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  • Giovedì 17 novembre 2022

Il primo rapporto della CEI sugli abusi nella Chiesa dice molto poco

Era molto atteso, ma è stato elaborato su dati parziali e il risultato finale è assai deludente

(Dan Kitwood/Getty Images)
(Dan Kitwood/Getty Images)
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Giovedì a Roma è stato presentato il rapporto “Proteggere, prevenire, formare” della Conferenza Episcopale Italiana, un documento annunciato lo scorso maggio dal presidente della CEI Matteo Zuppi che avrebbe dovuto essere, o almeno così si era capito allora, la prima parte di una indagine indipendente commissionata dalla Chiesa italiana sugli abusi sessuali e la pedofilia commessi al proprio interno, finora mai realizzata. In realtà il rapporto considera solo alcuni casi segnalati alla Chiesa stessa avvenuti fra 2020 e 2021, e perciò offre un quadro assai limitato e parziale.

Nella Chiesa italiana ci sono sempre state enormi resistenze nei confronti di questa inchiesta. La prima parte del rapporto era pertanto molto attesa anche perché, negli ultimi anni, diverse Chiese nel mondo hanno realizzato queste indagini in modo approfondito e dettagliato: che avevano portato tra l’altro, come ad esempio in Francia, al riconoscimento ufficiale della responsabilità istituzionale della Chiesa per le violenze sessuali e gli abusi subiti da migliaia di persone negli anni, e al riconoscimento, anche, della «dimensione sistemica» di quelle stesse violenze. L’indagine presentata oggi in Italia è però di tutt’altro tenore. Zuppi non era presente alla conferenza stampa di presentazione.

Il rapporto è contenuto in 40 pagine redatte da esperti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Presenta una mappatura dei Servizi territoriali e dei Centri di ascolto per la tutela dei minori attivati nelle diocesi, cioè le zone amministrative in cui la Chiesa divide i pezzi di mondo in cui è presente: per gran parte dell’indagine (almeno 35 pagine su 40) si spiega come sono costituiti, quali sono le attività svolte, quali sono «i punti di forza e quelli che andranno maggiormente consolidati». Il report vuole innanzitutto, come si dice nella sua introduzione, «illustrare la realtà delle buone pratiche sviluppate dalla Chiesa in Italia per prevenire e contrastare gli abusi». La questione degli abusi o dei fatti segnalati a questi servizi interni alla Chiesa, che avrebbe dovuto essere centrale, è affrontata solo in un breve passaggio: in modo comunque molto parziale e solo in relazione agli anni 2020 e 2021. Zuppi aveva annunciato che il rapporto doveva riguardare i casi avvenuti negli ultimi vent’anni, dal 2000 al 2021: non ci sono spiegazioni sul perché la prima parte contenga i dati di due anni su venti.

Innanzitutto si dice che i Servizi diocesani o inter-diocesani per la tutela dei minori sono presenti in tutte le 226 diocesi italiane. Si dice poi che la maggior parte delle diocesi (70,8%) ha attivato un Centro di ascolto, ma i dati relativi alle segnalazioni di abusi riguardano solo 80 Centri attivati molto di recente, quasi tutti a partire dal 2019.

Nei due anni analizzati il totale dei contatti registrati dai Centri di ascolto, cioè il numero delle persone che si sono rivolte a uno di questi Centri per segnalare un abuso, è stato di 86: 38 contatti nel 2020 e 48 nel 2021. I casi segnalati, anche per fatti riferiti al passato, riguardano 89 persone.

Le persone che hanno contattato i centri sono soprattutto donne (54,7%). In oltre la metà dei casi è stata la stessa vittima ad effettuare la segnalazione (52,3% dei casi), mentre nel 47,7% dei casi a rivolgersi al Centro è stata una persona non direttamente vittima di abuso.

Il motivo di questi 86 contatti, in oltre la metà dei casi, è rappresentato dalla denuncia all’autorità ecclesiastica (53,1%), in misura minore dalla richiesta di informazioni (20,8%), oppure dalla richiesta di una consulenza specialistica (15,6%). Il sospetto di un abuso, si precisa nel report, costituisce un ulteriore motivo di contatto con il Centro di ascolto, pari al 10,4%.

«L’età delle presunte vittime segnalate nel biennio 2020-2021», dice il rapporto, si concentra nella fascia d’età 10-18 anni. Il 37,1% e il 31,5% delle presunte vittime ha un’età compresa, rispettivamente, tra i 15 e e i 18 anni e tra i 10 e i 14 anni. Il 18,0% di casi segnalati riguarda presunte vittime che hanno più di 18 anni e «spesso in questi casi si è trattato di adulti considerati vulnerabili». Nessuna segnalazione per presunte vittime che abbiano meno di 5 anni, mentre nella fascia d’età 5-9 anni le segnalazioni rappresentano il 13,5% del totale.

Tra i tipi del presunto reato di abuso segnalato prevalgono i «comportamenti e linguaggi inappropriati» e seguono, in ordine di frequenza, «toccamenti», «molestie sessuali», «rapporti sessuali», «esibizione di pornografia», «adescamento online» e «atti di esibizionismo».

Il rapporto contiene anche un’analisi del profilo dei presunti autori delle violenze, che risultano essere 68 in totale: riassumendo si può descrivere come un maschio adulto di età compresa tra i 40 e i 60 anni. Si tratta soprattutto di quelli che il report indica come chierici, probabilmente riferendosi ai preti (nel 44,1% dei casi): seguono laici (33,8% dei casi) e, infine, il personale religioso, un termine con cui la CEI verosimilmente indica frati e suore, in netta minoranza (22,1% dei casi).

Infine, in un’altra tabella, il documento spiega gli interventi che sono stati offerti dopo le segnalazioni. Qui i casi considerati sono solamente 57: in 4 casi su 10 sono state fornite «informazioni e aggiornamento sull’iter della pratica». Ai presunti autori degli abusi sono stati proposti «percorsi di riparazione, responsabilizzazione e conversione, compresi l’inserimento in “comunità di accoglienza specializzata” (un terzo dei casi rilevati) e percorsi di “accompagnamento psicoterapeutico” (circa un quarto dei casi)». Per quanto riguarda gli interventi concreti si dice: «A seguito della trasmissione della segnalazione all’Autorità ecclesiastica da parte dei Centri di ascolto, tra le azioni poste in essere sono risultati prevalenti i “provvedimenti disciplinari”, seguiti da “indagine previa” e “trasmissione al Dicastero per la Dottrina della Fede”». Non si parla in alcun caso di segnalazione alle autorità.

Il report e i suoi contenuti sono stati criticati da più parti. Stefano Feltri su Domani ha innanzitutto fatto notare che i Centri di ascolto presi in considerazione nell’indagine non possono rappresentare un osservatorio efficace per misurare la portata del fenomeno degli abusi nella Chiesa, potendo fornire solo una visione parziale e anche molto recente. Francesco Zanardi, presidente della Rete L’Abuso – Associazione sopravvissuti agli abusi sessuali del clero, ha detto che il report «è uno specchietto per le allodole»: «Sono sbigottito. Considera solo 2 anni, in cui tra l’altro c’è stato il Covid e solo i dati degli sportelli delle diocesi. Il cardinale Zuppi aveva parlato di 20 anni, ora il lasso di tempo è stato ulteriormente ridotto». Commentando i pochi e recenti dati disponibili, Zanardi ha comunque detto che sono «allarmanti»: «In quel report non compaiono i casi della congregazione per la Dottrina della Fede, i casi finiti in magistratura e i casi che abbiamo noi come associazione».

Durante la conferenza di presentazione del report è stato detto che i fascicoli con accuse di abuso a carico di chierici depositati dalle diocesi dal 2000 ad oggi al dicastero della Dottrina della Fede sono 613. Su questi è stato anticipato che la CEI avvierà una ulteriore indagine: i risultati confluiranno probabilmente nel rapporto definitivo.

Durante la conferenza stampa è stato inoltre precisato che il numero dei 613 fascicoli non significa che ci sono stati 613 casi di pedofilia sacerdotale dal 2000 a oggi in Italia. Il segretario generale della CEI, l’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi, ha spiegato: «Un singolo abusatore potrebbe essere autore di più abusi. Così come può darsi che la segnalazione sia stata archiviata perché infondata. Bisogna dunque attendere i risultati della ricerca per una fotografia più precisa».