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  • Mercoledì 28 dicembre 2022

«La patria è una madre che può ammalarsi»

Lo disse l'attivista russo Yuri Dmitriev, in uno dei discorsi di prigionieri politici raccolti in un libro di E/O

Yuri Dmitriev (Memorial)
Yuri Dmitriev (Memorial)
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Nel luglio del 2020 Yuri Dmitriev, uno storico amatoriale che per decenni ha indagato sulle morti di migliaia di persone in Carelia, una regione della Russia al confine con la Finlandia, durante le repressioni staliniane, è stato condannato a 13 anni di prigione con l’accusa di pedofilia. Secondo la Corte suprema della Repubblica di Carelia, il tribunale che ha emesso la sentenza, Dmitriev avrebbe scattato delle fotografie pornografiche alla sua figlia adottiva. Per Memorial, la storica ong russa per i diritti umani che quest’anno ha vinto il premio Nobel per la pace e che era stata chiusa dalla Corte suprema della Russia un anno fa, la condanna di Dmitriev, un suo attivista, è ingiusta e motivata politicamente.

Il mese scorso la casa editrice E/O ha pubblicato una raccolta di “ultime parole”, cioè le ultime dichiarazioni che Dmitriev e altri attivisti accusati di vari reati in Russia hanno pronunciato in tribunale prima della sentenza in cui poi sono stati condannati. Il libro si intitola Proteggi le mie parole ed è stato curato da due membri di Memorial (si pronuncia Memoriàl), tra cui Giulia De Florio, intervistata nell’ultima puntata di Globo, il podcast del Post con un’intervista a settimana sulle cose del mondo. Le traduzioni sono di Ester Castelli, Luisa Doplicher, Axel Fruxi, Andrea Gullotta, Sara Polidoro, Francesca Stefanelli e Claudia Zonghetti.

Pubblichiamo un estratto della dichiarazione di Dmitriev, e in particolare la seconda parte, in cui lo storico e attivista, dopo aver riepilogato gli argomenti della propria difesa (in breve: aveva scattato delle fotografie alla figlia per mostrarle a medici) parlò del suo rapporto con il proprio paese.

***

Vostro Onore, ci tengo a ribadire che non ho mai compiuto atti osceni nei confronti di mia figlia. Quello che cercano di spacciare per una sorta di gioco erotico non è altro che una interpretazione malevola e viziosa di gesti d’affetto da parte di noi genitori. Non l’ho mai guardata, toccata, palpeggiata, accarezzata o chissà che altro. Le invenzioni del signor inquirente, accoratamente ripetute dall’esimia procura, non corrispondono minimamente a verità.

Passiamo ora allo scopo per cui ho preso una figlia adottiva. Che cosa mi ha mosso l’ho già spiegato. E ho già riferito com’è avvenuto il tutto e come ho vigilato sulla sua salute. Veniamo dunque allo scopo: perché ho accolto una figlia nella mia famiglia.

Sarò eternamente grato ai miei genitori per avermi allevato. E parlo di Aleksej Filippovič Dmitriev, militare di carriera, ufficiale, soldato. E di mia mamma, Nadežda Dimina. Entrambi di origini semplici, di famiglia contadina. Papà siberiano, della zona di Tjumen’, mamma di Vologda, di un distretto sperduto nella campagna. Si erano conosciuti durante la guerra e sposati nel 1946. Papà era stato ferito tre volte: da una pallottola, da una scheggia e da una baionetta, di cui porta la cicatrice sotto il cuore. Un tedesco lo colpì, ma non riuscì a finire il lavoro: gli spararono prima.

Quando capirono che (verosimilmente per le sofferenze e le privazioni patite durante la guerra) il Signore non avrebbe dato loro figli propri, compirono quello che secondo me è il loro atto di eroismo civile: mi presero da un orfanotrofio. Mi curarono, mi allevarono, mi fecero crescere e mi educarono così bene che ora, da questa cella, non avrei vergogna a guardarli negli occhi. Non ho vergogna.

Seguendo il loro esempio e memore del fatto che mi diedero loro la vita, anche io e mia moglie abbiamo deciso di prendere una bambina e di educarla con gli stessi princìpi con cui siamo cresciuti noi. Tutto ciò che abbiamo fatto durante la fase di inserimento in famiglia, perché crescesse in salute, vispa e via dicendo, lo abbiamo fatto seguendo le leggi della Federazione russa: il Codice della famiglia e tutte le altre normative.

Io credo, e la Costituzione della Federazione russa mi dà ragione, che la forza di uno Stato non sia nei carri armati e nei cannoni, nei razzi nucleari e nella capacità di mandare tutti a quel paese. No, la forza di uno Stato sono le persone. E a seconda di come si comporteranno uno Stato potrà crescere, arricchirsi e aumentare in intelligenza. Per questo, e in osservanza di quanto disposto dalla nostra Costituzione, intendevamo educare una giovane – che ora è una bambina, ma sarà poi un’adolescente e una giovane donna – perché fosse un elemento utile alla nostra società.

Non le abbiamo mai imposto con la forza alcun particolare valore. Non le è mai stato detto che deve volermi bene solo perché sono suo padre. Né che deve volere bene alla mamma perché è la mamma. Lo deciderà lei stessa in risposta al nostro amore. Non le è stato mai detto che deve amare il suo Paese. Lo deciderà lei stessa quando sentirà che il suo Paese si prende cura di lei. Peraltro, è per questo che l’ho battezzata – anzi no: che le ho permesso di battezzarsi – così tardi.

La prima volta che ha espresso la volontà di portare una croce al collo andava ancora all’asilo, e fu perché aveva visto un bambino che l’aveva. «Papà, la voglio anch’io» mi disse. E papà le spiegò che non era solo un ninnolo. Papà le spiegò che se da grande avesse creduto in Dio, avrebbe potuto fare come più voleva, e magari avrebbe anche potuto battezzarsi. Liberissima. Per questo l’abbiamo battezzata così tardi, a nove anni compiuti. Ci annunciò di volersi battezzare a otto anni, e noi la mandammo per un anno a catechismo, perché sapesse cosa è la fede, perché chi lo sapeva le spiegasse come osservarla e le insegnasse come fare tutto nella maniera più corretta, se avesse voluto davvero battezzarsi. Alla fine del catechismo le chiesi nuovamente se volesse il battesimo, e lei mi rispose: «Sì e adesso so anche perché». Nessuno l’ha costretta né irretita con dei regali. […]

Ora da noi va di moda… – si dice così, giusto? – parlare di patriottismo. Però consentitemi, il patriottismo è un’altra cosa. Chi è il patriota? Patriota è chi ama la patria. Ma da noi si va fieri soltanto dei successi militari. Invece la patria è una madre. Una madre che può ammalarsi, che può non stare bene, ogni tanto. Ma se sta male smettiamo forse di volerle bene? No. Non so se per fortuna o mio malgrado, ma so che il mio cammino, la mia strada è quella di far tornare dal nulla le persone scomparse per colpa di uno Stato che era la nostra patria. Persone accusate ingiustamente, fucilate, sepolte nei boschi come bestie randagie. Non c’è neanche una tomba, un mucchio di terra, un qualche segno che ricordi che in quel luogo sono sepolte delle persone. Forse il Signore mi ha dato questa croce, ma il Signore mi ha dato anche il modo di usarla. Magari non sempre, ma mi capita ogni tanto di trovare i luoghi dove sono avvenute delle tragedie di massa. Io unisco questi luoghi ai nomi delle persone, e provo a trasformarli in luoghi di memoria, perché è la memoria che ci rende uomini.

Del “patriottismo da militari” posso dire quanto segue. Mio padre è un reduce e a casa nostra il 9 maggio si festeggiava da molto prima che diventasse un giorno festivo. Me lo ricordo già nel 1965, e lo festeggiavamo già da prima.

Mia madre aveva sei sorelle. Tutti i loro mariti erano stati sui vari fronti della guerra. Ebbene: l’ultima cosa di cui parlavano a tavola erano le vittorie. Per loro la guerra è stata tragedia e dolore. Nemmeno le bandiere c’erano mai, a casa nostra. La vittoria era il lutto e il ricordo delle persone che erano morte.

Sono pienamente d’accordo con il nostro governo quanto alla necessità di ricordare i caduti, che sono parte della nostra memoria. Dovremmo anche ricordare, però, chi è morto per la cattiva volontà dei nostri capi di Stato. Questo è il vero patriottismo, per me. E questo ho insegnato alla figlia che ho adottato, questo sanno i miei figli naturali, Egor e Katja, questo sanno i miei nipoti, lo sanno gli scolari e gli studenti con cui ho lavorato, e probabilmente lo sanno e lo capiscono tutte le persone civilizzate. Pertanto, Vostro Onore, ritengo che questo caso, che è all’esame da tre lunghi, lunghissimi anni e mezzo, sia stato ideato deliberatamente per infangare il mio buon nome e, allo stesso tempo, per gettare un’ombra sulle tombe e sui cimiteri delle vittime della repressione staliniana che ho scoperto e che sono una meta assidua per tante persone.

Perché abbiate intentato questo caso, davvero non lo so. Per spegnere la memoria delle persone? Non è questo il modo. Per impedirmi di fare quello che faccio? Sono tre anni che non faccio nulla, ma non per questo la memoria sparirà.

Perciò, Vostro Onore, le chiedo di riesaminare e controllare con attenzione tutto di nuovo, quando si ritirerà per deliberare. Non ho commesso le pessime azioni con cui hanno riempito molti faldoni. Ho cercato di crescere mia figlia da buona cittadina del suo paese e da patriota – e non ho paura di usarla, questa parola, no – e ho fatto di tutto per riuscirci. Forse anche più della scuola, dei circoli e di tutto il resto.

Questo, credo, è tutto ciò che ho da dire. Grazie.

© Edizioni E/O

– Ascolta anche: La puntata di Globo su Memorial e la dissidenza in Russia