L’importanza di San Gennaro per Napoli

In pochi altri posti esiste un culto devozionale così partecipato: la città vuole renderlo patrimonio immateriale dell'UNESCO

San Gennaro disegnato da Jorit, quartiere di Forcella, Napoli (Wikimedia Commons)
San Gennaro disegnato da Jorit, quartiere di Forcella, Napoli (Wikimedia Commons)
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Sabato 26 novembre, al museo diocesano di Napoli, le massime autorità politiche e religiose della città candideranno ufficialmente il culto di San Gennaro come patrimonio immateriale dell’UNESCO. La candidatura dovrà passare prima attraverso l’esame del ministero della Cultura, che le riceve da tutte le regioni italiane e poi decide quale mandare all’UNESCO, ma è comunque un fatto significativo, l’ennesima dimostrazione di quanto il santo patrono di Napoli sia profondamente intrecciato con l’identità stessa della città in un modo che ha pochi eguali nel resto d’Italia.

Sebbene esistano altri legami culturali molto radicati tra importanti città e il loro santo, per esempio con Sant’Antonio a Padova, solamente a Napoli si è sviluppata una mistica così estesamente partecipata e frequentemente alimentata, non solo dalla comunità dei credenti ma dall’intera collettività. Non una ma tre volte all’anno, nel Duomo che si trova proprio accanto al museo diocesano, centinaia di napoletani e turisti curiosi assistono alla famosa liquefazione del sangue di San Gennaro. Dopo il cosiddetto “miracolo”, che si compie quasi sempre, le persone presenti applaudono e gli alti prelati baciano l’ampolla contenente il liquido, che poi viene portato in processione. Quando il sangue non si scioglie, invece, viene considerato un presagio preoccupante.

Ad assistere alla cerimonia in prima fila ci sono le “parenti”, donne anziane che secondo la tradizione popolare sarebbero discendenti di San Gennaro. La comunità riconosce loro una «familiarità atavica» con lui, al punto che si permettono di chiamarlo faccia ngiallut’, ingiallita, dal colore dorato del busto che lo raffigura e che contiene il teschio attribuito al santo. Ma d’altronde il rapporto tra i napoletani e san Gennaro è sempre stato quasi confidenziale, paritario. Per una persona di Napoli appellarsi alla sua figura è una sorta di intercalare, un riferimento a una presenza costante che può venire in soccorso specialmente nei momenti più difficili, a prescindere se quella persona sia cattolica praticante o meno.

Essendo parte integrante della cultura popolare napoletana, San Gennaro è finito persino nei proverbi. In caso di un incontro improbabile e straordinario, a Napoli si usava dire «se so’ ‘ncontrate a test’ e o’ sang’».

La frase deriva dalla biografia di San Gennaro. Secondo la tradizione, nacque nel III secolo dopo Cristo e divenne vescovo di Benevento in un’epoca in cui le persecuzioni dei cristiani erano ancora frequenti (l’editto di tolleranza di Costantino fu emanato solo all’inizio del IV secolo). A causa della sua attività di proselitismo, San Gennaro fu condannato a morte, ed è qui che secondo la fede cattolica sarebbe avvenuto un primo miracolo: fu portato nell’anfiteatro di Pozzuoli per essere sbranato vivo da animali feroci, che però si sarebbero inchinati miracolosamente al cospetto del santo dopo la sua benedizione. I giudici allora lo condannarono alla decapitazione, e questo secondo metodo invece fu più efficace.

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La leggenda dice che una donna, Eusebia, raccolse un po’ del sangue di San Gennaro dopo la decapitazione. Dopo qualche tempo, in un paesino di nome Antignano, Eusebia incontrò il vescovo Cosimo (o Severo, secondo altre versioni) che veniva dal primo luogo di sepoltura di San Gennaro, l’Agro Marciano. Lì Cosimo aveva trafugato la testa del santo e la stava portando verso Napoli. Racconta il libro San Gennaro. Viaggio nell’identità napoletana:

La donna consegnò al Vescovo le ampolline: il sangue che vi era racchiuso, al richiamo di quel corpo da cui era stato tratto, si sciolse tornando rosso e scintillante, e costituirà il cosiddetto Tesoro di San Gennaro. È quindi l’incontro del corpo – ossia del capo – di San Gennaro con il suo sangue a produrre questa sorta di reviviscenza. Testa e ampolle rimasero sempre accanto, anche quando cominciò il fortunoso viaggio, più volte mutato, del corpo decapitato, che venne infine portato al Duomo dove già coesistevano il capo e il sangue.

Da qui il proverbio. La scarsità di informazioni sulla vita di San Gennaro deriva dal fatto che non lasciò molte tracce, né scritte né di altro tipo. I racconti sulla sua vita si sono tramandati attraverso memorie orali e poche attestazioni scritte, comunque di almeno due secoli dopo l’epoca in cui si pensa che visse il santo. Molto probabilmente il culto ha attraversato fasi “dormienti”, che si sono intensificate solo a partire dal XIV secolo (la prima menzione della liquefazione del sangue è datata 1389).

La peculiarità del culto di San Gennaro sta anche nel fatto che nel resto d’Italia non viene particolarmente seguito, probabilmente anche come conseguenza delle riforme introdotte dal Concilio Vaticano II, che cercò di attenuare le forme di venerazione più folcloristiche. Da allora San Gennaro è stato rimosso dal calendario ufficiale dei Santi e per le diocesi italiane coltivare la sua memoria è facoltativo. Lo stesso scioglimento del sangue non è stato elevato al rango di miracolo vero e proprio, ma è ritenuto un più semplice “fatto prodigioso”. Tutto ciò non ha diminuito la centralità della figura di San Gennaro per i napoletani, né lo ha fatto la scienza che ha tentato di spiegare il fenomeno.

Quello che la fede e il folclore definiscono “miracolo” è ovviamente un fenomeno fisico che, se opportunamente studiato, potrebbe essere spiegato scientificamente: la Chiesa cattolica però non ha mai autorizzato esami scientifici sulla reliquia. Ci sono comunque almeno due ipotesi tra le più accreditate: la prima è che la sostanza contenuta nell’ampolla abbia un basso punto di fusione, e che quindi si sciolga appena riscaldato; la seconda è che alla base del fenomeno ci sia una particolare proprietà che hanno certe sostanze di liquefarsi quando vengono agitate, la tissotropia.

Al di là delle motivazioni religiose, l’intensità del culto per San Gennaro ha anche ragioni antropologiche, che hanno a che fare con un certo tratto dell’identità di Napoli: la propensione a votarsi a un’entità superiore e la facilità con cui la città è in grado di costruire miti efficaci, persino con personaggi che non sono autoctoni. Si pensi a Diego Armando Maradona, che giocò nel Napoli sette anni e tanto bastò per farlo diventare una specie di divinità laica e calcistica, ancora oggi venerata da tutte le generazioni di napoletani.

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Venerare i Santi è un’abitudine antichissima che si declina in molti modi. Nel caso di Napoli, essere presenti all’evento miracoloso sembra essere un fatto centrale. «Che cosa tiene unito il popolo napoletano? Perché esso ha scelto di radunarsi intorno al suo Santo e soprattutto si pone come principio imprescindibile quello di assistere allo scioglimento del sangue?», si chiede lo psicologo Francisco Mele in un articolo scientifico intitolato Il popolo di San Gennaro. «Si può formulare un’ipotesi, che non sostituisce o cancella le altre interpretazioni del sangue come rapporto simbolico di unità e di collante della stessa comunità».

L’ipotesi di cui parla Mele si rifà alla teoria della “mnemo-storia”, ossia della storia fatta attraverso la memoria. Di San Gennaro non esistono molte tracce storiche vere, quindi assistere allo scioglimento del sangue è diventato un atto di testimonianza della vita del Santo, una partecipazione ritualizzata. «San Gennaro è una figura della memoria, mentre sul piano storico non siamo in condizione di esibire dei documenti decisivi in merito alla sua esistenza» scrive Mele. «San Gennaro vive nel ricordo e si riattualizza in ogni rito quando l’ampolla con il sangue viene esposta ai fedeli». La teoria della “mnemo-storia” fu ideata per la prima volta dall’egittologo Jan Assman per interpretare la figura biblica di Mosè, di cui, al pari di San Gennaro, non esistono molte tracce storiche.

Infine, un altro spunto per comprendere la centralità di San Gennaro nella cultura napoletana l’ha dato Peppe Barra, cantante e attore di teatro. Barra in più occasioni ha riflettuto sulla figura del santo secondo una visione metaforica, una sorta di simbolo non solo dell’identità ma della geografia stessa della città: «San Gennaro è stato decapitato» ha raccontato Barra al giornalista Diego Bianchi, durante una puntata di Propaganda Live. «In Duomo c’è il busto ancora con il teschio dentro. Ora, immagina questo busto senza la testa, con il sangue che cola: è il Vesuvio. Il sangue che si solidifica di San Gennaro ha un’attinenza impressionante con la lava».

C’è una leggenda sul Santo che riguarda proprio un’eruzione del Vesuvio, avvenuta il 16 dicembre 1631. Sembrava che potesse essere particolarmente potente, ci fu l’apertura di un cratere laterale sul vulcano e varie attività esplosive con colate di lava. Secondo la leggenda l’eruzione cominciò ad affievolirsi solo dopo che vennero esposte le reliquie di San Gennaro. Nel 1768 venne messa sul ponte della Maddalena, a est di Napoli, una statua del santo nell’atto di fermare la lava, con una mano rivolta verso il Vesuvio.