare i risultati di ricerca. Con un conseguente peggioramento dell’esperienza degli utenti. Oltre all’aumento di pubblicità, a peggiorare sensibilmente la qualità delle ricerche di Google è l’uniformità di una buona parte dei contenuti nel web, spesso prodotti seguendo le regole stilistiche della SEO (l’ottimizzazione per i motori di ricerca), nella speranza di essere selezionati e premiati dall’algoritmo. Di conseguenza, le ricerche di Google sono per molti meno rilevanti e accurate di un tempo, e per gli utenti è sempre più difficile trovare quello che cercano. Anche per questo, c’è chi ritiene che prodotti come ChatGPT possano indicare un’importante alternativa per la ricerca nella rete.

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Solo la scorsa settimana un analista della banca d’affari statunitense Morgan Stanley aveva ridimensionato la minaccia che queste IA sembravano rappresentare per Google. Non tutti gli esperti del settore però sono così ottimisti: secondo il New York Times, all’interno di Alphabet, il gruppo che comprende Google (ma anche YouTube e altre aziende), alcuni dirigenti sono piuttosto preoccupati e avrebbero dichiarato un «codice rosso», espressione con cui si indica un allarme che viene lanciato internamente per dare massima priorità a un tema o una potenziale minaccia. Secondo il quotidiano, infatti, «alcuni temono che per l’azienda si stia avvicinando un momento temuto dai principali gruppi della Silicon Valley: l’arrivo di un enorme cambiamento tecnologico in grado di sconvolgere il business».

Sarebbe comunque errato sostenere che Google sia stata presa alla sprovvista dall’avvento di OpenAI o di altri servizi come MidJourney AI e Stable Diffusion, molto utilizzati nella generazione di immagini. L’azienda è stata tra le prime a investire nel settore e ha già realizzato un chatbot che viene ritenuto in grado di competere con ChatGPT. Google ha anche un rapporto privilegiato con lo stesso modello linguistico GPT, di cui ha sviluppato parte della tecnologia (più precisamente quella relativa alla «T» della sigla GPT, ovvero la rete neurale «Transformer», presentata nel 2017).

Del chatbot sviluppato da Google si era parlato nei mesi scorsi a proposito di una polemica scaturita proprio dalle grandi capacità comunicative ed espressive dimostrate della tecnologia. Lo scorso giugno il programmatore Blake Lemoine, che lavorava per una sezione di Google dedicata alle IA, aveva detto alla stampa di avere le prove che LaMDA, l’intelligenza artificiale discorsiva sviluppata dall’azienda, era talmente avanzata da essere di fatto «senziente».

Le dichiarazioni di Lemoine avevano fatto scalpore ma erano state presto smentite da un’analisi della conversazione tra il programmatore e il chatbot, dalla quale era evidente che LaMDA rispondesse ai comandi dell’utente dando solo l’impressione di fornire risposte che sembravano provenire da un essere dotato di coscienza di sé. Lemoine fu licenziato da Google e il caso venne interpretato come prova delle grandi capacità di LaMDA. Nonostante questo, l’azienda è ancora reticente ad aprirne l’utilizzo al pubblico, come fatto da OpenAI con ChatGPT, mantenendolo a disposizione solo di pochi ricercatori e studiosi.

È proprio questo grado di cautela a separare Google da OpenAI, garantendo alla seconda un notevole vantaggio, quanto meno in termini mediatici. Allo stesso modo, è da tempo che Google sostiene che il futuro della ricerca è “conversazionale”, cioè che le semplici ricerche che conosciamo oggi saranno progressivamente sostituite da un dialogo continuo tra utente e servizio. La transizione verso questo nuovo tipo di ricerca è rallentato da due ostacoli principali: il primo ha a che fare con le dimensioni e la rilevanza che Google ha nel mondo digitale; il secondo riguarda il settore pubblicitario, fondamentale per le finanze del gruppo.

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Ad oggi, i testi prodotti da ChatGPT, pur essendo molto convincenti, contengono spesso errori, e la velocità con cui il servizio può produrre testi di qualunque tipo, dalle poesie alla bufale anti-scientifiche, preoccupa già molti commentatori. Secondo loro, la popolarità di queste IA avrà conseguenze pesanti nella diffusione di disinformazione e di fake news, tanto che qualcuno l’ha paragonata al «rilascio incontrollato di un virus nell’ambiente». Lo stesso co-fondatore e amministratore delegato di OpenAI, Sam Altman, ha definito il servizio «incredibilmente limitato ma abbastanza buono in certe cose da creare un’erronea impressione di magnificenza». Due anni fa, pochi mesi dopo la presentazione di GPT-3, aveva definito esagerate le aspettative legate alla tecnologia, sottolineandone i difetti e i molti errori compiuti.

Il fine ultimo di ChatGPT, almeno per ora, è generare risposte scritte dotate di senso compiuto, non di essere un oracolo in grado di dare la risposta corretta a qualsiasi domanda. Si tratta di un limite comune a qualsiasi prodotto del genere, LaMDA compreso, ed è questo a rendere problematica un’implementazione su larga scala da parte di Google, che non può permettersi di fornire un servizio inaffidabile, per quanto sorprendente. 

Anche se Google riuscisse a risolvere un problema tanto complesso, comunque, rimarrebbe aperta la questione pubblicitaria. Il modello di business del motore di ricerca prevede di mostrare pubblicità vicine ai risultati di ricerca e l’azienda non ha ancora capito come fare la stessa cosa in un modello conversazionale, nel quale le pubblicità dovrebbero interrompere il botta e risposta tra utente e macchina. Secondo il giornalista Alex Kantrowitz, «Google ha quindi scarsi incentivi a muoversi oltre la tradizionale ricerca, almeno non in un modo in grado di cambiare il paradigma, fino a quando non avrà capito come far funzionare l’aspetto economico. Nel frattempo, continuerà a puntare su Google Assistant», il suo assistente vocale.

A proposito di soldi, ad oggi ChatGPT è un prodotto sperimentale molto costoso. In occasione del raggiungimento del milione di utenti da parte di OpenAI, Altman ha detto che le spese per la manutenzione e il funzionamento del sistema «fanno venire le lacrime agli occhi». La società ha ricevuto investimenti da molte aziende e investitori, tra cui Elon Musk e Reed Hastings di Netflix, ma è particolarmente dipendente da Azure, la divisione di Microsoft che si occupa di cloud computing e infrastrutture digitali.

L’utilizzo di un servizio come ChatGPT da parte di un pubblico tanto grande, seppur limitato, ha un costo enorme, che secondo alcune stime sarebbe di tre milioni di dollari al giorno. Anche per questo, secondo alcuni osservatori, l’aspetto economico porrà presto fine a questa stagione di libera sperimentazione, costringendo OpenAI e altre società del settore a dare un prezzo ai propri servizi.