• Italia
  • Domenica 4 dicembre 2022

E la Gkn?

Le centinaia di lavoratori della fabbrica di Campi Bisenzio chiusa un anno e mezzo fa aspettano ancora soluzioni, e sono da due mesi senza stipendio

di Angelo Mastrandrea

La manifestazione fiorentina in solidarietà con i lavoratori della Gkn dello scorso marzo, in piazza Santa Croce (Giorgio Pica/Alto Press via ZUMA Press)
La manifestazione fiorentina in solidarietà con i lavoratori della Gkn dello scorso marzo, in piazza Santa Croce (Giorgio Pica/Alto Press via ZUMA Press)
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Sedici mesi dopo l’improvvisa chiusura, 320 lavoratori della Gkn – una fabbrica di componenti meccaniche per auto di Campi Bisenzio, a una ventina di chilometri dal centro di Firenze – presidiano ancora giorno e notte lo stabilimento. Vicino al cancello d’ingresso hanno montato un tendone che fa da punto di ritrovo. All’interno della fabbrica gli ex uffici amministrativi sono utilizzati per le riunioni sindacali o come deposito di bandiere, striscioni, tamburi, volantini e delle felpe con la scritta “collettivo di fabbrica”. A ora di pranzo la mensa è affollata di lavoratori e di attivisti che arrivano da ogni parte d’Italia in una sorta di pellegrinaggio militante, attratti dalla durata di un’occupazione che ha già superato quelle della tipografia Apollon a Roma, tra giugno 1968 e luglio 1969, e delle Officine Meccaniche Reggiane, tra l’ottobre del 1950 e lo stesso mese del 1951.

La Gkn Driveline è il più grande produttore al mondo di sistemi di trasmissione meccanica dell’energia dal motore alle ruote. In Toscana preparava soprattutto semiassi, delle barre di acciaio collegate all’albero di trasmissione che mettono in rotazione le ruote motrici. Fino al 1994, la fabbrica era proprietà della Fiat, che l’ha poi venduta alla Gkn, rimanendo la principale acquirente dei ricambi prodotti a Campi Bisenzio. È andato tutto bene fino all’inizio della pandemia di Covid. Nel 2021 le vendite di auto sono diminuite di quasi un quarto rispetto al 2019, e la Gkn ha deciso di chiudere lo stabilimento toscano, mantenendo in Italia solo quello di Brunico, in Alto Adige.

Nella lettera con cui annunciò il licenziamento di 335 operai, 67 impiegati, 16 quadri e quattro dirigenti, l’azienda spiegò che, a causa della crisi del mercato automobilistico, nel 2025 il fatturato dello stabilimento di Campi Bisenzio avrebbe raggiunto i 71 milioni di euro, una cifra inferiore del 48 per cento rispetto a quello del 2019. Per questo “la prospettiva è quella di una non sostenibilità dello stabilimento”. Per la Fiom-Cgil, che presentò un ricorso d’urgenza al tribunale del lavoro di Firenze, la scelta non aveva nulla a che vedere con la crisi del settore dell’auto, ma era stata dettata dalla decisione di produrre i semiassi per la ex Fiat, ora Stellantis, nell’est Europa.

Gli operai sono in “assemblea permanente” dal 9 luglio 2021, quando ricevettero via mail dall’azienda, che dal 2018 è di proprietà del fondo inglese Melrose, la comunicazione dell’avvio della procedura di licenziamento. Non smobilitarono quando, il 23 dicembre 2021, Francesco Borgomeo rilevò la società, con il progetto di riconvertirla alla costruzione di motori elettrici.

Borgomeo, che ha studiato filosofia alla Pontificia università gregoriana di Roma ed è presidente di Unindustria Cassino, è un imprenditore che fa consulenze per le multinazionali ed è specializzato in riconversioni industriali. Acquista fabbriche in liquidazione, mette a punto dei piani di riconversione, cerca investitori sui mercati globali e finanziamenti pubblici. Aveva già rilevato due fabbriche di ceramiche, la ex Marazzi di Anagni (Frosinone), e la Tagina di Gualdo Tadino (Perugia), in entrambi i casi trovando dei finanziatori dall’estero. Nel 2018 fece ripartire la Ideal Standard di Roccasecca, in provincia di Frosinone, convertendola dalla produzione di sanitari per bagni a quella di sanpietrini, realizzati con una miscela di gres porcellanato e ceneri di rifiuti urbani provenienti dagli inceneritori. In quel caso costituì una nuova società, la Saxa Grestone, trovando quattro partner finanziari e investendo di tasca sua 10 milioni di euro. Altri 16 milioni li mise il ministero dello Sviluppo economico attraverso la controllata Invitalia, 4 milioni la Regione Lazio e 10 milioni li lasciò la Ideal Standard come risarcimento per aver abbandonato la fabbrica.

Il 21 ottobre 2018 raccontò il salvataggio alla convention della Leopolda a Firenze organizzata da Matteo Renzi. Si presentò sul palco con un sanpietrino prodotto nella fabbrica di Roccasecca, spiegando che si trattava di un esempio di economia circolare, «la vera rivoluzione industriale che dobbiamo cavalcare». «Mi è sempre piaciuto pensare alle mie aziende come a una cucina a vista: tutti devono sapere cosa si prepara», ha detto in un’intervista al settimanale cattolico Credere.

Alla Gkn ha provato a fare la stessa cosa. Ha costituito una nuova società, la Quattro F (Qf), che sta per “Fiducia nel Futuro della Fabbrica di Firenze”. Al ministero dello Sviluppo economico e ai sindacati ha presentato un piano di rilancio in cinque fasi, dall’ingresso di nuovi soci entro marzo all’avvio della produzione nel 2023, fino al reintegro di tutti i lavoratori entro il 2024. La società è stata acquistata a costo zero e, nel bilancio del 2021, tra i ricavi figurano 25 milioni di euro – si presume versati dal fondo Melrose – di «indennizzo riconosciuto alla società per l’interruzione della produzione», associati a una perizia che porta la data del 6 dicembre. «Il giorno del passaggio di proprietà Borgomeo ci disse che potevamo tornare a casa perché era tutto risolto e potevamo stare tranquilli, che avrebbe messo le guardie private a protezione dello stabilimento e ci avrebbe richiamato quando tutto sarebbe stato pronto», dice Matteo Moretti, delegato sindacale da 14 anni.

Questa volta il recupero però non è riuscito. Non sono arrivate offerte concrete né da investitori stranieri né da italiani. Borgomeo ha sostenuto che ciò è avvenuto per la difficoltà a entrare in possesso della fabbrica, occupata “illegalmente”, e per il mancato sostegno del governo, che non ha concesso gli ammortizzatori sociali.

I lavoratori imputano invece il fallimento alla mancanza di un piano industriale credibile, capace di attrarre investimenti e di convincere il ministero del Lavoro a concedere la cassa integrazione ordinaria. Così sono ancora qui, in una piovosa giornata di novembre, a presidiare la fabbrica per evitare che qualcuno si presenti a svuotare i magazzini o a smontare i macchinari.

L’ultimo tentativo risale al 7 novembre. Quella mattina, verso le 8, era annunciato l’arrivo dei camion della Qf per sgomberare “rottami e rifiuti” dall’azienda. I lavoratori temevano invece che avrebbero cominciato a svuotare lo stabilimento e si preparavano a impedirne l’accesso. Non era la prima volta che accadeva: a maggio nello stabilimento si erano presentati due sconosciuti, in seguito identificati dagli operai come rappresentanti della Gkn arrivati dalla sede principale italiana a Brunico, in Alto Adige, e da quella spagnola di Vigo. Agli inizi di luglio, la compagnia automobilistica Stellantis – uno dei maggiori clienti di Gkn – aveva reclamato la consegna di alcuni macchinari e di componenti per auto del valore di otto milioni di euro, in particolare semiassi per la trasmissione del moto dal motore alle ruote, depositati negli 80 mila metri quadri di piazzale e di magazzini. In entrambi i casi i lavoratori avevano impedito che materiale e macchinari fossero portati via.

La mattina del 7 novembre i tir però non si sono visti. La Qf ha diramato una nota in cui ha sostenuto che «non c’erano le minime garanzie di sicurezza per svolgere le attività previste» e che «lo stabilimento è occupato abusivamente e gestito illegalmente». Secondo i lavoratori si trattava solo di un pretesto per farli allontanare dalla fabbrica. «La verità è che vogliono andare avanti senza di noi», dice Alessandro Tapinassi, uno dei lavoratori più anziani. «Ci è molto chiaro che, se lasciamo la fabbrica, non rientreremo mai più al lavoro», conclude Moretti. Due giorni dopo la Qf  ha smesso di anticipare la cassa integrazione ai lavoratori, com’era accaduto nei mesi precedenti, versando lo stipendio solo a una quarantina di dipendenti: sono quelli che effettivamente lavorano ancora, principalmente per attività di manutenzione, e sono in ulteriore calo.

Lo stesso Borgomeo ha fatto sapere che il ministero del Lavoro non aveva riconosciuto alla ex Gkn la cassa integrazione ordinaria, un assegno mensile di 900 euro pagato dall’Inps a ciascun lavoratore che viene concesso alle aziende in difficoltà. Gli ammortizzatori sociali sono stati concessi solo per dieci settimane, dall’inizio di gennaio alla metà di marzo 2022, per consentire la ripartenza dopo l’acquisto della fabbrica dal fondo Melrose, e la proroga era subordinata alla presentazione di un piano industriale che non è mai arrivato. Scaduti i due mesi e mezzo, Borgomeo ha continuato ad anticiparla fino a ottobre. A suo parere i maggiori ostacoli alla ripartenza sarebbero l’assenza di ammortizzatori sociali e l’occupazione della fabbrica da parte degli operai.

I sindacati invece pensano che il ministero del Lavoro abbia valutato che non ci fossero le premesse per una riapertura. «La cassa integrazione non è stata concessa perché non esiste un progetto concreto di reindustrializzazione», dice il segretario della Fiom-Cgil Daniele Calosi.

In estate sembrava che la vicenda si avviasse verso una soluzione positiva. Il 28 luglio è stato costituito un consorzio di imprese per investire nella ex Gkn. Iris Lab – questo il nome – era composto da Qf e da altre cinque aziende italiane: Itema, Bonfiglioli, Lafert, Gruppo Sumitomo e Faist Electronics.

Il 31 agosto al ministero dello Sviluppo economico erano tutti attesi per formalizzare la proposta. Invece si è presentato il solo Borgomeo, che ha spiegato che la reindustrializzazione sarebbe stata realizzata solo da Qf e che per questo «è fondamentale la possibilità di ricorrere al sostegno della cassa integrazione». Il coordinatore della Struttura per le crisi d’impresa del ministero Luca Annibaletti, si legge nel verbale della riunione, «ha ricordato, come peraltro verbalizzato chiaramente nel precedente tavolo del 22 luglio 2022, che per la concessione della cassa integrazione è necessaria la presentazione da parte di Qf di un dettagliato piano industriale, che consenta di verificarne la compatibilità con le misure di sostegno dell’occupazione richieste. Pertanto, ha invitato l’azienda a presentare un piano industriale che illustri compiutamente le fasi del progetto di reindustrializzazione, specificando anche le relative risorse». Il piano non è stato presentato e la cassa integrazione non è stata concessa.

Gli operai ora sono esasperati e non credono più alle promesse. All’ultimo tavolo di crisi convocato il 3 novembre all’ex Mise, nel frattempo diventato ministero delle Imprese e del Made in Italy, il capostruttura Annibaletti ha chiesto «un cambiamento nella governance della società e la nomina di un advisor [un consulente finanziario, ndr] indipendente da condividere con le organizzazioni sindacali», in modo da «garantire la trasparenza e una procedura di selezione di possibili nuovi investitori». Borgomeo, si legge nel verbale, ha accettato la proposta. I lavoratori hanno chiesto «un sostegno da parte del governo, attraverso l’ingresso di Invitalia o altro soggetto pubblico nel capitale di Qf, per garantire il futuro industriale e il rilancio del sito». Al momento, tutte le ipotesi di rilancio sono scomparse e le possibilità di riconvertire la fabbrica appaiono scarse.

Nel frattempo i lavoratori hanno messo in mora la società, chiedendo il pagamento della cassa integrazione o, in alternativa, dell’intero stipendio, come aveva fatto fino a dicembre 2021 il fondo Melrose, dopo che la procedura di licenziamento collettivo annunciata il 9 luglio 2021 era stata annullata il 20 settembre successivo dalla giudice del lavoro di Firenze Anita Maria Brigida Davia per “violazione dei diritti sindacali”.

Lunedì 14 novembre 2022 i lavoratori sono entrati alla spicciolata in consiglio comunale a Firenze. Lo hanno occupato e una trentina di loro è rimasta nella Sala dei duecento di Palazzo Vecchio per tutta la notte. Chiedevano al sindaco Dario Nardella, del Partito Democratico, di fare come il suo predecessore Giorgio La Pira che nel 1953 si schierò con gli operai licenziati dalla Pignone e riuscì a convincere l’allora presidente dell’Eni Enrico Mattei a comprare l’azienda, convertendola dalla produzione di telai tessili a quella di macchine per il settore petrolifero e per quello del gas naturale. «Non siamo qui solo per il pagamento degli arretrati, ma per fare un vero passo in avanti», hanno detto. «Stiamo cercando di portare avanti un nostro progetto di recupero, ma dovremmo avere la possibilità di utilizzare gli spazi della fabbrica, almeno in via temporanea», spiega Dario Salvetti, un altro delegato sindacale.

Con il sostegno di un gruppo di economisti della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, i lavoratori hanno messo a punto un progetto di riconversione che prevede la produzione di componenti meccanici per i bus elettrici del trasporto pubblico locale, nell’ottica di un “polo pubblico della mobilità sostenibile”. Nardella ha solidarizzato con i lavoratori, ha scritto una lettera al ministro del Made in Italy Adolfo Urso invitandolo a visitare lo stabilimento e ha detto che è necessario «trovare nuovi investitori che possano mettere sul tavolo nuovi piani industriali».

Per “mettere in regola l’occupazione” i lavoratori hanno formato una Società di mutuo soccorso, una forma societaria prevista dal codice civile che ha la finalità di erogare «contributi economici e servizi di assistenza ai soci che si trovino in condizione di gravissimo disagio economico a seguito dell’improvvisa perdita di fonti reddituali personali e familiari e in assenza di provvidenze pubbliche». Lo spiega la sera del 21 novembre Salvetti alle 400 persone arrivate davanti alla fabbrica per seguire un’assemblea pubblica convocata dai lavoratori al fine di “rompere l’assedio”. Era atteso l’intero consiglio comunale di Firenze, invitato dagli operai a tenere una riunione straordinaria in fabbrica.

Il presidente Luca Milani del Partito Democratico, un ex operaio metalmeccanico, aveva accettato, ma alla fine il centrodestra si è opposto e per evitare polemiche il consiglio straordinario si è spostato a Palazzo Vecchio. Al termine i consiglieri hanno approvato un ordine del giorno che chiede alle banche locali di anticipare i pagamenti agli operai. Davanti alla fabbrica, i lavoratori hanno denunciato che il 7 dicembre «sarà il secondo mese senza stipendi», riferendosi a ottobre e novembre: nel settore metalmeccanico la retribuzione viene pagata nei primi giorni del mese successivo. Se i soldi non arriveranno, «sarà come inviarci nuovamente una lettera di licenziamento». «È un modo subdolo per spingerci ad andar via», dice Moretti.

Al termine dell’assemblea il Collettivo di fabbrica ha annunciato una consultazione aperta ai cittadini, dall’1 all’11 dicembre, per decidere il futuro della Gkn. «L’unica alternativa è tra il privato che sta ricattando il pubblico per avere soldi a babbo morto e socializzare le perdite e una fabbrica con intervento pubblico, pubblica utilità, controllo pubblico e socialmente integrata al servizio del territorio».